giovedì 21 maggio 2020

Oasi perdute 17: Le oasi del Tar

Etnia Jat


Pastore Jat
Ma ci sono altre oasi perdute, in deserti lontani e meno noti. Quello del Tar, in terra di India, nota per monsoni e jungle, che qui chiamano Great Rann, appare in teoria meno credibile eppure a pari degli altri ospita tra le sue desolazioni altri piccoli scampoli di vita, dove ancora l'uomo resiste e mostra ancora una volta la sua adattabilità. Così se percorri, dopo aver penetrato a fondo anche questo deserto, una stradina dissestatissima che l'ultimo monsone ha quasi completamente portato via, per raggiungere l'isolata area di Fakhirani dove vive l'etnia mussulmana dei Jat, una tribù di allevatori molto riservata. Tutta questa zona sarebbe proibita senza permesso, ma l'ufficio è chiuso e sembra che in questo caso l'obbligo non valga. Saroda è uno dei villaggi più grandi dell'oasi, più o meno 2000 persone e 5000 bufali. Il paese, fatto di capanne sparse su un'area piuttosto ampia, ne è letteralmente assediato tanto che devi farti largo tra le varie mandrie per arrivare nella zona centrale, una sorta di piazzetta davanti ad una casa, luogo comune di ritrovo degli anziani e forse degli sfaccendati del paese, dove si raccoglie il latte in attesa che arrivi un camioncino a portarlo via. . Questo non è zona di artigiani, per cui non avendo niente da vendere, i Jat sono un pochino più scontrosetti, nel senso che non ti oscurerebbero le statue nude per intenderci. 

Donne Jat - Foto ML Raviol
Insomma il gruppetto di vecchi che sta seduto davanti a questa specie di negozio tuttofare, non sembra abbia particolari entusiasmi al vederci calare dalla macchina con bellicosi zoom pronti a fare fuoco. Meru è hindù harijan e quindi tiene un po' la testa bassa e non si fa avanti più di tanto. Per fortuna il nostro Mohammed  li apostrofa subito con il consueto baishan, "fratello" che pare il giusto approccio in uso tra correligionari. I visi si spianano e il capo del villaggio si alza per accoglierci con i modi previsti dalla ospitalità consueta. Dopo averci dato il benvenuto ed essersi dichiarato onorato per la nostra visita, comunica che ci accompagnerà in giro per il villaggio dove possiamo visitare a nostro piacimento e fotografare ogni cosa desideriamo, sottolinea, indicando la serie di fotocamere pronte a sparare, purché, e qui la cosa viene rimarcata con una certa intensità, non si fotografino le donne. Accidenti, in verità il motivo principale per cui questo posto è particolarmente interessante è proprio il particolare modo di ornarsi il volto delle donne Jat, che consiste in una sorta di enorme e pesantissima staffa di ottone agghindata di stoffe colorate che le signore si appendono al naso facendolo passare attraverso la narice sinistra. 

Foto ML Raviol
Dato che l'enorme peso strapperebbe definitivamente il lembo di pelle, la soluzione è stata trovata legando la stoffa ad una ciocca di capelli che scende dalla fronte, cosa che permette un certo equilibrio alla costruzione. Diamo ampia assicurazione masticando amaro, vuol dire che cercheremo di rubarne qualcuna di soppiatto. Intanto ci facciamo largo tra torme di bufali di ogni dimensione seguite da da decine di ragazzini che si mettono subito in posa, c'è anche la scuola dove vanno in 250. Davanti alla piccola moschea, costruita dopo il terremoto (per questa i soldi sono arrivati, ma non per la strada purtroppo), il gruppo si schiera e si eseguono le foto di rito. Intorno, nelle aie tra le capanne le donne occhieggiano dandosi di gomito. Cerchiamo di risalire il sentiero e arriviamo in un cortile tra due case piuttosto grandi, una di moderna muratura, l'altra una semplice capanna fatta di bastoni ricoperti di stracci e teli di juta, ricordo della vita nomade di qualche decennio addietro. Le donne fingono ritrosia, in realtà si accalcano per mettersi in mostra nonostante l'occhio severo degli esponenti maschili che controllano soprattutto le mani in corrispondenza delle macchine fotografiche. 

Foto Tiziana Sofi
Mandiamo avanti le nostre femmine in avanguardia, che famigliarizzano immediatamente con le loro controparti, mentre noi mostriamo il massimo disinteresse. C'è una gran voglia di comunicare evidentemente e si capisce subito che le ragazze non aspetterebbero altro che gli uomini si togliessero dai piedi per mettersi in posa. Dai grandi veli colorati spuntano occhi che ridono, capelli corvini, corpetti variopinti e bracciali pesanti. Mancando la lingua comune ci si tocca, si fanno gesti, si magnificano ornamenti e vesti, è davvero facile comunicare quando si vuole e sottomano ci scappa anche qualche click. I cerberi severi poi ci portano via verso gli stagni dove i bufali dalle corna ritorte se ne stanno a mollo quatti quatti. Un luogo davvero poverissimo, senza nulla su cui costruire futuro, perduto nel nulla del deserto. Fuori dell'oasi, altra gente, ai margini della palude, ancora più povera e deprivata di tutto, sono Harijan senza casta, zingari che devono rimanere fuori dal villaggio. Vivono sotto tende lacere e sporche, sono essi stessi neri e caliginosi. A loro è concesso solo di bruciare in grandi cumuli gli arbusti che crescono ai margini della palude e che vengono ammonticchiati sotto grandi coni di terra. 

I carbonai Harijan
Sono carbonai che poi girano di villaggio in villaggio o stazionano sulle strade per vendere i sacchi di carbonella. Tra le tende arrivano bambine con otri di plastica sulla testa, l'acqua per la sera prelevata dallo stagno vicino, è ancora lontano il momento del gran secco. Lasciare questo non luogo è difficile, costa fatica, sotto sguardi muti che forse faticano anche a capire i perché. Come mai questa gente arriva fin qui e cosa vuole, perché rimane un po', gira intorno e se ne va senza lasciare  o prendere niente, su grandi auto che non trasportano nulla, arrivano dal nulla e verso il nulla se ne vanno? Alieni insensati che all'apparenza hanno tutto per starsene lontano da qui, in luoghi impossibili  da immaginare, difficili  anche da sognare. Una bambina saluta con la mano. La strada però va sempre più a fondo nel deserto. Diventa dritta e taglia come una lama nel burro. Cessa anche quell'icona di vegetazione che allude alla vita. 



Nel white desert
La piana è perfettamente rettilinea, il terreno liscio e senza confini sempre più bianco sporco, i ciottoli si trasformano in pietroline sparse, poi tutto diventa solo una distesa di sale con qualche traccia di acqua spessa e azzurra. E' il deserto bianco. Una sorta di molo lungo oltre un chilometro penetra in questo nulla candido, in cui si inoltra una fila di ammirati visitatori. Famigliole con torme di bambini su carretti trainati da dromedari, gruppi di ragazzi e ragazze rigorosamente separati che schiamazzano correndo verso il punto estremo, singoli in cerca di incontri, venditori di frutta e souvenir, insomma un sacco di gente che in verità turba un poco la sacralità del luogo, soprattutto sfinendoti con una continua richiesta di foto  e selfies. Deve essere dura la vita delle star. Intanto il sole a poco a poco scende dietro l'orizzonte perfetto, colorando di rosa la spianata. L'ora è tarda, si torna al campo, passiamo dal gabbiotto dei poliziotti, ma non ci ferma nessuno.





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