Il plof uzbeko - Taskent - Uzbekistan - maggio 2003 |
Capita spesso, almeno a me, che di un paese ti faccia innamorare più un fatto specifico, una storia, un accadimento secondario, che non i suoi monumenti più famosi. Dell'Uzbekistan, in cui feci un giro per clienti nel 2003, di cui potrei raccontare una serie di aneddoti infinita, rimasi certamente colpito dalla unicità di Bukhara e Samarcanda, ma il giorno che mi legò definitivamente al paese, fu quello della festa per la felice conclusione del collaudo di un impianto piuttosto complesso che eravamo riusciti a rifilare loro dopo lunghe e complicate peripezie. Quel giorno mi è ritornato in mente proprio oggi, mentre fantasticavo su itinerari preclusi, ancora per chissà quanto tempo. Il barbaro destino umano è di aspettare con ansia quello che
sta per arrivare, per poi lamentarsene appena giunge e passare al successivo
step di attesa. Così questo tiepido e calmo pomeriggio di tarda estate, mi ha rimandato ad una
primavera ancora lontana, sognata come una panacea risolutrice. In quell'altra
primavera ancora da sbocciare, gli spogli alberi di Taskent esitavano a
spingere linfa nelle gemme ancora esili di un marzo fresco e polveroso. Taskent non è una città che ti faccia esplodere nell'entusiasmo delle altre città storiche dell'Asia centrale, ma allora aveva l'appeal di quelle terre lontane dalle abitudini sconosciute o lette soltanto su rari libri di viaggio, unite al clima della fine definitiva dell'URSS, con stilemi che ancora resistevano di forza o per abitudine in quella ex periferia dell'impero.
Noi però in quel momento dovevamo festeggiare; infatti l'impianto appena inaugurato in un fatiscente edificio di periferia, richiedeva una consacrazione trimalcionica. Il nostro anfitrione pensò di
evitare il classico banchetto ufficiale nella sala dell'Hotel e ci propose un
localino tipico dove assaporare la esoticità di un ambiente ed una cucina
tipicamente uzbeka. Ecco dunque una corsa nella polverosa periferia sovietica
(chissà perché gli autisti dovevano sempre andare a tutta birra come se fossimo
perennemente in ritardo?) per poi entrare nel cortile di una vecchia casa,
circondato da un portico un po' malandato. Era una antica casa di campagna e di colpo ti sentivi riportato indietro nel tempo. In parte orientale, in parte
turchesco, in salsa sovietica, il banchetto uzbeko è intinto di tutte le
caratteristiche dell'Asia centrale. Le insalate crude, soprattutto di cipolla e
pomodoro ne sono base costante, ma il piatto forte, la vera rivelazione paradigmatica
della gastronomia uzbeka, il costituente centrale che condiziona la festa, ciò
per cui si sceglie un posto (come da noi il bollito alla piemontese o il bue
grasso), è il plof. Il nome stesso è allusivo e onomatopeico, anche se credo che il tema derivi dalla stessa radice di pilaf, ma pareva che
quello, fosse il luogo dove avremmo mangiato il miglior plof di tutto
l'Uzbekistan. Al centro del cortile stava un grande calderone di ferro nero,
simile alla pentolaccia in cui il druido mescola la pozione per Asterix e
compagni. Qui, nella tradizione, fin dal mattino viene prodotto un amalgama di verdure,
abbondante cipolla, uva passa e parti grasse di montone in cui successivamente
viene cotto il riso che si intride a poco a poco, assorbendo il grasso mentre
le ossa rilasciano le loro collosità midollari.
E' un piatto unico dai sapori
forti dove il peperoncino abbondante gioca un ulteriore parte di
dueteragonista. Un punto essenziale nella riuscita di un buon plof sta nel
fatto che il pentolone non deve essere mai lavato, ma i sapori di tutti gli
storici plof che lo hanno preceduto, concorrono ad arricchire quello che viene
portato in tavola. La quantità di residuati escrementizi di topo che circondava
il focolare e la nuvola di mosche che avvolgeva tutto e tutti, facevano parte
integrante dell'ambiente e del suo colore, un'area da cui sono nate tutte le
grandi pestilenze del millennio scorso, inclusa la peste bubbonica di
manzoniana memoria, tutt'ora giustamente endemica in quei luoghi, ma non
sembrava preoccupare nessuno. L'occhio spento di Gianni mi guidò verso le
tavole che rosseggiavano di pomodori cipollosi, ornate dalle ciambelle di
lepjoshke, il caratteristico e fragrante pane uzbeko che veniva dal forno in
fondo al cortile, proprio davanti alle latrine, su cui fitte schiere di mosche
si organizzavano prima di lanciare le loro falangi all'attacco delle mense. Il
succo di mela ed un thè denso e forte, irrorò l'intero banchetto fino all'apoteosi finale dei
famosi meloni uzbeki, che come sottolineava Rustam sono i più dolci del mondo e
che tentarono di ricoprire con un velo vegetale l'intero pasto, avvolgendolo in
un sudario cauterizzante. Vodka, brindisi finali e pridladjenije sulla
imperitura amicizia italo-uzbeka e tutti a casa. Il giorno dopo invece, tutti sul water
fino a sera, mentre un Gianni febbricitante ma non domo, tentava di raccogliere
i cocci della spedizione; una prova dura, da cui uscimmo comunque tutti vivi e
più forti, anche se, sul momento non pareva possibile. La guerra batteriologica
è stata inventata qui e la peste bubbonica e ancora endemica da queste parti, regolatevi.
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Imputato alzatevi
2 commenti:
Ah,Ah,AH...Lol,lol,lol!!!
C est pour toutes ces raisons que nous n'avons fait que regarder la bassine et son contenu sans jamais y goûter .Tu nous avais prévenus .
Jac.
Perfecte choix!
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