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Foto di famiglia |
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Periferia |
L'aria del tribunale mi terrorizza. Non c'è una ragione logica, ma le pochissime (per fortuna) volte che ne ho varcato la soglia, un senso di colpa inespresso mi azzerava la salivazione, anche se dovevo chiedere solo un timbro su dei documenti di adozione. Tranne una. In un altro tempo ed in un altro mondo, come vi ho raccontato nei giorni scorsi, dopo l'avventura del transito a Jedda, all'aeroporto di Sana'a le valige erano andate perse o quanto meno non eravamo riusciti a ritrovarle nel gran mucchio di bagagli abbandonati e, usciti dall'aerostazione, un po' mogi per la situazione, ma sollevati dal fatto di essere quantomeno arrivati a destinazione, prendemmo un taxi, pieno di pendenti, rosari mussulmani e musica a palla all'interno, ma con i paraurti staccati e il parabrezza a tela di ragno, che ci portasse verso le trine bianche e le finestre di alabastro del centro di Sana'a. Una città di fiaba cantata da Pasolini e cristallizzata nel tempo. Sul lungo vialone dell'aeroporto il taxi procedeva ai trenta all'ora, cioè la sua velocità massima, quando in fondo al rettilineo deserto una macchina uscì dal parcheggio e si immise lentamente sulla strada. La distanza, la folle velocità e probabilmente la mancanza di freni unita alla ritmata masticazione del qat del taxista provocò l'inevitabile anche se prevedibilissimo cozzo, mentre noi ci tenevamo ben fermi al sedile, come su un autoscontro alla fiera dell'est.
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Sempre all'erta |
L'autista non aveva minimamente cercato di evitarlo, pensando forse che il nemico si sarebbe fermato e viceversa l'altro pretendeva di essere in diritto di uscire dalla strada laterale da sinistra, essendo il padrone assoluto della strada, forse anche perché aveva la macchina più nuova e lussuosa, valli a capire i codici della strada. Il nostro scese, magnificando il suo danno (il paraurti che già in precedenza ciondolava), mentre il suo avversario controllava il lieve bozzo sulla fiancata, che però, come apparve subito in tutta la sua tragica evidenza, era di una macchina di ambasciata,come chiaramente mostrava la bandierina inalberata sul cofano. Arrivò, pronta, la polizia, che senza dire bah, afferrò il taxista per gli stracci (e la parola non è scelta a caso) e se ne andò sirenando a tutto spiano, lasciandoci in mezzo al guado, a piedi, da soli e con la macchina incidentata al nostro fianco. L'auto altolocata ed i suoi spocchiosi passeggeri se la filarono via senza degnarci di uno sguardo, mentre noi, di fronte al nuovo problema, rimanemmo ad almanaccare una soluzione sotto il sole cocente. Di tanto in tanto però passava qualche macchina e non avendo i bagagli (perduti) fu facile fare l'autostop per raggiungere un fascinoso albergo nel centro, in realtà una modesta costruzione seminuova che mi sembra si chiamasse Alexander, cosa che già ce lo rendeva simpatico, dove dimenticare l'inconveniente e pensare, passata la notte, ad immergerci nell'atmosfera circostante.
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Tra le case |
Due giorni dopo, avendo già parzialmente esplorato la città, pur senza trovare traccia delle necessarie mutande e la cosa cominciava a diventare un problema, da allora infatti, memori dell'esperienza, ci portiamo sempre nel bagaglio a mano un paio di ricambi, trovammo ad attenderci nell'ingresso, un tizio barbuto piuttosto inquietante, con regolamentare jambija, il ricurvo pugnale alla cinta, ma con sguardo basso e questuante. Risultò essere il fratello del taxista dell'incidente all'arrivo, che ci chiedeva di testimoniare a suo favore. Ritenendo di poter dare una mano alla soluzione di un problemino assicurativo, lo assecondammo e, caricati sull'ormai noto taxi sempre più claudicante, fummo portati in un palazzotto del centro che non pareva essere la sede della Unipol o delle Generali, essendo dotato di robuste sbarre alle finestre. In un ampio cortile, circondato da portici, apprendemmo infatti, essere quella la sede del tribunale giudiziario, dove si celebravano ogni giorno tutti i processi della città. Avendo visto, nei giorni precedenti, nel bazar, come vi ho raccontato, diversi moncherini di mani e nasi mozzati, cominciavamo ad avere un'idea del dipanarsi della giustizia yemenita, ma dopo la discussione di un caso, a noi spettatori non paganti, poco chiaro, dove il giudicato fu trascinato via con modi un po' rudi, quale fu la nostra sorpresa al vedere il nostro taxista condotto in catene dinnanzi al giudice.
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Vie del centro |
Non sembrava in gran forma psicofisica, in fondo si era già sgrullato due giorni di prigione, anche se le catene alle caviglie non parevano molto pesanti. Recava in mano una cartelletta, contenente con ogni probabilità i dati del suo caso, che gli fu tolta sgarbatamente di mano e data con sussiego al giudice. Costui, in divisa militare, sedeva impettito ad una scrivania sotto il portico principale e si guardava attorno con noncuranza. Mentre eravamo stati fatti sedere a poca distanza, lui, fingendo di non averci notato, con cenni della testa, imponeva agli astanti, ed in particolar modo al difensore del precedente imputato, un comportamento più dignitoso e meno caciarone, evidentemente per non dare cattive impressioni ai due stranieri. Chi perorava la causa del nostro prigione, iniziò a chiarirne le ragioni con una certa foga, mentre Minosse lo richiamava di tanto in tanto alla moderazione, con piccoli gesti della mano e lievi aggrottamenti delle sopracciglia. Non avevamo capito molto in verità, essendo l'arabo yemenita una variante piuttosto stretta rispetto alla lingua classica (ahahaahah), ma quando fu la nostra volta, il giudice si rivolse direttamente a me in un inglese assai corretto, ignorando Tiziana che, bionda e non velata, attirava molte occhiate dagli astanti, ma era pur sempre donna e quindi assolutamente non degna di credibilità.
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Il negozio degli orci |
Dopo avere accertate le mie generalità, mi domandò lo svolgersi dei fatti, facendomi anche un paio di domande tranello per controllare che non cadessi in contraddizione segnalando le direzioni delle due auto e, chiarito l'indubbio diritto di precedenza dell'imputato, dichiarò salvo il nostro uomo con una breve dichiarazione di non colpevolezza e finalmente alzatosi, forse era l'ultimo caso della giornata, lasciò l'arengo, salutandoci con un breve cenno del capo e l'assemblea si sciolse. Furono subito tolte le catene al nostro amico che si profuse nei ringraziamenti del caso. Non riuscimmo a capire a quale pena sarebbe incorso, ma ho avuto la netta sensazione che la legge yemenita non sia tenera con i trasgressori. La giornata finì in gloria coi fratelli taxisti che ci portarono fino all'aeroporto, aiutandoci a recuperare le valigie con le relative mutande contenute, finite nel magazzino dell'aeroporto, incustodite tra sacchi di datteri e montagne di scatoloni dalle scritte in cinese. Ma ci assicurarono che tanto lì nessuno ruba nulla.
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Frutta fresca |
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