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Al confine tra Asia e Europa - Gennaio 1993 |
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In treno verso gli Urali |
Gli Urali hanno tutte le caratteristiche per diventare un
luogo del cuore in particolare se ci arrivavate nel 1993 nel momento del crollo
dell’URSS senza telefonini e privi di quelle connessioni che adesso vi
legherebbero indistricabilmente alla globalizzazione benedetta o maledetta a
seconda delle convenienze. Ufa, capitale della Bashkiria, i cui abitanti si chiamano
Ufimzy, tanto per rispondere alla domanda che di certo vi sorge spontanea e non
Ufologi, come suggeriva l’amico Gianni in un anelito di contatto del terzo
tipo, è un buon punto di partenza per raggiungerne le aree più solitarie ed
affascinanti e aveva anche il vantaggio di essere a quel tempo, una delle città
più inquinate dell’impero sovietico. L’aria aveva un perenne sentore di fenolo
e Gianni mi raccomandò di usare poco l’acqua del rubinetto, perché sulla pelle
rimanevano strani e sospetti rossori. Malelingue affermavano che il numero di
nascite con deformazioni, superasse ogni altra zona conosciuta. L’impressione
era un po’ quella di una zona un po’ fuori dal controllo centrale, dove le
camarille locali facevano un po’ il bello ed il cattivo tempo. Gli incontri con
diversi personaggi equivoci, che si spacciavano per i maggiorenti locali ce lo
confermò, così come un losco personaggio, tale N. che come credenziali ci
assicurò di essere stato in galera cinque anni prima per crimini commerciali.
Sembrava questa una specie di medaglia al valore che contraddistingueva chi era
in grado di offrire buoni affari. Per fortuna presto arrivò la macchina che ci
doveva portare alla paradisiaca Jangantau, dove, essendo arrivata la conferma
del pagamento della linea di imbottigliamento dell'acqua minerale, ci
attendevano alla fonte per il progetto dell'impianto.
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Alla fonte miracolosa |
Ricordo solo il nostro
stupore nel trovare nel luogo, dove ci aspettavamo un capannone pronto ad
accogliere il nostro impianto, una landa desolata con un tubo di acqua che
fuoriusciva da un laghetto ricoperto di spesso ghiaccio verdastro. Era la
famosa fonte ricolma di benefiche proprietà minerali radioattive, grazie alle
quali, il vicino sanatorij era pieno zeppo di curandi. Non rimase che fare la
foto ricordo, davanti al cumulo di neve dove sgorgava l'acqua miracolosa mentre
il capo delegazione, si sacrificava a (far finta di) bere un sorso del famoso
elisir di lunga vita. Non era chiaro quali fossero i motivi dei benefici
effetti dell'acqua stessa e delle cure che venivano lì praticate, ma, come ci
spiegò il gran dottore capo del sanatorij, c'erano almeno una trentina di teorie
sugli effetti di quello che definì come un reattore naturale sotterraneo, da
cui emergevano effluvi vari, tra cui il radon. Tra le altre cure sperimentali,
parevano particolarmente efficaci certe sedute di vapori in cui il malcapitato
veniva rinchiuso con la testa fuori, in una specie di stufa/bara fatta con dei
frigoriferi finlandesi di recupero. Era la genialità russa dell'arrangiarsi e
non potemmo esimerci dal sottostare alla cura, su cui però, vorrei soprassedere
dato che, nel ruffianesco tentativo di accreditarci le simpatie del direttore
che avrebbe avuto una parte essenziale nella firma del contratto, ci
sottoponemmo di buon grado ad essere inseriti nella bara, con la testa fuori
per subire eventualmente il beneficio della cura, oltre che l’acquisizione
della commessa. Nel gran banchetto di benvenuto della sera, capimmo che i
responsabili volevano da noi anche un aiuto sottoforma di suggerimenti utili a
costruire un capannone degno della tecnologia occidentale che avrebbe ospitato,
ma non avendo sottomano strumenti idonei, mentre le bottiglie di vodka vuote si
allineavano a terra nella grande dacia di legno nascosta nella foresta di
betulle, coperta di neve ma riscaldata all'inverosimile, prendemmo alcuni fogli
di carta igienica, gli unici disponibili sul posto, dove fu vergato uno schema
di capannone utile alla bisogna.
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Tra le betulle |
La carta, che era robustissima essendo del
famoso tipo chiamato "la vendetta di Stalin", conosciuta per rendere
di un bel rosso vivo le parti interessate a causa della sua ruvidezza, funse
perfettamente allo scopo e risulta che fosse inserita successivamente tal
quale, nel fascicolo descrittivo del progetto. Mentre i convenuti cominciarono
a rotolare come previsto dal protocollo, sotto il tavolo ad uno a uno, calò la
notte pesante. Tra le montagne di Yangantau, mentre sul fondovalle il nastro
d'argento del fiume formava una grande esse prima di scomparire tra le colline,
regnava una pace plumbea, ma c'era nell'aria un turbamento profondo. Il giorno
prima, erano circolate strane voci provenienti da Mosca. Eravamo riusciti, nel
tardo pomeriggio, ad avere la linea telefonica e la moglie di Gianni ci aveva
detto con una certa preoccupazione che c'erano i carri armati sulla Kutusovsky
che entravano in città e non si capiva cosa stesse succedendo. Al mattino fu
sospeso il segnale TV e tutte le linee telefoniche. Dovevamo essere ricevuti
dal sindaco in pompa magna, ma ci dissero di rimanere alla dacia, perché il
sindaco aveva l'influenza. A questa notizia ferale e sospetta, Gianni cominciò
a preoccuparsi, stava succedendo qualcosa di grave. Intorno a noi la coltre di neve avvolgeva la montagna come una
coperta funebre, dolce e bellissima. Le betulle bianche si stendevano all’infinito
infondendo un senso di pace assolutamente ineguagliabile nel quale nulla poteva
interferire. Una calma quasi letargica, dove anche i piccoli problemi del
nostro impianto, si discutevano con i tempi biblici delle calde isbe sepolte
sotto la neve dell'inverno russo.
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Urali |
Lontano migliaia di verste, a Mosca era
invece in corso una lotta feroce per colmare il vuoto di potere che si era
creato, ci si batteva senza esclusione di colpi per chi dovesse prendere in
mano la nuova Russia bambina e la sua ricchissima eredità, nata da poco, già
così contesa dalle dita adunche dei predatori, che si accalcavano dentro e
fuori dalla Duma, la casa bianca russa, antagonista del Kremlino nella
battaglia dei nuovi oligarchi. Noi, come ci diceva tranquillizzante il vecchio
dottore che dirigeva il sanatorij, eravamo fuori dal mondo, lontano da questi
giochi e nulla dovevamo temere. Come in passato, quando avvenivano questi
rivolgimenti, la provincia lontana, entrava in un sonno di tipo letargico,
aiutata dal clima, e attendeva il trascorrere della nottata per capire chi
aveva in mano il bastone del comando e uniformarsi al nuovo corso. Tutti i
responsabili politici si davano malati, in attesa delle nuove fotografie da
appendere al muro degli uffici. Non rimaneva che chiacchierare di letteratura,
senza esporsi troppo e riposare con calma. La banija, la sauna russa con
relative vergate di rami di betulla sulle chiappe era il luogo ideale, ma, per amor di
patria, trascurerò di scendere nei particolari, tutto sommato inutili al succo
del racconto, se non per puntualizzare che qui fu presa la decisione di non
interrompere precipitosamente il viaggio e di confermare i biglietti aerei.
Rimanemmo ancora un giorno nella pace degli Urali, guardando dall'alto il fiume
d'argento, mangiando shashliky tra una interminabile foresta di bottiglie di
vodka, nella calda dacia di legno, puntualizzando il progetto che avrebbe preso
vita in primavera quando l'acqua mineral-radioattiva della fonte miracolosa,
avrebbe finalmente avuto il corretto imballo che si meritava per poter prendere
le vie del mondo.
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La valle di Jangantau |
All'aeroporto eravamo in pochi, nel cuore della notte gelata.
Nella saletta internazionale dove eravamo confinati, trovammo solo un bulgaro
dalla faccia da lottatore che pareva uno di quei mediatori da foro boario delle
Langhe. Vendeva di tutto e girava le estremità delle Russie cercando piccoli
business commerciali, una specie di rigattiere ambulante di prodotti vari,
segno dei tempi. Dove te sapere che dappertutto, in ogni tempo, le necessità che nascono, vengono
subito riempite da qualcuno, i bisogni vengono coperti, se manca la carta
igienica in Chukotka a diecimila chilometri da Mosca, qualcuno sicuramente penserà
che conviene andarci e vendergliela. Così dovunque andrete per il mondo,
troverete sempre degli uomini, all'apparenza anonimi, con una piccola valigetta
in mano, la borsa dei contratti, nera e piena di carte, di foto e di
campioni che aspettano un aereo, un treno, un autobus, che attaccano bottone
con i vicini, tanto per ingannare le lunghe attese. Vi chiederete cosa ci fanno
in quel posto sperduto e apparentemente privo di interessi. Stanno lì,
silenziosi o chiacchiericci, pensierosi, a inventarsi qualcosa per portare a
casa del lavoro ad altri, che aspettano a casa, con impazienza, di cominciare a
fare delle cose, a muovere le macchine, a produrre roba. L'aereo che portava ad
oriente, sempre più malandato man mano che ci si allontanava da Mosca, aspettava
immobile di partire sulla pista di ghiaccio nel cuore della notte. Anche noi
salimmo quella scaletta, silenziosi, verso un'alba gelida, remota, lontanissima
da quegli splendidi Urali candidi di neve e coperti delle betulle più bianche che abbia mai visto.
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Le bianche betulle di Jangantau |
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