venerdì 26 novembre 2021

Luoghi del cuore 115: I templi dell'Assam

 Dato che la situazione virus comincia a lasciarmi privo di speranze a breve termine su quanto riguarda quella trentina di viaggi che vorrei fare prima di tirare definitivamente le cuoia, comincio a rassegnarmi al fatto che ormai mi rimangano solo più i ricordi su cui rimuginare, masticando amaro. Ecco perchè voglio riprendere qualcuna delleimmagini che mi hanno maggiormente toccato nei tempi felici (espressione del mio amico Zhenia), quando ancora si poteva andare a cercar di scoprire cosa c'è dietro la collina. E oggi mi voglio ricordare di quella che ho vissuto quasi come una fuga, anche se forse era proprio quello il modo giusto per lasciare Calcutta. Alle 4 di mattina, di soppiatto, come ladri che scappano senza farsi notare quando è ancora buio ed i fagotti sui marciapiedi sono ancora immobili. Così mi ritrovo proiettato in quel mondo dove non c'è ancora nessuno per la strada, per lo meno quasi nessuno; in effetti a certi incroci ecco già il movimento di chi sta preparando la giornata che sta per arrivare, qualcuno che carica materiali, frutta, cocchi, balle di tessuti. Qualcuno che riempe camioncini che andranno a scaricare più in là, dove tra poco l'ansia di sopravvivere sta per riprendersi la città. Qualcun altro semplicemente si stiracchia, allontanando lo straccio sporco che è stato il suo riparo notturno e si avvia verso una pompa pubblica, godendosi la temperatura ancora accettabile se pure a te si appiccicano già i vestiti sulla pelle. Sembra che a quest'ora i rossi non valgano, agli incroci neppure si rallenta, tanta è la furia con cui si vuole scappare da questa India tumultuosa. Anche l'aeroporto è ancora semideserto, un'area franca nuova, anonima, quasi corpo estraneo innestato qui per necessità, ma con un'anima differente. Ma bisogna ripartire da qui per raggiungere d'un balzo un'altra India ancor più differente, assolutamente diversa da quelle che ho conosciuto prima. 


Campanelle
Questa volta invece l'intenzione è di arrivare in un'India diversa e sconosciuta, quel pezzo nordorientale del paese che anche geograficamente pare un corpo estraneo rimasto attaccato per sbaglio al subcontinente, una frattaglia di territorio posto al di là del Bangla Desh e che non si sente neppure troppo legato alla madrepatria se si vuol tenere conto di tutti i vari movimenti separatisti che contraddistinguono tutte le minoranze bizzose di questo mondo, popolata di genti dagli occhi diversi che sopravvivono in una terra dalle poche risorse, l'Assam, una grande pianura depositata dal Bramaputra, disceso dal Tibet raccogliendo le acque di tutti i torrenti che piovono giù dalle montagne himalayane, prima di unirsi al Gange per formare uno sterminato paesaggio di paludi e di bracci laterali che si allunga verso il golfo del Bengala. E' la terra delle avventure di Sandokan e Tremal Naik, delle Sunderbands popolate di cobra, tigri ed elefanti, con i babiroussa dalle zanne aguzze che si nascondono tra i cespugli e i tughs con il laccio attorno alla vita. E' stato il primo libro che ho letto nella mia vita: I misteri della jungla nera e si svolgeva proprio qui, in questa terra estrema. Salgari mi aveva innestato questo chip maligno nella testa più di sessanta anni fa. Prima o poi dovevo venire a verificare. Lo sentivo quasi come un obbligo.

Acquisti di fiori e caprette
Questo pezzo di India non attira turisti, niente Taj Mahal, niente forti maestosi o palazzi dei maharaja, solo questa grande pianura assamese, l'immenso fiume che la attraversa e le colline scoscese ed impraticabili che fanno barriera alle montagne più alte del mondo, ricoperte proprio da quella jungla fitta e difficile da penetrare che forse però, nasconde cose che vale la pena vedere. Guwahati è la capitale dell'Assam, cittadona sovrappopolata in cui si mischiano India e oriente. Vedi facce diverse, quelle piccole e nere dei bengalesi arrivati da occidente, a fianco di larghi volti dai nasi schiacciati che rivelano l'origine tibetana e poi facce dalle guance pienotte delle ragazze del sud, occhi tagliati alla birmana, turbanti sikh e vestiti multicolori di tutte le fogge del subcontinente che si mescolano nella consueta confusione del sovrappopolamento. Ma la città apparentemente anonima, nasconde un luogo particolare. Prendendo una stradina tortuosa si sale su una vicina collina dove sorge il tempio Kamakhya, uno dei centri principali del neo-Vaishnaismo, una delle mille religioni indiane e loro varianti, comunque la principale qui nell'Assam. Tanto per riassumere questa corrente dell'hinduismo, vi racconto la storia di Sati o Shakti, che innamorata di Shiva il distruttore, lo sposa nonostante la furiosa invidia del bieco Shakhta. 

Per non farvela lunga, disperata per gli insulti di Shakhta, la povera Sati si sacrifica, ma il marito, il bizzoso Shiva dopo aver staccato la testa all'invidioso e averla sostituita con quella di un caprone, comincia una danza macabra sul corpo dell'amata Sati deciso al termine della quale, a distruggere l'intero universo. Solo attraverso l'intermediazione di Visnu, Shiva il distruttore si placa. Il corpo di Sati viene smembrato in una cinquantina di parti che vengono sparse in tutta l'India. Le dita dei piedi finiscono a Calcutta, mentre su questa collina finisce la sua yoni (l'equivalente del maschile lingam insomma, tanto per capirci) dove sorgerà questo tempio tantrico dedicato alla femminilità, tanto che il festival annuale in giugno celebra appunto la fine delle mestruazioni della dea. Quindi il punto chiave di questo luogo tantrico è il sangue, sangue e ancora sangue, ottenuto dallo sgozzamento sacrificale di una quantità di caprette belanti che potrete portarvi da casa o acquistare direttamente al tempio. I pellegrini che salgono qui con ogni mezzo, formano una folla compatta e pervasiva, come in ogni santuario di ogni religione che si rispetti. Dovunque bancarelle per comprare generi di conforto o materiali per le puje, ghirlande di fiori o caprette per il sacrificio.

Per la erta scala che ascende la collina verso il tempio ti devi fare largo tra famigliole in vacanza e gruppi di fedeli più motivati e compatti i cui uomini sono coperti da larghi scialli bianchi bordati di rosso, l'emblema di questa setta di adoratori di Visnu, in particolare della suo avatar Khrishna, quel giovinetto blu appoggiato su una gamba sola che suona il flauto alle sue pastorelle, le Gopi, nella iconografia più tradizionale. Lungo la scalinata una serie di sadhu dalle lunghe barbe ed i volti segnati da emblemi colorati, si rivolgono alla carità dei fedeli. Mentre sali tra la folla ti sembra di entrare a far parte di un rito tribale ed arcaico. All'interno del tempio attorno al grande edificio centrale dove è nascosto il sancta sanctorum a cui affluisce il sangue delle caprette sacrificate in una sorta di tettoia mattatoio laterale, dove i sacerdoti addetti, dopo averle benedette inseriscono il loro collo in una specie di giogo, su cui abbattono una pesante scimitarra, la gente si accalca per entrare e vengono formate tre diverse file a seconda della entità dell'offerta. Per quella semigratuita, la folla infinita viene fatta infilare in una specie di strettissimo corridoio ingabbiato da sbarre che si snoda attorno a tutta la costruzione e qui le persone vengono chiuse dentro a chiave ad aspettare il turno per ore. 

Il sacrificio
Nello spazio non ci passano più di due persone alla volta (o una grassa) ed una sensazione claustrofobica indescrivibile ti prende solo a guardarle queste gabbie, dove, invece la gente si accoccola serena chiacchierando in attesa del turno. Qualcuno mangia le provviste portate da casa, i giovani digitano sugli smartphone, gli altri ti scrutano con curiosità. Pagando, l'accesso è immediato e trovarsi all'interno buio del tempio rinnova il senso di prigione, accentuato dall'odore dolciastro del sangue e delle offerte versate con cura sul lingam centrale, latte, burro fuso, fiori e altro. Un rito ancestrale segnato dal salmodiare di sottofondo dei sacerdoti che come in ogni luogo santo pregano e all'occorrenza benedicono e raccolgono offerte. Fuori, tutto dà invece l'impressione di un'area picnic, con ragazzi e famiglie che sfruttano la giornata di vacanza, chiacchierando sull'erba, ansiosi di farsi un selfie con lo straniero, merce rara da raccontare a casa, la sera al proprio ritorno. I belati delle caprette quasi non si avvertono soffocati dalle risate argentine ed acutissime delle ragazze indiane che ciondolano la testa in segno di soddisfatta approvazione. Scendiamo a valle, perché oggi ci sarà ancora un sacco di strada da fare.

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4 commenti:

OLga ha detto...

deve essere una bella esperienza!

Enrico Bo ha detto...

Sì è stata piuttosto forte

Anonimo ha detto...

Heureusement qu'il y a tes récits et nos souvenirs communs,car ce n'est pas demain que nous pourrons retourner dans ces bouts du monde ! Mais on, l'a fait .Alors ,Thanks God.

Enrico Bo ha detto...

merci chèrs amis

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