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Il monastero di Poltava - Ukraina - giugno 1997
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Con Gianni a Poltava
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Ci andammo nella tarda primavera a Poltava, una cittadina dell'Ukraina centrale. La neve invernale se ne era già andata tutta lasciando posto a prati infiniti di un verde carico e grasso, quello che allarga il cuore in quelle terre dove nonno Gelo la fa da padrone per diversi mesi all'anno. Così la terra sembra risvegliarsi in ritardo rispetto alle terre del sud più fortunate, abbracciate dal sole prima e più calorosamente. Così da quelle parti tutto sembra sonnecchiare più a lungo, la vita è più lenta, la gente appare o almeno appariva tranquilla e senza molta ansia di correre. La città mi colpì per i larghi spazi, i parchi pieni di alberi e le colline che si allargavano attorno, più che altro leggerissime ondulazioni che parevano un mare calmo e verde, dove il grano era ancora in erba e tardava a salire per formare quell'oceano di spighe in cui sarebbe esplosa la breve estate calda. Tutta quella tela verde era punteggiata da torri e campanili bianchissimi, chiese settecentesche che si levavano all'interno di riquadri naturalmente curati. Lontanissimo, quasi all'orizzonte, dove le colline si elevavano un poco, la sagoma di un monastero con le sue cupole puntate verso il cielo, un tocco di oro leggero a segnarne le sommità. Un paesaggio idilliaco a vedersi, che invitava alla calma e alla meditazione. Pochi rumori nell'aria la mattina, quasi che la gente volesse rimanere al caldo delle pesanti coltri ancora un poco prima di alzarsi.
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La chiesa
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Così tutta la città aveva una gradevolissima aria sonnolenta, così lontana dalle sue riminiscenze storiche che l'avevano collocata al centro di antiche guerre e feroci battaglie, per una regione che forse a causa della facilità del suo territorio immenso e senza barriere naturali, aveva visto alternarsi dominazioni di ogni genere dal Granducato di Lituania, a cui subentrò il regno di Polonia e poi gli svedesi, sconfitti infine dagli zar Russi, proprio nella proverbiale battaglia di Poltava. Sicuramente un karma che in questi giorni, puntuale come il destino è solito fare, si ripete, col sibilo sei missili che si abbattono nei dintorni. Per fortuna i cingoli dei carri russi non dovrebbero ancora essere arrivati fin quassù ad arare i verdi campi di grano che si perdono all'infinito, con il loro vomere mortifero. Ancora prima, nell'antichità, era terra degli Sciti e quindi del regno degli Avari e del regno di Bulgaria. Insomma ne è passata di gente da queste parti. Mi sarebbe piaciuto andare a veder la tomba ritrovata di Baltavar Kubrat, il grande khan dei proto-bulgari del VII secolo, ma non c'era tempo, avevamo tutta una serie di incontri in una fabbrica locale che voleva un grande impianto per l'imbottigliamento di acqua minerale, sempre sul punto dell'incontro decisivo per la firma del contratto e non c'era tempo per le gite turistiche. Giravamo quindi per i giardini della città in attesa di essere chiamati per gli ultimi dettagli tecnici. Verso mezzogiorno c'era più gente in giro e in qualche piazza si formavano lunghe file di venditrici di povere cose. Un fai da te commerciale che era fiorito subito dopo il crollo dell'URSS e la sua dissoluzione, seguita nella neonata Ukraina dalla colossale iperinflazione che aveva distrutto la vita delle persone e l'economia del paese. Così l'offerta delle vecchiette intabarrate in larghi scialli, con in testa bianchi fazzolettoni, era costituita soprattutto da poveri prodotti dell'orto, meline verdi, noci, cetrioli e tanti vasi di composte di ogni tipo.
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Il mercato
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Qualcuna esponeva qualche paio di calze o guanti di lana grezza, una carpa affumicata, ma le facce tristissime che stavano dietro quei monticelli di patate non invogliavano nessuno all'acquisto. Lungo i viali qualche malandata Zigulì parcheggiata di lato, simulacro delle rovine di un passato recente. Gianni rimuginava proposte per rendere l'offerta più allettante, alle nostre spalle la sagoma del lontano monastero si confondeva con gli sbuffi bianchi delle nuvole nel cielo. Chissà cosa è successo a quella città in apnea che sembrava galleggiare in una bolla senza tempo, così vicina al Dombass, da essere così dappresso e probabilmente già coinvolta nella guerra che ha portato a questa escalation e a tutte le future peggiori tribolazioni. Noi, dopo un paio di gironi di inutile attesa, scoprimmo invece che nelle casse della fabbrica non c'era un soldo o meglio una grivna o un carbovanzi, come cavolo si chiamava la moneta carta straccia che pomposamente aveva sostituito stupidamente l'odiato rublo, con i successivi Cuponi che sembravano i soldi del Monopoli ed era stata causa della successiva rovina economica del paese e quindi che il famoso contratto era un miraggio che non avrebbe mai portato ad alcuna conclusione concreta. Una delle tante strade cieche in cui ti imbattevi a quei tempi. Così lasciammo il vecchio albergo sovietico in cui avevamo trovato riparo e ce ne tornammo a Mosca con le pive nel sacco e anche abbastanza incarogniti. Mi rimase soltanto il ricordo di quelle colline verdissime e degli occhi tristi dello stesso colore di Irina, che lavorava per noi e ci accompagnava in giro per la città, con gli occhi bassi, che forse aveva saputo della insussistenza di fondi e soprattutto di dover rinunciare alla lauta provvigione, senza riuscire neppure a magnificarcene le bellezze. Mi sembra che poi ci lasciò per sposare un businessman canadese pieno di dollari (canadesi naturalmente) e si trasferì a Montreal e i suoi occhi da allora divennero allegri.
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Le composte
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