In una capanna Nyangatom |
Al di là del terrapieno della nuova strada che si allunga a perdita d'occhio, il territorio è completamente cambiato: un deserto piatto e sconfinato di terra gialla polverosa, che, solo in rari casi, la poca acqua che scende dal cielo, trasforma in un mare di fango, mentre per la maggior parte dell'anno offusca l'aria con nuvole di polverino ocra che il vento alza in mulinelli vorticosi che impastano la bocca e irritano gli occhi. Qui arrivano le propaggini dello spazio infinito, della serie di deserti che compongono tutta la fascia sahariana che attraversa come una banda nemica della vita e dell'uomo, tutta l'Africa del nord. Terra, sabbia, roccia o pietre, battuti dal vento teso e violento, non sai proprio cosa sia peggio o più pericoloso. E' la terra della privazione e della sofferenza, della impossibilità di una agricoltura come la conosciamo noi, dove i radi animali devono adattarsi a strappare, quando è possibile, i rari ciuffi di erba dura e rachitica che riesce a vincere la mancanza di umidità. E' la terra della carestia permanente, dove chi riesce ad adattarsi, mena una vita grama e sempre in bilico tra la sopravvivenza e la morte. Di qui le popolazioni nomadi di pastori tendono a spostarsi verso aree meno difficili, osteggiate ovviamente da chi già le abita e che non è disposto a lasciare spazi a nuovi venuti, affamati, in cerca di acqua, di cibo o in fuga dalle guerre che periodicamente infiammano questo mondo.
Questa è la terra dei Nyangatom, pastori seminomadi di antica origine ugandese, nella maggior parte oggi provenienti dal Sud Sudan, in perenne conflitto coi vicini Surma e i Baale, che occupano le terre migliori più a nord, o i Turkana, gli Amer e i Dasanak che vivono a sud vicino al confine keniota, per nulla disposti a dare spazio ai nuovi venuti, cosa che provoca continui conflitti armati, in un'area dove non si usano più come un tempo bastoni e lance, ma i mitragliatori automatici, data l'enorme quantità di armi che si trovano facilmente dappertutto a prezzi minimi e che fanno parte del corredo usuale degli uomini e dei pastori. I vicini li chiamano spregiativamente Bumé, "i Puzzolenti", chiaro segno di avversione che sfocia in continui combattimenti e aggressioni che degenerano in faide decennali e che rende queste popolazioni particolarmente aggressive. Al di qua del confine sono almeno 15.000, più o meno altrettanti al di là, ma nonostante tutto, malattie, fame, uccisioni e fortissima mortalità infantile, sono in continuo aumento. Di certo bisogna riconoscere che questa etnia ha a disposizione uno dei territori più disgraziati ed inospitali del paese e che la loro vita sia davvero difficile, lo testimoniano i loro villaggi poverissimi fatti di capanne ovoidali fatte di soli rami secchi e neppure ricoperti di fango impastato, che permettono rapidi spostamenti in caso di necessità, di attacchi o inondazioni o condizioni di vita rese impossibili a causa della siccità prolungata.
Difficilmente riescono ad accedere ai pascoli migliori ad oriente del fiume Omo, dove la vegetazione è più rigogliosa e consente di arrivare anche ai numerosi alveari selvatici da cui, con opportune fumigazioni ricavare un po' di miele, evitando le punture dell'ape africana, molto più aggressiva della nostra docile Apis mellifica ligustica. Il villaggio è circondato da un'alta barriera di arbusti spinosi, difesa dagli eventuali animali o da uomini, di certo quelli più pericolosi. In quello al di là della strada vivono circa 800 persone, ma gli uomini sono quasi sempre fuori al pascolo, armati e sembra, disposti a fare fuoco a vista sui Surma che attraversassero i confini del Mago national Park. Tra le capanne rimangono solo i vecchi ed i bambini, con le donne intente alle incombenze quotidiane dopo che hanno provveduto, al mattino, ad andare in cerca di acqua che riportano alla capanna nelle taniche gialle da 20 litri. La caratteristica che li distingue subito alla vista, almeno per noi occidentali, è la massa di collane di perline colorate che formano una sorta di grande cordone che le donne portano intorno al collo e a volte un piercing al labbro inferiore. Un tempo le perline erano fatte lavorando i frammenti di guscio di uova di struzzo, oggi più prosaicamente vengono prodotte recuperando tutti i frammenti di plastica colorata che la società moderna mette a disposizione più facilmente. Una pelle di antilope lunga fino a terra copre la parte posteriore del corpo dalla cintola in giù e un'altra corta pelle decorata, oggi spesso sostituito da una sorta di pareo colorato.
Il busto è sempre nudo e a volte coperto di scarificazioni rituali. I capelli, corti, formano una specie di calotta essendo ricoperti di uno spesso impasto di fango rosso e burro. Le capanne sono poverissime e all'interno dispongono soltanto di qualche pelle di animale ed una serie di zucche di molte dimensioni che fungono da contenitori oltre alle onnipresenti taniche di plastica gialla. Non sanno costruire vasi, che in caso di scorribande razziano volentieri ai Surma. Tra le capanne, altre costruzioni cilindriche più piccole sormontate da coni di paglia con la punta leggermente storta, una delle loro caratteristiche, che fungono da magazzini per i pochi cereali che la terra avara riesce a concedere quando la stagione piovosa regala qualche precipitazione in più, ma possono passare anni di stagioni siccitose in cui le mandrie si impoveriscono e la maggior parte degli animali muore a causa della mancanza d'acqua. Oltre a questo bisogna considerare che di norma le mandrie rimangono lontane dai pochi corsi d'acqua a causa della forte presenza della mosca tze tze e delle zanzare portatrici di malaria che qui è endemica. La ricchezza ed il numero dei capi di bestiame, oltre al numero dei figli costituisce parte importante dello status sociale. La prova di coraggio per passare alla maggiore età consiste nell'uccidere un toro con un solo colpo di lancia, da questo momento si diventa uomini e si viene considerati in grado di difendere il proprio bestiame dai nemici con la fama di temuto guerriero.
Il villaggio è ancora semideserto, almeno fino al calar del sole, i pochi che lo popolano ti accolgono silenziosi e almeno in apparenza con un certo distacco quasi ostile, mitigato soltanto dal fatto che la storia delle fotografie porta comunque qualche soldo, ma l'empatia apparente è davvero minima, anzi potresti sentirla quasi come una decisa avversione. Neppure i bambini, che di solito sono più invadenti e festosi, stanno alla larga, guardano certo, tra le capanne, quelle con la copertura più completa o tra quelle piccole su pali, alte da terra perché contengono masserizie che topi o altri animali non possano raggiungere, con malcelata curiosità, ma non ti circondano chiassosi come di solito chiedendo caramelle o penne. Anche loro rimangono a guardare muti, questa sfilata di estranei, autorizzata certo dall'anziano del villaggio, ma evidentemente mal sopportata, interrompendo i giochi solo in attesa che se ne vadano. Uomini non ce ne sono ancora, anche se il sole sta scendendo all'orizzonte e a questo punto è meglio così. Si dice che questo popolo abbia una ricca raccolta di racconti e di canti dedicati ai loro animali più belli che vengono ripetute la sera attorno al fuoco delle cucine davanti alle capanne, ma né Gighso, né Dansa, le due ragazze più belle del villaggio, li cantano per i faranji tutti vestiti, perché si vergognano dei loro corpi bianchi come il latte, che arrivano su grandi macchine e si aggirano tra le capanne, curiosi; facciano le loro foto e paghino, poi se ne vadano pure via.
Il villaggio |
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