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Da qualche parte nel Caucaso - novembre 1994
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L'aeroporto di Mineralnje vody
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Se penso all'Asia centrale, non riesco a fare a meno di riportarmi con la mente
ad Ashgabad e a quella volta che ci finimmo quasi per caso in cerca di affari
mirabolanti, cose che disolito si trovano sempre negli angoli più sperduti del
mondo. Quella città, sovietica come poche altre, anche se ormai i soviet erano
scomparsi, era quasi completamente rinnovata dopo un pauroso terremoto di pochi
anni prima ed a colpo d'occhio non aveva nulla di interessante da offrire, ma
c'era nell'aria un non so che di esotico, un odore di muschio sporco e di
caprone lanuto che mi avvinse. Tutto cominciò da un'altra parte, nella
repubblica Karachajevo-Cerkieskaja. Gospadin Bulik era un Karachaijevo
allampanato, sempre stretto in un cappottino liso e leggero, anche in gennaio.
Aveva una barbetta rada ed i capelli corti sotto un cappello di pelle nera di
antico uso, al di sotto del quale, due occhietti da faina ti esaminavano, sempre
un po' in tralice. Andrej, il nostro contatto laggiù, assicurava che avesse
potenti legami in Asia centrale, ma quando eravamo andati nel suo ufficio, un
buchetto scuro in una specie di conteiner di compensato, non ci aveva fatto una
grande impressione. Si occupava soprattutto di trading di cotone dai paesi di
lingua turchesca che dominava assai bene, parlando sempre con voce cupa e
bassissima, praticamente un personaggio tirato fuori pari pari da un libro di
Dostojevskj. Era un affare grosso quello che aveva per le mani.
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Ragazze turkmene
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In Turkmenistan
venivano prodotte grosse quantità di bozzoli da seta che, per la mancanza di
macchine adatte andavano per la maggior parte perduti. Un progetto ambizioso, da
almeno 5 milioni di dollari. Avevo lavorato per mesi all'idea, con una
interessante triangolazione che lo rendeva molto competitivo. La prima parte
delle macchine per trattare i bozzoli venivano acquistate in Cina con l'aiuto
dell'amico Ping, (l'unico posto dove venissero ancora prodotte), mentre quelle
più sofisticate della seconda parte dell'impianto, le avremmo ordinate a Como,
centro della lavorazione della seta. Noi saremmo stati i main contractors del
progetto e del commissioning. Avrevo preparato un book di fattibilità di quasi
200 pagine, del quale ero molto orgoglioso. Bulik ci confermò con mezze
ammissioni che l'offerta era molto piaciuta. Era quindi venuto il momento di
chiudere il contratto. In una gelida mattina di gennaio, ci ritrovammo quindi
nel cadente stanzone di attesa (sala è un po' troppo) dell'aeroporto di
Mineralnije Vady nel Caucaso, con Stefania, Andrej e Bulik, seduti sulle panche
di faesite scrostata, prima di salire sul gigantesco Iljiushin per Ashgabad.
Saremo stati al massimo una trentina e le hostess (nessuna di peso inferiore ai
cento chili netti) ci fecero sedere tutti in fondo all'aereo, in una tremenda
puzza di gatto morto, in quanto pare che quel modello decollasse meglio se aveva
tutto il peso in coda. In qualche modo il volo si concluse positivamente,
depositandoci in Turkmenistan in condizioni igieniche deprecabili. Pensavamo di
rassettarci alla meglio in albergo, ma l'orrenda bicocca scelta da Bulik, a suo
dire il meglio che offriva la piazza, ci depresse ulteriormente.
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Al lavoro
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Come di
consueto, il figuro al bancone fece un sacco di problemi; infine riuscimmo ad
ottenere almeno due stanze col pavimento coperto di scarafaggi morti e bucce
secche di mandarino. Demmo la migliore, se così si può dire, a Stefania, già
molto innervosita, io mi presi l'altra, mentre i nostri due, adducendo varie
scusanti, si arrangiarono nel ricovero della dejurnaija, una matrona
imbellettata che esibiva una nona sotto una maglietta pelosa di angora cinese.
Mi rinchiusi, dopo che un topo, ma piccolo, era sgusciato nel corridoio,
vagamente illuminato da fioche lampadine, in maggioranza bruciate o mancanti del
tutto. Una notte difficile, circondati dalle orde dei germi dell'Asia Centrale,
ultimo rifugio della peste bubbonica. Fu un risveglio doloroso, essendo poco
praticabili le toilettes, con un tentativo di colazione con cetrioli in
composta, pane cementizio e smietana. Alle dieci ci aspettava il cliente per
illustrare il progetto. Era in ritardo, ma quando arrivò, la delusione ci fece
quasi cadere tutta la documentazione che avevamo accuratamente preparato. Ci si
parò innanzi una specie di pastore asiatico leopardiano, male in arnese, con una
dubljionka spelacchiata da cui spuntava una giacchetta stazzonata, che
spiegò a Bulik come il progetto andasse benissimo, mentre alla mia insistente e
dubitosa domanda - Dienghy iest? - (ma i soldi ci sono?) fece spallucce, dicendo
che dovevamo andare in banca per il finanziamento. Stefania mi lanciava occhiate
interrogative, io cercavo assicurazioni da Andrej che a sua volta le chiedeva ad
un sempre più impenetrabile Bulik. Giungemmo alla banca prima di mezzogiorno ed
il nostro pecoraio, che per tutto il tragitto ci aveva illustrato le montagne di
bozzoli in attesa di essere trattati, fu ricevuto con Bulik in direzione. Dopo
un quarto d'ora, i due uscirono a testa bassa, cercando di guadagnare l'uscita
con lo sguardo bastonato del cane a cui è scappato il gregge.
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Tra la neve
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Il direttore si
avvicinò a noi con aria di scusa e ci spiegò che il nostro cliente non aveva ben
chiaro come funzionassero i finanziamenti e che aveva creduto che, complice la
perestroijka, fosse sufficiente andare in banca a chiedere il denaro (5
milioni di dollari) per ottenerlo! Era assai spiaciuto perchè riteneva il
progetto molto interessante, ma come tutti i banchieri, in mancanza di
garanzie... allargò le braccia. Inseguimmo i due e caricammo di contumelie il
pastore, che se la filò in fretta promettendo futuri e certi finanziamenti,
magari in miliardi di tenghé, la valuta locale, Bulik che ci aveva trascinato in
quella sciocchezza, costataci tanto impegno e Andrej che non aveva controllato
la serietà della cosa. Andammo di corsa a cercare un'agenzia che vendesse
biglietti per Mosca, la trovammo in uno scantinato, ma quando mostrai la carta
di credito, le rotonde addette si lanciarono uno sguardo interrogativo e poi
scoppiarono a ridere quando capirono che volevo pagare con quel rettangolino di
plastica, con Stefania che si affannava a tradurre in maniera più convincente
possibile. Dollari, dollari verdi, se no non se ne parla. Pagai in silenzio e
poi trascorremmo le ore che ci separavano dalla partenza in una fabbrica di
tappeti a guardare con quanta precisione, schiere di ragazze annodavano i fili
di lana,formando come per magia i gul ottagonali che si allineavano mano
mano sui grandi telai. Come mio solito non resistetti alla tentazione di
portarmene via uno. Poi lasciammo Bulik al suo destino e quando tempo dopo ci
contattò per proporre un ricco baratto di venti chili di veleno di api e bile di
orso in cambio di impianti, staccammo il fax per non sprecare carta.
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La magia del tappeto
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Imputato alzatevi
1 commento:
Bellissimissimo!
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