Adesso procediamo verso nord con decisione, lasciando definitivamente alle nostre spalle la valle dell'Omo e le sue tribù apparentemente selvatiche e così lontane non soltanto dalle nostre culture, ma anche dalla stessa comunità etiope che le vede generalmente come un residuo del passato. Popoli che al limite rappresentano un problema da risolvere, al più da assimilare, in territori ancora abbastanza vergini eventualmente da sfruttare. Solo recentemente c'è una certa consapevolezza che l'interesse etnografico che questa area possa rappresentare per il turismo internazionale, una ulteriore anche se piccola risorsa e che quindi queste diversità vanno come minimo tutelate e protette, potendo poi essere una specifica motivazione che suggeriscono un viaggio. Ancora poi prepotentemente aperta è la discussione circa lo sfruttamento di questi territori, ad esempio, uno dei punti più dibattuti, è la costruzione di tre dighe lungo il corso dell'Omo, in particolare la Gibe III, affidata come le altre, all'italiana Salini - Impregilo che, secondo molte organizzazioni protezionistiche internazionali starebbero causando un disastro sull'ecosistema della valle stessa, con una riduzione drastica della regimazione delle acque che vanno a riversarsi sul lago Turkana, di cui l'Omo è l'unico immissario al di la del confine con il Kenia e che secondo questi osservatori potrebbe addirittura scomparire con gravi ripercussione con le popolazioni rivierasche.
Donna Arboré
Questo sistema di dighe invece, secondo le intenzioni governative dovrebbero, oltre che fornire una considerevole fonte di energia, della quale il paese è perennemente in carenza, anche un grande sviluppo agricolo della regione grazie allo sviluppo dei sistemi di irrigazione. Inoltre affermerebbero che i danni allo stile di vita delle tribù locali, essenzialmente costituita da pastorizia seminomade, sarebbero minime, in quanto la loro cultura non è mai dipesa dal fiume. E' un tema complesso nel quale è impossibile dare un giudizio corretto, dando retta soltanto alle dichiarazioni schierate delle opposte fazioni. Di certo questo tipo di contrasti sono stati ormai visti mille volte in ogni parte del mondo e rimangono una storia dibattuta, spesso non soltanto a parole o a carte bollate, a causa della necessità impellente di una specie che si moltiplica secondo ritmi malthusiani, sempre in cerca di nuove fonti, di energia, di cibo, di acqua. Sono i casi classici in cui tutti hanno ragione e tutti alla fine perdono qualcosa, ma in cui è quasi sempre impossibile trovare la via corretta di azione. Visto comunque che stiamo lasciando la valle e le sue genti, mi sembra giunto il momento, mentre la strada corre diritta tra immensi campi coltivati e grandi piantagioni di banani ed altri alberi da frutta, fare una ulteriore considerazione, che chiunque è costretto a fare, girando per questi luoghi.
Giovane Tsemay
Ho già detto che arrivando in ogni villaggio o paese dei popoli della valle dell'Omo, ti troverai di fronte al problema delle fotografie. Queste genti sono molto interessanti sotto questo aspetto e tutti, arrivando in questo luogo, hanno, tra le varie motivazioni, quella di portarsi a casa un congruo numero di immagini che riguardino ornamenti, costumi, cerimonie, body painting e così via. Questo è cosa nota e continua da oltre cinquanta anni, addirittura da quando la famosa fotografa tedesca del regime nazista, Leni Riefenstahl, pubblicò i suoi famosi libri di fotografie sui popoli della Rift Valley a partire dalla Nubia fino al Kenia. Da allora, e io ho sentito direttamente gente che è stata quaggiù anche quaranta anni fa, è invalsa l'abitudine che il turista, a qualunque titolo arrivi da queste parti, è bene accettato nei vari villaggi, certo se presentato e da lui ci si aspetta che sfoderi la sua brava macchina fotografica e faccia tutti gli scatti che vuole a patto che poi paghi una tariffa fissa che nel tempo ovviamente si è modificata e ad oggi è di 5 birr, a persona/modello (alla quale puoi fare diverse foto). Tutto questo da un lato è un utile introito per la gente del villaggio e contribuisce anche all'economia locale, dall'altro potrebbe apparire come un artefatto al quale la popolazione si è piegata pur di spillare soldi, cosa che ti potrebbe apparire fastidiosa e non genuina. Io per la verità non ho avuto questa sensazione.
Ragazza Arboré
Le cerimonie a cui ho potuto assistere non vengono certo fatte per i turisti, in genere pochissimi, né di certo le persone si sottoporrebbero alle dolorosissime pratiche di scarificazione per i pochi birr di qualche foto. Nella realtà, la cultura di queste etnie, continua a considerare la decorazione del corpo, delle acconciature, delle ornamentazioni delle vesti e le cicatrici della pelle, un segno distintivo irrinunciabile, con significati molteplici, dalla dimostrazione di coraggio, al raggiungimento di particolari status sociali e di classi di età, che vuole mostrare al mondo che li circonda come segno distintivo di bellezza, oltre che un'appartenenza tribale, un po' come da noi può essere l'esibizione di un capo di moda o di tatuaggi e piercing, che parimenti richiedono una certa sopportazione di dolore fisico. I mazzi di collane di perline o i cinturoni di cuoio ricoperti di cipree ereditati da madri e nonne, così come le pelli di antilope ricamate, rappresentano la stessa importanza ornamentale, delle scarificazioni su braccia, schiene e seni o dei disegni geometrici che ricoprono l'epidermide di uomini e donne, per non parlare dei piattelli labiali che straziano le labbra di migliaia di ragazze, che vogliono soltanto rendersi maggiormente appetibili ai loro pretendenti in vista di un futuro matrimonio. Insomma io non ho avuto la sensazione di una esibizione falsa, fatta unicamente a fini monetizzabili, ma un voler mostrare il più possibile la propria identità di clan, portando anche a casa qualche soldo, cosa che alla fine non guasta. Comunque questa è la situazione e si deve prendere per come si presenta, senza fare troppo ii cagamaretti, come si dice da noi.
Alveari
Facendo queste considerazioni, continuiamo a risalire la nazionale 70, incrociando continuamente le nuvole di polvere sollevate dai camion carichi di banane che noti ogni tanto fermi ai lati delle piantagioni. Gira anche parecchia altra frutta da queste parti, manghi, papaie, ananas, guayave, tanto che non puoi non fermarti a fare il pieno da mangiucchiare lungo la via, anche se poi ti sbrodoli tutto perché sbocconcellare un mango senza piatto e coltello acconcio non è così semplice. Sono soltanto pochi birr ma non vuoi rinunciare ad una serrata contrattazione che ti farà risparmiare alla fine una cifra risibile, ma ormai anche questo fa parte del viaggio e lo fai un po' per divertimento, un po' per partito preso. Gli alberi spinosi al fianco delle piantagioni sono carichi invece di avvoltoi cupi e dal collo arcuato e marabù rognosi, i loro colleghi meno presentabili, immobili come draghi su tetti gotici, in attesa di planare giù se arrivasse mai l'effluvio odoroso di qualche carcassa. Un gruppo si disputa già i resti di un enorme istrice, sembra un marmottone gigante, spiaccicato sull'asfalto da qualche auto priva di attenzione; si spostano appena al passaggio per non perdere il posto di prima fila al banchetto. Dagli alberi pendono arnie rurali, lunghi cilindri di cannicciato che dondolano al vento, evidentemente in attesa di essere completamente riempiti del gustoso miele che trovi ai banchetti lungo la strada. Meglio passare un po' alla larga, perché l'ape africana, non è come la docile e gentile Apis mellifica ligustica che alligna dalle nostre parti, ma pare, estremamente aggressiva, così almeno assicurava il mio professore di apicoltura ad agraria, tanti anni fa, sarà l'aria di queste parti, ma è meglio essere cauti. Arba Minch e il suo lago non è più tanto distante ormai.
Bananeti
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