venerdì 5 giugno 2020

Luoghi del cuore 8: Lisbona

Dalla finestra - Lisbona - gennaio 1980


Il porto dal belvedere
Lisbona è una città dolce e salata, un equilibro delicato di sensazioni, nel quale adagiarsi e trascorrere un tempo senza affanni. Il sale dell'oceano, davanti a te che ti racconta il tuo essere ai confini dell'Europa a guardare le strade del mondo. Un punto estremo, un confine tra un arrivo dal conosciuto e la partenza per l'ignoto e l'incommensurabile. Un limite dal quale gettare lo sguardo verso un al di là, immaginato, non ancora visto. Mi rivedo ancora solo pochi anni fa, esattamente dall'altra parte in uno dei punti di arrivo, a Newport nel Rhode Island, dove da un analogo luogo, una aguzza freccia indica proprio Lisbona, oltre l'Oceano, come a segnare il proprio omologo, a definire quale sia il giusto punto di partenza per quel Nuovo Mondo. Proprio da Lisbona partiva l'idea di una navigazione che lo avrebbe abbracciato tutto, il mondo, il suo oriente ed il suo occidente, in un solo grande azzardoso andare, un oceano da vivere più che da affrontare, una promessa di spazi nuovi da raggiungere, scoprire, conquistare. Tutto si rende concreto davanti alla torre di Belen, quasi una nave di pietra in procinto di partire, una promessa di avventura e di ricchezze lontane. 

Portale
Questa è la costa dove il desiderio di conoscenza dei nuovi spazi si fa più evidente, un poco come la Cape Canaveral di mezzo millennio dopo. Poi a mediare questa spinta irresistibile, ecco la dolcezza assoluta del vivere tranquillo di questa città, comunque laterale alle spinte estreme del ventunesimo secolo, che si culla in una vita apparentemente tranquilla, priva di stress, addirittura diversa da quella che ti aspetti da una capitale. Le antiche strada dell'Alfama, dove il tram si arrampica verso il belvedere, la vista dall'alto dei tetti rossi, i profumi di fiori e le note tristi ma dolcissime del fado che escono dalle taverne della città bassa. Una città in cui deve essere piacevole vivere, seduti ai caffè dalle vecchie sedie di legno scuro, coi tavolini di marmo, a leggere un giornale o camminando tra vecchi monasteri dai ricchi portali in stile manuelinico, trine di marmo in cui perdere l'occhio ammirato o antiche facciate coperte di azulejos che colorano le strade di un azzurro cielo. Un cielo in cui le nuvole corrono veloci a portare pioggia lontano, all'interno del continente. Ci sono stato un paio di volte. 



La sagoma della torre del Belem
Un capodanno lontano passato in un locale seminterrato, a mangiar bacalao, mentre le cameriere passavano correndo e dispensando a destra e a manca bon ano e su un piccolo palco si alternavano cantanti con grandi mantelli neri o donne dai capelli nerissimi e scialli colorati, con le voci roche e gli occhi tristi. Poi un'altra notte a mangiare carne in un antico locale del centro dove registravi una atmosfera casalinga. Ci sarei dovuto ripassare di nuovo anche a fine marzo e già ne assaporavo i profumi ed i rumori distillati nella mente dell'esperienza passata. Il virus me lo ha negato. Poco male, direte voi, le cose gravi sono ben altre, è vero, ma lo sento un poco come una deprivazione, qualche cosa che mi è stato tolto e forse non mi sarà mai più restituito, anche se non si può mai dire. Tanto meglio, quei segnali lontani si sono ormai incistati nella mente e rimangono come segnali distintivi di un ricordo, suoni, odori, colpi di vista, come quel grande arcobaleno sul Tago e continueranno a marcare come tag incancellabili, quella sensazione di sottile piacere che ti rendono cari certi luoghi della tua vita e li mantengono lì, vivi in attesa di essere ripresi un giorno, oppure di rimanere per sempre a rappresentare un desiderio.

La costa oceanica vicino a Cabo Finisterre



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