L'ansa dell'Omo a Kolcho |
E' piovuto tutta la notte, una pioggia violenta e scrosciante che crea subito pozze e ruscellamenti non appena il terreno accenna a un qualunque tipo di scoscendimento. Gli invasi si sono già tutti riempiti ed i letti rinsecchiti presentano ormai un flusso fangoso continuo che cresce velocemente. Il nostro ricovero, piuttosto malandato anche se di recente apertura, ha subito mostrato i suoi punti critici e appare in emergenza continua, cortiletti invasi, niente corrente, acqua dappertutto tranne dove deve esserci. Qui è la norma, pare. Non oso pensare a quello che sarà accaduto nel villaggio dove eravamo ieri sera. Ci sono notizie che Kibish, dove avevamo dormito, è isolato e non vi si può accedere. In questa area non puoi fare programmi precisi, se fossimo ancora là avremmo potuto rimanere bloccati per qualche giorno. Andiamo via non appena riusciamo a caricare le nostre cose sulla Toyota, materassi e sacchi bene avvolti in un telo di plastica. Ari e Lalo usano tutte le corde a disposizione per fissare i bagagli sul tettuccio, sarà una operazione consueta e d'obbligo anche nei giorni a venire. Scegliamo la pista verso est verso la riva dell'Omo, dove è piovuto decisamente di meno. Una traccia di sabbia in mezzo al bush che obbliga ad una guida attenta ma veloce, che impone un certo ritmo per non rimanere impantanati dove la terra è diventata fango o dove la sabbia è più morbida e soffice. Gli alberi sono pieni di uccelli colorati, a terra diverse specie di faraone si muovono a piccoli gruppi come in un grande pollaio all'aperto, in alto si sente lo stridio dell'hornbill che rimane immobile sui rami più alti col lungo becco ricurvo aperto verso l'infinito.
Questa è la terra dei Karo, un'altra etnia di pastori seminomadi che popolano la sponda ad ovest del fiume. Raggiungiamo il villaggio di Kolcho in un paio d'ore. Questo è uno degli insediamenti più noti e nei mesi secchi almeno un paio di macchine al giorno arrivano da queste parti, diciamo quindi che la zona è abbastanza turistica se vogliamo definirla in questo modo e le foto delle capanne e degli abitanti dipinti di bianco, soprattutto la balconata posta in alto sull'ansa del fiume, riempiono il web. Tuttavia, nonostante questo contatto consueto, che comunque produce un minimo afflusso di liquido, grazie alla prebenda obbligatorio ad ogni scatto, tutto ha mantenuto una discreta naturalità. I Karo sono una delle tribù più piccole di tutta l'area, non più di un migliaio di persone divise in tre o quattro villaggi. Nemici acerrimi anch'essi, come i Surma, dei Nyangatom, sono stati quasi sterminati da questi ultimi, che hanno avuto per primi accesso alle armi automatiche negli ultimi decenni del secolo scorso e non hanno esitato ad usarle. Poi il governo centrale ha imposto una tregua che sembra reggere, al di là di episodiche scaramucce, con una pace siglata dai rappresentanti delle due tribù nel 2010. Sono noti per le pitture ottenute con argilla e calce bianca che ricoprono tutto il loro corpo assieme alle scarificazioni rituali, in particolare amano dipingersi il viso ricoprendolo di piccoli punti bianchi che simulano appunto il piumaggio delle galline faraone, che popolano numerosissime la foresta.
Il portamento è fiero, donne, ragazzini, anche i vecchi amano esporre la loro fisicità alla vista di chi arriva in visita, naturalmente i kalashnikov vogliono la loro parte e fanno ormai parte del quadro complessivo e provocano un sovrapprezzo di 5 birr per scatto. Tuttavia la vita sta cambiando per questa come per le altre tribù della valle. I punti preminenti consistono nell'affitto di larghi spazi di territorio ad aziende turche che avevano intenzione di creare estese fattorie per la produzione di cotone, sfruttando le acque del fiume per l'irrigazione e di conseguenza provocando un corrispondente disboscamento. Una è visibile appena a valle del villaggio ma non è attualmente in funzione pare per mancato rispetto degli accordi verso il governo e sembra in attesa di essere gestita dallo stato. Un altro problema potrebbe essere dato dalla diga che l'italiana Salini sta ultimando a monte e che ovviamente ridurrà il livello delle acque del fiume. Tutto questo evidentemente provocherà cambiamenti sulla vita e sulle tradizioni delle tribù. Naturalmente i pareri non sono tutti uguali. A detta di alcuni il progresso, con tutti i suoi difetti, apporterebbe comunque un miglioramento delle condizioni di vita di tutti, le nuove aziende sarebbero occasione di lavoro e la produzione di energia rimane comunque uno dei fattori di maggiore necessità per il paese, affamato di elettricità, di luce, di potenza.
Secondo le associazioni ecologiste ed i difensori dello stato naturale invece, questo sta provocando oltre alla deforestazione delle aree da destinare all'agricoltura intensiva e il calo delle acque prelevate o bloccate dalla diga, diminuirebbero le esondazioni periodiche utili all'agricoltura tradizionale, mentre i soldi di chi verrà impiegato nelle imprese agricole finirà in alcool e altro, nelle eventuali baraccopoli che drenerebbero la gente dai villaggi, snaturando completamente lo stile di vita attuale. In verità altri contestano questa previsione constatando che l'agricoltura delle tribù è legata soprattutto alla pioggia e tutti i popoli rivieraschi non utilizzano per tradizione le acque del fiume, né vivono di pesca. Dunque il problema è dibattuto e niente affatto chiaro, ma piuttosto comune a tutti i paesi in via di sviluppo, sempre al bivio nella scelta tra il mantenimento di uno stato di vita tradizionale, molto oleografico e graditissimo al turismo in cerca di emozioni ed esotismo e un qualche tipo di sviluppo che consenta di uscire dalla catena, miseria, fame, ignoranza. Le soluzioni facili non esistono ed è altrettanto semplice mettersi in cattedra e sparare sentenze. In ogni caso la via che prendono le cose non è governabile dalla volontà dei singoli, ma che gli eventi abbiano una loro successione a volte casuale diventa spesso inevitabile. I ragazzi intanto stanno immobili sui tronchi secchi davanti alla scarpata. I cerchi bianchi sul corpo li rendono simili a folletti dei boschi inattesa di scomparire da un momento all'altro.
Davanti, nella grande ansa, il fiume è un nastro marrone scuro in cui nessuno si avventura a causa dei coccodrilli e degli ippopotami che lo popolano. Le ragazze uscite dalle capanne a cono arrivano alla spicciolata. Con le piogge in arrivo questa è una delle ultime occasioni della stagione per racimolare un po' di birr con le foto per cui tutti ti girano intorno cercando di ammaliarti con le loro grazie esposte, le collane e le fasce di perline colorate attorno alla fronte, caratteristiche della tribù. Qualcuna, sempre per essere più bella si è fatta estrarre gli incisivi inferiori, ma quasi tutte usano ancora le gonne di pelli di animali ornate di fili di preziose conchiglie che arrivano dal mare lontano e che le ragazze hanno ricevuto in eredità dalle nonne. Difficile prevedere quale sarà il futuro di questa gente, ma l'albero contorto, che già adornava le foto di qualche decennio fa, sta lì a sorvegliare dall'alto il fiume che continua a scorrere in basso, con le sue rive scoscese che la corrente, quandosi fa forte e violenta si mangia a poco a poco, scavandole con la furia involontaria che spesso la natura ha, senza considerare la presenza umana, e rimarrà ancora a lungo, muto testimone che forse riuscirà a vedere la fine di questa storia. Il cielo è di nuovo gonfio di nubi scure. E meglio partire. Turmi col suo mercato è a 75 chilometri su una pista non troppo facile ed è meglio arrivare prima del pomeriggio. Pare che oggi ci sia una cerimonia di Ukli Bula e non la si può perdere di certo.
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1 commento:
Consiglio di leggere When the rivers run dry, è anche tradotto in italiano ma non ricordo con quale titolo, su quanto siano dannose le dighe dal punto di vista ambientale e dell'apporto idrico.
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