venerdì 29 maggio 2020

Luoghi del cuore 3: Il monastero di Lamayuru


Lamayuru- Ladakh -India - agosto 1978

La valle perduta
   L'aereo è senza ombra di dubbio il mezzo che più ha cambiato le possibilità di vedere il mondo in tempi accessibili a tutti, dandoci in questo modo opportunità nuove. Soprattutto raggiungere in un attimo luoghi a cui prima era faticoso, a volte impossibile accedere, se non con voglia vera, tempo a disposizione e volontà di adattamento. Un miglioramento imprescindibile che ha concesso a tutti progettualità nuove, momenti di conoscenza senza prezzo che un tempo erano negati ai più. Chissà se riusciremo ad avere indietro questa possibilità avuta dalla nostra generazione, per la prima volta nella storia. Tuttavia in qualche caso ha anche tolto qualche cosa. Infatti per raggiungere luoghi lontani ed isolati ai quali adesso potevi accedere, è il caso di dirlo in un battito d'ali, anche se di robusto acciaio, erano necessari giorni di faticoso percorso, che però consentivano di transitare in luoghi altrettanto se non più ancora dimenticati ma spesso ricchi di caratteristiche assolutamente uniche, che invece il nuovo mezzo ti fa irrimediabilmente perdere definitivamente. Oggi infatti a Leh, la capitale del Ladakh, quello scampolo di territorio indiano politicamente, ma tibetano nella sua essenza e nella sua cultura, arrivi facilmente con un volo da Delhi o da Srinagar, in un'oretta. 

Giovani turisti al Namika-la

Allora, quando la valle nascosta che penetrava le montagne tra Karakorum e Himalaya, la dovevi percorrere con un autobus scassato dalle fiancate coloratissime, carico di fagotti e stie di polli, con la scritta Horn please, vergara a caratteri cubitali sul retro e guidato da un robusto sikh dall'imponente turbante rosso scuro, ci volevano tre giorni, percorrendo uno stradino tortuoso, interrotto frequentemente dalle frane estive, con strapiombi ai lati di mille metri, sul fondo dei quali brillavano le lamiere di qualche mezzo precipitato dopo qualche imprudente manovra e che risaliva la montagna con passi superiori ai 4000 metri. La strada attraversava la zona del Jammu fino a Kargil, in un territorio contestato che da decenni deve assistere a scaramucce sanguinose tra India e Pakistan fino al passo del Namika-la e dopo una trentina di  chilometri da percorrere in una oretta, arrancando su per le balze scoscese della montagna, il Fotu-la a 4108  metri, dove lasci definitivamente la terra dell'Islam per entrare in quella del Buddha. Prima i paesini abbarbicati sugli speroni ai bordi della strada erano segnati da piccole moschee dalle pareti dipinte di verde con minuscoli e sottili minareti che ne contrassegnavano l'identità religiosa, con qualche scritta in urdu sull'ingresso.

Monastero di Lamayuru

Poi sulle pareti della montagna o sui picchi isolati che delimitavano la strada trovavi altorilievi di dei terrifici a protezione della montagna o bianchi chorten incoronati di bandiere di preghiera che il vento teso della valle portava fino al cielo, ad ogni passo sempre più tinto di un blu cobalto punteggiato di riccioli bianchi, sbuffi di nuvole uguali a quelle che ornavano i gli affreschi delle tankhe antiche appese alle pareti dei templi. Dopo il passo, la strada precipitava per qualche centinaio di meri in una valle larga e gialla di campetti di orzo maturo, in una serie di tornanti e controcurve talmente serpeggianti da rendere obbligatoria anche al bus di linea, una fermata per ammirarne la incredibile grafica. Poi al massimo sopo una decina di chilometri, uno sperone roccioso che si elevava a lato di un gruppo di case bianche dai tetti rossi, con le finestre contornate per evidenziarle meglio, nel caratteristico stile tibetano. sopra il quale si elevava in un tutt'uno con la tenera roccia circostante, il monastero di Lamayuru. La valle appariva stranamente silenziosa, quasi nessuno in giro, neppure nei campi lontani. Qualche bimbo sulle soglie delle case, ma senza le consuete grida dei giochi di una infanzia segnata da uguali e chiassosi stilemi in ogni parte del mondo. 

La strada dopo il Fotu-la
Lasciato il bus che proseguiva verso il cielo, scendemmo lentamente il sentiero che portava al portale del monastero apparentemente deserto, quando un suono cupo e forte salì da dentro le mura rotolando giù per le balze della valle per raggiungerne i suoi più lontani e reconditi angoli, come un brontolio sordo e gorgogliante, di pancia, una sorta di borborigmo ripetuto e continuo che tentasse di risvegliare spiriti addormentati o di liberarli da catene infernali che li tenevano prigioni nelle profondità della terra a causa di qualche incantesimo maligno. Guardando meglio scorgemmo su un terrazzino interno che sporgeva tra le torri della lamaseria, un gruppo di tonache rosso mattone, due delle quali brandivano lunghissime trombe con le bocche appoggiate fino a terra e nelle quali soffiavano con forza gonfiando le guance in maniera visibile, davanti, un monaco più giovane che li aiutavano a tenerle in equilibrio sostenendole con una corda, mentre successivamente arrivarono un paio di altri con grandi piatti di ottone che sancirono il termine della performance con grandi e sonori sbattimenti. Una scena primordiale alla quale era necessario e doveroso, oltre che davvero coinvolgente, assistere in un silenzio assolutamente religioso, seduti su un rilievo di terra, anche perché, io per lo meno, avevo il fiato mozzo per l'altitudine e quasi non riuscivo più a respirare. Passammo diverso tempo ad ammirare i fantastici affreschi che decoravano le pareti dei porticati interni. Un monaco artista, giovanissimo, ne stava finendo alcuni nella galleria inferiore. Aveva al suo fianco un libro con schizzi e disegni da cui evidentemente prendeva ispirazione. 

Pagine 
Ci sorrise, poi puliti i pennelli li depose in un piccolo astuccio di legno e si alzò per accompagnarci nelle sale interne del tempio, così ricco di stoffe colorate, di dipinti antichi, di statue ricoperte di ori e vermiglione, di altari ricchi di offerte. Banconote di piccolo taglio erano infilate alla base delle statue, tra le mani fissate in gesti dal profondo significato religioso. Al fianco la sala della biblioteca in cui erano ammucchiati un po' disordinatamente centinaia di libri sacri, costituiti da fogli staccati, uniti gli uni agli altri da un filo nero centrale e racchiusi tra due tavole di legno scolpito finemente e colorato di rosso. Ce ne mostrò alcuni, le pagine scritte nella elegante grafia tibetana, alternata a miniature raffinate che raccontavano storie religiose, la cui sola vista invitava al raccoglimento più profondo. Il monaco artista sembrava rapito dalla profonda spiritualità del luogo. Tra quelle mura sante non potevi essere sfiorato da pensieri che non fossero legati alla preghiera e dalla lontananza dalle vanità del mondo. Con sguardo dolce e comprensivo, il religioso prese uno dei fogli di un libro aperto in un canto della stanza, che recava una bella miniatura di un Buddha del futuro benedicente e me la diede con un leggero inchino facendomi cenno di metterla nello zaino che affardellava le mie spalle. Sempre con occhio benedicente infilò nelle pieghe del saio marrone la banconota da cento rupie che gli avevo porto e ci riaccompagnò verso l'uscita, guardandoci risalire faticosamente il sentiero che riportava alla strada. 

Donna ladakhi

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