Era da poco passato mezzogiorno. I binari della stazione di Alma Ata parevano immersi in una lattescenza pallida dalle sfumature grigie che impediva di scorgere anche i binari. La poca neve che riusciva a cadere dal cielo ghiacciato sembrava sospesa per aria e faticava a scendere quasi timorosa di sporcarsi tra le banchine inzaccherate. Nascosto dietro i pilastri, infagottato in una dublijonka di pelle unta, un vecchio uzbeko segaligno stava mummificato dal freddo, con gli occhi ridotti a fessure sottili. Davanti a lui, ordinate su di un piccolo banchetto di legno, una piramide di enormi mele verdi e rosse. Le famose mele di Alma Ata, il Posto delle Mele, dolcissime, forse le più buone del mondo, così almeno recitava lo scrostato manifesto di benvenuto fuori della stazione.
G. ne comprò un paio, le più grosse all'apparenza e salì sul vagone numero 5, quello dove un amico gli aveva trovato un intero scompartimento libero. La capavagone glielo indicò con gesto stanco prima di scomparire nel suo bugigattolo e lui vi si accomodò alla meglio sistemando la valigiona e la borsa nera dei contratti di fronte a lui. Il treno partì alle 13:oo in perfetto orario, come sempre, senza scosse, con una progressione lenta ed implacabile fino a lasciare la città ormai solo un pallido tremolio nella nebbia immobile. Tredici lunghe ore prima di arrivare a Chimkient. Il treno filava veloce e senza scosse, quasi senza rumore come scivolando su un sottile tappeto bianco. Il biancore accecante al di là del vetro ricoperto dalle rose di ghiaccio, aveva una valenza quasi ipnotica nella sua monotonia senza fine, tanto da confondere i sensi, fino a far apparire il convoglio quasi fermo, come se, stanco di quel non-paesaggio avesse deciso di lasciarsi andare, di fermarsi dolcemente e senza scosse nella steppa infinita fino a lasciarsi morire, preda di ferro nella mascella avida del gelo.
Nebbia e neve, bianco assoluto che ottundeva anche i poveri colori all'interno dello scompartimento fino ad annullarli, rendendo nullo anche lo scorrere del tempo, una variabile che forse non esiste nella steppa, non trascorre, forse muta secondo canoni diversi, rimanendo immobile a lungo per poi d'improvviso rivelarsi già passato. Niente linea dell'orizzonte, niente punti di riferimento o montagne lontane a fare da quinte ad uno spettacolo senza parole. Solo una lieve mutazione nel tono di luce annunciò che forse erano già passate molte ore e che un'altra oscurità ancor più caliginosa avrebbe sostituito entro breve tempo il grigiore pallido del giorno. G. si trascinò fino al Vagon Restaurant, senza grandi speranze. Era quasi deserto e sulle tovaglie sporche vicino ad un vasetto con fiori di plastica striminziti e tristi, un cameriere assonnato gli servì una salijanka, la scipita minestra siberiana, dove tra i grandi occhi di grasso galleggiava qualche pezzetto di materia biancastra e un trancio di pesce senza nome, forse un pangasio cinese che gli parve stoppa cenciosa. Rinunciò alla seconda mescita di acqua scura spacciata come thé e ritornò mestamente nel proprio scompartimento per cercare di dormire almeno qualche ora.
La steppa khazaka era ormai scomparsa dalla vista, se mai c'era stata. La notte era scesa di colpo ad assassinare un altro giorno inutile. G. cercò il grande tasto di bachelite sovietica marrone per spegnere la luce, quando, inattesi e sconosciuti, due colpi leggeri, come di nocche gentili batterono la porta. L'anta si aprì piano, scivolando quasi senza rumore. Davanto a lui si ergeva, gigantesca una figura inquietante. Un donnone enorme, quasi due metri di una Khazaka che il parka cinese con inserti di pelliccia di cane rendeva ancor più immensa, fino a farle occupare per intero la luce dell'apertura. Le guancione rosse comprimevano gli occhi quasi chiudendoli mentre i radi capelli neri e untuosi scomparivano in un cappellaccio di lana spessa di colore indefinito. Aveva tra le mani e attorno al collo diversi serti di specie di peperoni rossi e lunghi come corna sataniche che allungò verso di lui ammiccando. Mostrò la merce che quasi si confondeva con dei ditoni grassi e coperti dalle offese del gelo. Sembrò ridacchiare davanti al diniego di G. innervosito per aver aperto la porta, poi con una voce inaspettatamente sottile ed acuta, gli chiese: -Italianiez?- Chissà come è, ma tutti si accorgono subito della nostra nazionalità, o forse più semplicemente era stata informata dalla capavagone. G . pronunciò un Da smozzicato.
A quel punto la Khazaka spalancò la bocca in quello che voleva essere un largo sorriso, mostrando due file di zanne completamente ricoperte di lamina d'oro su cui la scarsa luce della lampada centrale provocò uno scintillio sinistro, un bagliore quasi minaccioso. I 150 kili si spostarono sulla gamba sinistra, per assumere una posizione più vezzosa poi, in tono che parve più che mai ammiccante esalò: - Strip tease? sex massage y khazak bunga bunga, iesli xatitie? (se volete?)- Gli occhi sbarrati di G. fornirono già una risposta esaustiva, bofonchiò comunque uno strascicato -Spassiba- e riuscì a chiudere la porta lasciando ad altri l'offerta tentatrice. Spossato si coricò sul sedile. Poco dopo, ma chi può dire quanto tempo trascorse, il treno entrava fischiando nella stazione di Chimkient. Erano le due e quattro minuti. In perfetto orario come sempre. Prima di scendere, G. addentò una delle due mele, quella più grande, dalla parte dove il verde cambiava in rosso acceso. Era davvero dolcissima.
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1 commento:
Vero. Tutto vero. Anche se non sei stato laggiu', direi che ti sei immedesimato esaurientemente nella situazione...
Ferocemente
FEROX
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