martedì 11 agosto 2020

Luoghi del cuore 45: Il ponte di Mostar


Il ponte di Mostar -Bosnia - agosto 1990
 
Tappeti
La Bosnia è una terra bellissima e sfortunata; i guai sembra quasi calamitarseli addosso da secoli, sempre al centro di lotte sanguinose e trucide e di fatti che sono stati via via l'innesco di disastri mondiali. Nasce un po' qui quel trend maligno e creatore di disastri ormai conosciuto come balcanizzazione. In quel periodo in cui il resto del mondo si avviava verso la fine dell'espansione economica facile e senza fine, mentre una sua parte importante lasciava forse per sempre la fascia dei paesi oppressi dalla fame del quarto mondo, grazie a quella benedetta globalizzazione che oggi molti fingono di non capire o che non hanno capito per niente, qui si accumulavano tensioni, soprattutto economiche, alimentati da tare antiche, che si apprestavano a portare ad un punto vicino a dover forzatamente deflagrare di colpo con conseguenze imprevedibili. Eppure nessuno sembrava accorgersene. Noi giravamo per quei monti e per quelle colline boscose sulle quali si ritagliavano grandi prati sfalciati, lungo i quali si allineavano grassi covoni di fieni ammucchiati ad essiccare al magro sole di un'estate esangue ed umida, sempre senza avvertire alcuna strana parvenza di particolare malvolere nei confronti di nessuno, men che meno verso di noi, sempre accolti con gentilezza e offerte di accoglienza. Avevamo passato un paio di giorni nella bella Sarajevo nella quale avvertivi pienamente quella iniezione culturale anatolica che l'aveva in passato probabilmente resa il centro dell'avanzata prepotente di una Turchia in piena espansione, che appariva come inarrestabile fino ad arrivare sotto le mura di Vienna. 

Mostar
I vecchi negozi pieni di cose vecchie, il mercato dove donne e bambini passeggiavano senza immaginare che entro pochi mesi sarebbero diventati i bersagli umani per i cecchini appostati sulla montagna vicina, che ne avrebbero straziato le carni vicino ai banchi adesso pieni di frutti e di verdure fresche. Dai minareti sottili venivano le preghiere diffuse dagli altoparlanti di un Islam così apparentemente gentile da scivolare via con dolcezza tra i tappeti colorati stesi dalle finestre di legno. Poi per pari opportunità eravamo passati dalla kermesse religiosa di Medjugorie, con le sue masse di credenti in cerca di conferme. Sono luoghi, questi della religione di massa, che mi affascinano proprio per questa folla spinta dal credo assoluto che fa scavalcare le montagne e quasi sempre attraverso le stesse iconizzazioni, le preghiere collettive, le processioni infinite, le masse in movimento nell'attesa del momento topico della rivelazione. Le ho trovate dovunque nel mondo, nei conventi buddisti del Tibet o delle feste Birmane, negli inimmaginabili raduni induisti del Khumba Mela o dei festival del Kerala, nelle preghiere collettive islamiche, anche se non ho avuto e purtroppo non avrò mai l'opportunità di vedere le processioni della Mecca. Infine i grandi luoghi della cristianità, le folle che vogliono vedere la Sindone, i bagni nelle piscine sante sparse per il mondo, da Lourdes, alle salite in ginocchio delle scalinate di Fatima o della Vergine di Guadalupe o le cerimonie attorno al Santo Sepolcro, quelle pasquali nelle chiese ipogee dell'Etiopia o le messe affollatissime ed infinite dell'ortodossia moscovita. 

Sul ponte
Ci senti una forza sovrumana che sale dalla folla che cammina, potenziata dal credere, dalla fede di essere nel giusto e dalla certezza che tutti gli altri siano nell'errore. Errore da combattere e da sconfiggere senza se e senza ma, qui senti potente nascere un sentimento generale che accortamente guidato può portare queste masse a fare qualunque cosa, senza giudizi di carattere morale, perché tutto è consentito si deus vult. E qui alla grande processione serale di questo piccolo borgo bosniaco diventato business mondiale grazie ad un oculato gruppetto di veggenti, ricco della solita materia prima del turismo religioso, lo stesso poi che ha creato le varie vie medioevali che portavano fino alla Palestina o a Roma, camminavo tra gruppi di donne oranti con gli occhi rivolti al cielo, condotte qui dalla fede assoluta, dalla necessità, dalla malattia o dalla disperazione, ma tutti nella comune credenza che il solo crederci poteva risolvere il loro problema, al posto loro. Una donna vicino a me mi disse che vedeva chiaramente la Madonna, stupita che io non avessi la stessa visione, mentre camminavamo verso la collina. Poco più in là invece, ero io a rimanere nell'estatica ammirazione degli antichi affreschi dei monasteri di Zavala o di Tvrdos, perché se la religione in assoluto è stata la base creatrice e la giustificazione di ogni conflitto di guerra e dei più grandi eccidi avvenuti nel mondo, ha prodotto anche le più altre espressioni di arte di ogni tempo. 

La Narenda
Così infine eccoci di nuovo sulla sponda opposta, in quella Mostar che ospitava forse il gioiello assoluto della Bosnia Erzegovina, lo Stari Most, il ponte di Mostar, che Solimano il Magnifico volle far costruire da un allievo del famoso architetti Sinan e che costituiva con la sua unica campata a schiena d'asino che attraversava il fiume Narenda, l'unione tra le due parti della città. La sua pura bellezza colpì anche la mia bambina che aveva solo 6 anni  e che rimase a lungo ad ammirarne l'arco perfetto ed il colore ambrato della pietra che lo innalzava, prodigio di statica, sulle basi laterali, facendolo sembrare di una eterea leggerezza, pietra senza peso reale, anch'esso opera possibile solo per intercessione religiosa, come raccontavano le numerose leggende. Le comprai un piccolo serto di paillettes con cui si cinse orgogliosa i capelli. Poi lo attraversammo più volte quel ponte, non tanto per vedere e rivedere i negozietti che erano stabiliti dai due versanti del ponte, ma per il piacere assoluto di calpestare quelle pietre antiche, di fermarsi alla sua sommità ad ammirarne le sponde opposte finalmente unite in un abbraccio o per guardare il ragazzo che si lanciava dal parapetto per i 24 metri che lo separavano da quell'acqua scura e profonda. Tre anni dopo nel novembre del '93, il ponte fu distrutto, una azione considerata impossibile e apportatrice delle più grandi sventure se mai fosse avvenuta. L'odio sordo e violento verso l'altro diverso da te, portano sempre anche a questa necessità, di distruggere l'insostituibile, l'unico, la cosa che tu orrido violentatore, sarai l'ultimo a vedere prima dell'esplosione con cui sancisci anche il tuo rifiuto ad appartenere al consesso degli uomini. Certo è stato ricostruito undici anni dopo, ma è solo un simulacro, un avatar, una testimonianza di cosa può fare la bestialità umana. Lui invece, l'unico, l'assoluto, non esisterà mai più se non nel ricordo di chi lo ha potuto vedere. 

Sarajevo



2 commenti:

OLga ha detto...

Molto triste la storia di questa terra,le etnie si sono sempre odiate finchè Tito non è morto,poi la guerra.Saluti OLga

Enrico Bo ha detto...

Proprio così, è brutto dirlo ma come in tanti altri posti, vedi Libia o Iraq, il tiranno evitava guai peggiori

Where I've been - Ancora troppi spazi bianchi!!! Siamo a 119 (a seconda dei calcoli) su 250!