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Oasi di Chebika - Tunisia - gennaio 1978 |
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Tamerza |
Eravamo ormai sulla strada del ritorno, dopo tanti chilometri percorsi attraverso il deserto algerino si rientrava in Tunisia, attraverso quel confine secondario che passava per le montagne. Un piccolo posto di frontiera, dove, un paio di chilometri prima cercarono di farci una multa per eccesso di velocità, anche se andavo al massimo ai trenta all''ora, ma il tizio a cui avevamo dato un passaggio, un pastore che rientrava verso casa, parlò col gendarme con voce suadente e lo convinse a non infierire sui turisti che in fondo erano brava gente e così passammo. Al di là del confine la strada procede verso nord difficile e tortuosa, oltrepassando il Chot el Gharsa, in un territorio solitario e scabro. Montagne rudi, di roccia aspra e graffiante. Perché il deserto non è solamente sabbia e piane infinite all'orizzonte, ma anche paesaggi lunari di monti che si sbriciolano ogni giorno di fronte a sbalzi termici di venti o trenta gradi che spaccano la roccia e la frantumano in continuo in massi che poi diventano pietre e ciottoli sempre più minuti. Ma qui piove anche e spesso in maniera devastante e pure l'acqua scava ferite profonde nei fianchi della montagna fino a scolpire incavi contorti e fenditure sinuose sul fondo delle quali rivoli d'acqua formano salti e cascatelle contornati da ciuffi di palme. Pochi anni prima del nostro passaggio nel 1969, dopo 22 giorni di pioggia ininterrotta, una valanga di fango, acqua e roccia investì queste valli con una violenza inaudita e mai conosciuta a memoria d'uomo e le tre piccole oasi di Chebika, Tamerza e Mides furono cancellate da questa furia devastante.
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Bambine di Tamerza |
Le case di fango e di mattone crudo, furono in parte spazzate via completamente, in parte ridotte a rovine smozzicate e il luogo fu abbandonato dalla popolazione che ricostruì l'insediamento più a valle in luoghi più sicuri. Nel '78, quando vi passammo noi, erano trascorsi soltanto nove anni e la devastazione era lì in tutta la sua tragica evidenza che il successivo calore infernale aveva calcinato e reso immobile come in un sarcofago fangoso. Le rovine dei tre paesi abbandonati spiccavano nelle vallette e sui fianchi della montagna come simulacri di morte. Le care dirupate stavano ancora lì, le une vicino alle altre, tombe vuote e scoperchiate, mostrando gli squarci tra i muri abbattuti come occhiaie vuote di teschi abbandonati. anche questo è deserto. C'era però qualcuno tra le rovine, qualche ragazzino in attesa dei rari cercatori di passati spenti che arrancavano tra queste montagne dimenticate, qualche grido che sempre gioioso appare se rompe il silenzio della rovina e dell'abbandono. Le stradine che collegavano i tre siti, erano assolutamente malagevoli e semidistrutte da quella furia di eventi che aveva lasciato tra immense buche e le voragini provocate dalle frane, una misera pelle d'asfalto corrosa, che di certo nessuno aveva ancora avuto la possibilità o l'intenzione di riadattare e ricostruire. Il confine algerino, al di là delle creste distava pochi chilometri, non più di quattro o cinque, un territorio che non poteva dare nulla, in cui sentivi solo il peso dell'abbandono.
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La gola di Mides |
Pure da qui la vista arrivava lontano oltre i chot, specchi ingannevoli di acque salate, fino alle prime propaggini sahariane, in quell'aria cristallina dell'inverno nel deserto. Scendendo più a fondo nelle vallette laterali, nella profondità delle gole, le rocce mostravano sfumature di mille colori, trovavi angoli deliziosi, piccole cascatelle e riquadri di terreno dove l'umidità relativa permetteva qualche piccola coltura, ortaggi e palme, perché, come tante volte abbiamo già detto l'uomo non si arrende mai e anche dove tutto appare abbandonato, dove rimane la più piccola possibilità di aggrapparsi a qualcosa, qualcuno rimane, lavora, rimette a posto e ricomincia con tenacia e testardaggine. Per questo l'umanità è così dura a morire. Certi angoli, tra orridi e forre profonde erano assolutamente piacevoli. Percorremmo i tre chilometri del canyon della gola di Mides in un caleidoscopio di sfumature ocra. Davanti ad uno specchio d'acqua, frutto di una sorgente misteriosa, che invitava a bagnarsi un vecchio con un piccolo asino, raccoglieva datteri che erano rimasti a seccare su alcune stuoie e li andava caricando sul basto antico. L'asinello, nella sua obbedienza imposta e immutabile, si lasciava caricare senza proteste. Ne comprammo un ramo o un casco, non so come si dica. Ne mangiammo per tutti i giorni che ci rimasero prima della partenza e ancora non riuscimmo a finirli, come se volessero rimanere sempre con noi a suggellare il ricordo di quei luoghi. Deglet en-nour, dita di luce, dolcezza infinita.
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Il chot el Gharsa |
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