lunedì 6 aprile 2020

Un Ascaro a Marib

Marib - Yemen - agosto 1977
Marib era solamente un gruppo di case sbrecciate e consumate dall'usura del tempo, radunate dall'insistenza del vento del deserto che ne aveva consumato le asperità attraverso secoli di abrasione, operata con costanza degna di ammirazione, ma forse una buona mano l'avevano anche data le bombe saudite che sono sempre state morbosamente attirate da questo avamposto di Houti, correligionari che siedono su una sponda solo leggermente diversa e per questo ancor più invisi e nemici. Quando ci arrivammo noi però quella guerra era terminata da qualche anno e probabilmente stava trascorrendo quella fase bassa dell'onda di sinusoide nella quale il sangue e la morte attraversano un momento di stanca, come se negli uomini fosse calata una sorta di nausea della violenza fatta e subita e fosse necessario almeno una pausa, per recuperare le forze esauste, prima di ripartire con un nuovo ciclo della furia della quale l'uomo non sembra in grado di rinunciare. La città, o almeno quanto ne rimaneva, un dedalo di case scoperchiate e muri cadenti, con qualche rara costruzione ancora in piedi, mostrava le occhiaie vuote delle finestre da cui traspariva tuttavia la bellezza tipica di questo paese, le decorazioni di vuoti e pieni che le incorniciavano, le lunette soprastanti nelle quali non erano più presenti le sottili lastre di alabastro colorato, le merlature leggere appena accennate dove ancora rimaneva la presenza della terrazza superiore, dalla quale guardare il deserto che assediava la città. 

Marib
Tutto pareva abbandonato da tempo e destinato in un tempo indefinito ma non troppo lontano al definitivo disfacimento ed a ritornare a quel deserto alla quale apparteneva di diritto, sabbia tra la sabbia, in un destino già segnato e non discutibile. Nessuno abitava più la città da tempo, ma come mi avevano suggerito informazioni desunte forse da un quaderno di viaggio di Avventure nel mondo, la bibbia per gli itinerari più ghiotti ed inediti a quel momento, c'era una famiglia che abitava una delle case ancora agibili e incaricata dal governo per una sorta di custodia del sito e disponibile a sistemare in qualche altro rudere chi arrivasse da quelle parti con intenzioni "turistiche". Il tizio della Land Rover ci accompagnò direttamente, anche perché era l'unica soluzione praticabile e perché evidentemente era una consuetudine da lui già ben conosciuta. Ci accompagnò anche nel dedalo di viuzze schivando le macerie cadute, fino alla casa di Hussein, ma lasciò a me il peso della valigia, compito evidentemente non degno del suo incedere da principe delle sabbie. Salutò l'amico con un cenno del capo, nel deserto le parole non si sprecano e si parla a bassa voce, come se non si volesse turbare il silenzio della sabbia o suscitare l'ira dei jin, gli spiriti maligni che vivono sotto terra. Poi se ne andò senza dover sottolineare o confermare l'accordo di venirci a prendere all'alba del giorno successivo. 

L'ingresso alla città
Mi immaginai che nel deserto ci fosse una sorta di impegno sacro sulle parole date, sarà una scemenza ma fa parte delle leggende sugli uomini delle sabbie. Hussein intanto ci accompagnò in una casa vicina, un tipico palazzotto yemenita cresciuto in verticale, di tre o quattro piani a cui si accedeva attraverso ripide scalette interne di terra cruda. Nelle pareti grige e disadorne potevi vedere ancora la paglia dell'impasto necessaria a costruirla. Superato il pianterreno che un tempo doveva avere ospitato gli animali e una specie di cucina nell'angolo, il piano superiore aveva ambienti stretti e malandati, mentre l'ultimo piano era costituito da un unico ambiente, una grande camera quella dove un tempo si riunivano gli uomini della casa a fumare il narghilè e a masticare il qat. Intorno sedili ricavati in terra attorno alle pareti e qualche tappeto e stuoie dove dormire. Sotto in un ambiente ristretto, Hussein ci mostrò con orgoglio la doccia. Un grosso serbatoio di metallo su un trespolo e una scatola di pomodori pelati con un manico di legno da cui pescare l'acqua e rovesciarsela in testa. - Ma fate presto- disse in un italiano approssimativo ma comprensibile - che tra un'ora arriva la tempesta di sabbia e entra dappertutto. Poi venite a cena a casa mia. -  Ci sistemammo alla meglio e poi rinfrescati, c'erano di certo più di 40°C, andammo a bussare alla casa vicina. 

Ci accolse la moglie che, al contrario delle tante yemenite viste fino a quel momento, non era completamente ricoperta dal velo nero ma mostrava parte del viso sotto un foulard colorato. Hussein, che era un ometto piccolino sulla sessantina stava in un angolo dello stanzone, accoccolato a terra a gambe incrociate. Piuttosto grassoccio, esibiva la parte procombente della pancia tra le ginocchia, mentre i piedoni nudi spuntavano ai lati. La cena prosegui per un'oretta mentre la signora arrivava di tanto in tanto con qualche nuovo piatto e intanto emerse il mistero della conoscenza della lingua italiana di Hussein. Era stato un ascaro dell'esercito italiano, forse di provenienza somala, e si era fatto tre anni di guerra, mi sembra anche a Montecassino ed era stato insignito della medaglia d'argento dopo essere stato 48 di seguito alla mitragliatrice pesante, poi era crollato al suolo come morto e portato per due mesi all'ospedale del Celio a Roma, dove si era brillantemente ripreso ed era stato decorato. 

I contrafforti della diga di Marib
Mi chiese notizie del Re, assai stupito della caduta della monarchia, mentre era al corrente della morte di Mussolini, della quale invero si dolse e mi mostrò grande soddisfazione di potere parlare un po' italiano. La moglie assentiva col capo. I tre figli lavoravano nella capitale, uno faceva il pilota. Quando ce ne uscimmo, dopo che il vento era cessato e la sabbia non smerigliava più i muri delle case e l'ombra cominciava a scendere assieme alla temperatura, una specie di grazia prevista per i condannati recidivi. Infine ci chiese: - Ma perché italiani non vengono mai qui a visitare posto bellissimo ? - Gli dissi che gli avrei fatto pubblicità e probabilmente se ne andò a dormire contento di aver fatto un buon lavoro di marketing. Camminammo un po' tra le stradine ingombre di macerie della città morta, immersi in quella greve atmosfera che la avvolgeva, simile a quella di tante altre consorelle in condizioni simili. Quella mancanza di vita, quel senso di abbandono che al tempo stesso è dolore e magia e racconta storie passate, nascoste dietro angoli scuri, appena accennate, destinate a scomparire anch'esse nell'usura del tempo, la rendeva misteriosa e affascinante. Chissà cosa è rimasto oggi di Marib e dei suoi muri sbrecciati, dopo altri insulti, altre bombe, altra sabbia che tutto cerca di ricoprire in un abbraccio che anestetizza la memoria.




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