mercoledì 6 aprile 2022

Una domenica a Kharkhov

Kharkhov - gennaio 1992

Era gennaio, ma stranamente non c'era quasi più neve per terra, solo qualche mucchio ai lati della strada, sotto gli alti alberi senza foglie ed un sottile straterello ghiacciato sui prati dei giardini. Certo faceva freddino, ma l'aria secca e quel solicello quasi malaticcio, quel pallino giallo lontano con un poco di alone intorno, tipico dell'inverno russo, sembrava riscaldare l'aria e poi avevo una dublionka spessa e la shapka di volpe gialla che mi ero comprato a Mosca nell'Arbat che mi scaldavano le ossa. Insomma era un piacere passeggiare. La strada scendeva curva sotto la collinetta sulla quale trionfava la chiesa di San Pantaleone, così almeno credo si chiamasse. Dietro al sagrato vecchi tank russi della guerra mondiale, un cupo presentimento?  Kharkhov, così si diceva allora, era una città così tranquilla da apparire completamente addormentata nonostante la recentissima indipendenza dichiarata neppure sei mesi addietro. Poca gente per la strada in quella domenica, che pure chiamava a passeggiare nei parchi; la messa era terminata e le babuske se ne erano già andate a casa, forse, tranne quelle in fila che stazionavano davanti all'ingresso dal grande portale in attesa che qualche ritardatario lasciasse loro qualcosa. Alexiej, quando passava davanti a loro, tirava fuori con silenziosa puntigliosità, un vecchio portafoglio sdrucito e prendeva un mazzetto di cuponi che evidentemente aveva preparato e ne distribuiva un foglietto a ciascuna, da 10 o da 5 se li aveva finiti. In silenzio, così come lo ricevevano quelle vecchine infagottate in pesanti sciarponi neri, messi a più giri attorno al collo per resistere per ore al gelo invernale. Loro facevano solo un piccolo gesto con la testa come fossero imbalsamate e mettevano subito in tasca il frutto della loro attesa. 

Non parlava quasi mai Alexiej, alto, allampanato, di una magrezza preoccupante, le guance incavate come un personaggio di Dostojevsky. Le poche volte esibiva una voce cupa e profonda per pronunciare unicamente le parole essenziali. Mi sembra di non averlo mai visto ridere. Così dopo aver disceso la scalinata dietro alla chiesa, percorrevamo il viale che andava verso il centro dove si dispiegava una specie di piccolo mercato delle pulci. Qualche donna teneva le cose in mano per esporle alla vendita, calze di lana fatte in casa, camicette bianche ricamate coi i sottili disegni geometrici rossi della tradizione, ciabatte, qualche shapka di coniglio. Altri un po' più organizzati esponevano poche cose su un asse disposto sopra un paio di cassette di legno coperte da uno straccio colorato. Spillette commemorative di un URSS in disfacimento, tesserini del KGB, macchine fotografiche, francobolli, vecchie monete. Un banchetto più strutturato aveva dei bellissimi oggetti di cristallo, un servizio con una splendida bottiglia tutta sfaccettata con un tappo a sfera ed il fondo a spigolo anziché piatto che la faceva sembrare in bilico tutta piegata da un lato, con sei deliziosi bicchierini uguali. Alla fine comprai una cartamoneta da 100 carbovanzy, così li chiamava Alexiej, di epoca zarista grande quanto un foglio di giornale, davvero bella ed elegante con tante volute azzurre attorno alla data di emissione, 1910. Il vecchietto con la barbetta bianca, la tirò fuori con cura dal cellophane in cui era esposta e me la mise tra due fogli bianchi, incassando i biglietti del Monopoli, credo un migliaio di cuponi, che gli diedi in cambio. 

Un viso segnato dal tempo, incurante di quella ennesima rivoluzione che stava accadendo sotto i suoi occhi, che di certo avevano visto ben altro nel passato. Spero che li abbia trasformati subito in cibo vero, visto che in pochi mesi sarebbero diventati carta straccia. Sembrava molto vecchio e per sua fortuna non sarebbe campato fino ad oggi. Camminammo ancora a lungo tra i banchetti, guardando le scodelle di legno dipinto, lo sfondo nero e dorato con i frutti rossi dipinti con rapide e perfette pennellate, le foglioline verde chiaro, volute e viticci a completare l'ornato coprendo l'intera superficie. C'erano anche dei venditori di icone, di non eccelsa fattura, ma sempre di grande effetto. Ma sapendo che invariabilmente venivano sequestrate all'aeroporto, le guardavo e basta. L'aria era fine e addirittura tersa, il bel freddo secco ti pungeva la gola solo se scostavi la sciarpa e respiravi profondamente. Solo qualche Zhigulì passava raramente scoppiettando benzina mal combusta. Erano quasi tutte senza tergicristalli, tolti alla sera per paura che fossero rubati, c'era sempre un problema di defizit, allora, quasi su tutto, figuriamoci per i ricambi auto. Però c'era anche un sacco di speranza negli occhi della gente, nei passanti frettolosi, nelle ragazze dalle lunghe gambe fasciate da alti stivali neri, nelle signore con le borse della spesa sempre vuote, ma con i grandi colli di pelliccia. Nei grandi viali del parco e poi per le strade di Kharkov si respirava fiducia nel cambiamento, credo che nessuno si aspettasse anni durissimi di miseria e patimenti e poi appena messa la testa fuori dal guano, ecco l'arrivo di questo orrore indicibile, puro e disastroso, le case divorate dagli incendi e dalle bombe, quelle case davanti alle quali camminavo lentamente, le facciate devastate dalle pallottole, le finestre, come occhi anneriti dal fumo e squarciate dalle devastazioni, i morti per le strade. I cambiamenti, come diceva la nonna del mio amico Zhenja, sono sempre in peggio.



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