sabato 26 ottobre 2024

Caucaso 28 - I monasteri da Dilijan ad Alaverdi

Monastero di Haghartsin - Dilijan - Armenia - Caucaso - maggio 2024 (Foto T.Sofi)
 

Il lago di Sevan

Siamo arrivati in fondo al lago, qui la costa si insinua tra le colline nascondendo i paesini che hanno un'apparenza di abbandono. Sembra che dopo la caduta dell'URSS, il crollo delle presenze di turisti russi abbia dato un colpo abbastanza pesante all'economia locale, con il conseguente spopolamento della zona. Lungo il lago si vedono infatti zone con quelle che potevano essere aree balneari o comunque luoghi di vacanza, ma il senso di abbandono è inequivocabile e tutto l'intorno ne risente. Quando arriviamo al promontorio che mostra sulla cima la costruzione del monastero di Sevanavank, tutto sembra prendere vita, quantomeno questa presenza attira fedeli e mantiene una attività. Anche la religione ha sempre mosso il business, molto in altri tempi, ma anche adesso è certo. Infetti la scalinata che porta alle costruzioni ammucchiate sulla sommità mostra un certo passaggio di fedeli ma anche di turisti, incluso un gruppo di chiassosi cinesi che guadagnano in fretta la cima tra gridolini delle ragazze e selfie sparsi lungo la salita. Come ho già detto questo promontorio, prima del maldestro e criminoso tentativo di semiprosciugare il lago, era un'isola, detta l'isola degli uccelli, staccata dalla riva e raggiungere il monastero prevedeva anche un passaggio in barca, facendo sì che l'eremo fosse di fatto isolato, tanto che si dice che qui venissero mandati i monaci diciamo così birichini, in modo che non avessero più occasione di essere tentati da donne o ragazzini, che poi alla fine i problemi son sempre gli stessi, in tutti i tempi. Si sa che la carne è debole.

Sevanavank

Le prime costruzioni risalgono al IV secolo, poi distrutte da Tamerlano che potendo non ne risparmiava nessuna, mentre le attuali risalgono al 1400, sebbene distrutte più volte dai terremoti. Per la verità di chiese ne rimangono solo due, la terza fu abbattuta durante il periodo sovietico e le pietre utilizzate per costruire una casa di riposo in città. Sic transit gloria mundi si potrebbe dire, tuttavia il luogo, che dal '90 si è è ripopolato di monaci, presenta nuovamente un rifiorire delle sue funzioni originarie. Sulla cima domini il lago e le due chiesette stanno lì con le loro pietre antiche ricoperte da licheni che le disegnano di trine colorate rosse e azzurre, mentre il cielo si infittisce di nuvole spesse, cariche di pioggia che però non vuole scendere, sempre più aggrovigliate con il solo desiderio di negarci un tramonto di fuoco che ci aspettavamo da questa posizione privilegiata. Così tutto il panorama assume quella colorazione di piombo che tanto caratterizza i laghi e li rende tristissimi. Scendiamo con calma mentre il cielo si scurisce ancora ed i pochi banchetti lungo le scale hanno ormai chiuso, avendo deciso che per il turismo la giornata è finita ed i monaci hanno altro a cui pensare e riprendiamo la via, fermandoci ad un'altra food court lungo la strada, che rappresenta sempre una valida soluzione per ingollare il necessario numero di calorie ed oltre, per proseguire poi fino a Dilijan, una deliziosa cittadina dal sapore passato, nel bel mezzo di un parco nazionale tra le montagne, fatto di foreste di latifoglie e alture che nascondono paesi abbandonati e una serie numerosa di monasteri e chiese antiche che vedremo domani. 

Case di Dilijan

Chiamata anche la Piccola Svizzera armena, era popolarissima in epoca sovietica, quando qui veniva tutta la nomenclatura dei politburò a "riposare", come diceva il mio amico Zhenja. Adesso c'è più calma naturalmente e forse proprio per questo il luogo è ancora più godibile. Noi siamo in una villetta in periferia, con un piano tutto per noi. Quelli che possono, adesso sfruttano le loro case per ospitare i pochi che arrivano ancora da queste parti ed arrotondare in qualche modo in questi tempi difficili. Il mattino ci trova un po' insonnoliti in questa atmosfera montana. E' ancora presto quando usciamo in città per passeggiare tra le sua antiche case che danno sulla valle circostante completamente ricoperta di fitti boschi di latifoglie. Qui ti rendi davvero conto di quale fosse la struttura e l'aspetto di una città armena dell''800, con le sue grandi case di pietra e di legno, con gli ampi balconi che ne circondavano il primo piano, sostenuti da sottili ed eleganti colonnine lignee, che coprivano lunghi porticati sotti i quali ancora adesso è piacevole passeggiare. Non stupisce che questa area così ben conservata, fosse focalizzata alla creazione di un interesse turistico di un certo spessore, senza considerare la splendida natura che circonda la città e le gemme architettoniche che i dintorni conservano, almeno nelle parti che i terremoti così frequenti e distruttivi, hanno evitato nei secoli di radere al suolo. In giro non c'è quasi nessuno e tutto ciò contribuisce ad aumentare l'atmosfera di solitaria bellezza che l'ambiente nel suo complesso ti ispira. 

La statua di Mkitar

Un pope, nella sua lunga tunica nera e il tocco cilindrico calato sui capelli disordinati, passeggia assorto nei suoi pensieri, nelle mani un libro, il breviario?, col dito dentro, certo per tenere il segno. Ha gli occhi semichiusi, il viso serio di chi ragiona sul destino delle anime in questo mondo così difficile da interpretare, da capire o chissà che invece non sia il tesoriere del convento, molto preoccupato dei conti che faticano a quadrare. Qualche casa è unita l'una all'altra da sovrapassaggi che, collegandole, aiutano anche a mantenerne salde le strutture, come nei nostri paesini di montagna, la prima difesa contri i feroci movimenti della terra. Ferro battuto, legni istoriati, rocce scolpite con disegni antichi, croci e stemmi che riportano ad un medioevo non così lontano come la conta degli anni vorrebbe. Fronde che stormiscono lontane sulle colline e che sono la colonna sonora del luogo. Poi basta spostarsi di qualche chilometro fuori città ed eccoci a Goshavank, un gruppo di edifici raggrumati gli uni sugli altri, cappelle, chiesette e ambienti utili alla vita di un monastero, biblioteca, refettorio, magazzini. Fuori, severa e scura, la statua al fondatore Mkitar, scienziato e scrittore, ti osserva mentre varchi l'ingresso di pietra. La chiesa di S. Gregorio l'illuminatore, è la più importante con la sua spettacolare volta nella quale gli archi di pietra si incrociano segnando una splendida crociera quadrata centrale da cui arriva una luce che diresti divina. 

Goshavank

Fuori, nella parte posteriore del complesso, una collezione di croci di pietra, tra le quali spicca quella siglata da Poghos che si dice essere la più bella dell'Armenia. In effetti se la osservi da vicino, assieme alle sue compagne che certo non sono da meno, ti sembra di guardare una sorta di lavoro all'uncinetto che si appoggia sulla pietra luminosa che quasi illumina lo spazio circostante. Certo di monasteri, di chiese il Caucaso è pieno, alla fine ne vedi tanti e il rischio è quello di confonderti o di aver poi un ricordo confuso che assomma tutto in un mescolone di dettagli ed elementi architettonici che vanno a fondersi in un minestrone di sensazioni di generica e confusa bellezza. Ma non è così. Basta riguardare una foto, rimestare un ricordo e subito un elemento distintivo ti salta poi alla memoria e rinnova quel piacere che hai provato, quella sensazione di appagamento che tutta la bellezza assoluta ti sa dare e che alla fine rimane ben fissa nella memoria. Un breve tratto di strada e siamo ad Haghartsin, che, come ricorda il nome è "il gioco delle aquile", un altro gruppo di costruzioni nascosto dal bosco al quale arrivi discendendo una ripida strada in un vallone. Chiare costruzioni dai ripidi ed eleganti tetti a spiovente, sui quali spicca il tamburo ottagonale, che i 16 archetti alleggeriscono ulteriormente, alto con il cono terminale aguzzo che si libra su tutto. E' un'altra bella costruzione molto omogenea di quel periodo d'oro per l'architettura armena, che gira attorno al XII-XIII secolo e che tante bellezze ha seminato in ogni parte del paese. 

La quercia 

Dappertutto noti croci e simboli della cultura armena, dai bassorilievi alle lettere dell'alfabeto sparse anche sulla campane. Sculture ovunque, nella pietra si allinea il disegno potente dello scalpello che crea storie, volti, immagini, molte che riportano le aquile della tradizione che hanno contribuito al nome del complesso. Tre chiese, opera globale dell'architetto Minas, che ne fece il suo capolavoro, la minore delle quali, è una replica in piccolo della principale. E poi un vasto refettorio con mobili replicati su modelli dell'epoca. All'interno tombe di regnanti che hanno fatto la fortuna del luogo e le splendide strutture che culminano in oculi centrali da cui la luce entra prepotente a fendere l'oscurità degli ambienti portando quello che sembra davvero un anelito divino. Non per nulla qui si dice si avverta "la voce di Dio", al punto tale che lo sceicco arabo al-Khashimi, che ha visitato il luogo nel 2005, è rimasto talmente colpito da questa emozione da finanziare completamente i lavori di restauro del sito, caso direi decisamente anomalo in tempi moderni che un islamico finanzi un tempio cristiano. Mi sembra non poca cosa. E poi ancora molte khachkar tra le quali una di quasi 800 anni, detta anche la croce infinita per il suo disegno che crea un effetto di repliche continue. Dietro la chiesa anche quello che rimane di una antica quercia, un tronco corroso dai secoli e ridotto ad una crisalide cava, dentro il quale si può addirittura penetrare, e riuscendo a fuoriuscirne lateralmente e senza danni, avere la certezza della risoluzione dei propri desiderata e della corresponsione delle grazie richieste. 

Haghpat

Poi la strada prosegue in una lunga valle montana verso nordovest e dopo Vanadzor pieghiamo decisamente a nord traversando una costa di montagne per avvicinarci ancora di più al confine georgiano. Altre due gemme ci aspettano nascoste nella valle del Debed, una gola profonda scavata in un altopiano con la parte superiore piatta ed estremamente regolare che percorri velocemente, salvo poi precipitare verso il fondo in una serie di tornanti ripidi e avvolti dal bosco. Si tratta di altri due complessi monastici posizionati in alto in modo da dominare le gole stesse e che quindi propongono viste mozzafiato sul panorama sottostante. Prima Haghpat, decisamente scenografico, domina su un piccolo centro abitato sottostante ed è costituito dal solito insieme di cappelle, chiesette, biblioteca, refettorio e altri magazzini vari destinati alla vita conventuale. Gli interni, dove domina la pietra grigia, sono piuttosto spogli, ma questa povertà d'arredo fa risaltare ancor di più la struttura architettonica con il gioco delle volte sostenute da grandi archi che si incrociano, in particolare la grande sala centrale della chiesa principale, bene illuminata dalle aperture della cupola, sostenute da imponenti e massicce colonne ornate da ricchi capitelli. Qui sono visibili dei begli affreschi che raccontano di come dovevano essere policrome e ornatissime, all'origine. Anche il campanile che spicca esternamente non è consueto in questo tipo di costruzioni. 

Il campanile

Svetta sul culmine della collina come fosse una cappelletta distinta e solo lo slancio di verticalità che lo contraddistingue lo fa individuare nel suo uso, non appena intravedi sopra il timpano, dalle piccole bifore laterali, la minuscola esedra sommitale che ospita le campane. Elegantissimo con i suoi angoli smussati che terminano in decori tipicamente persiani, anche le modanature delle pareti esterne sono di complemento di una vera e propria opera d'arte assoluta. In un altro vasto ambiente laterale, forse un magazzino, al quale tuttavia la serie di archi e volte conferiscono una dignità quasi sacrale, ecco apparire sul pavimento una serie di fori circolari, la parte esterna di orci che probabilmente erano destinati alla produzione tradizionale del vino, che proprio in queste aree ha visto la sua invenzione, se così la vogliamo chiamare. Magnifiche le cappelle esterne, con gli ingressi che appaiono come trine scolpite nella roccia tenera e sormontate da altrettante stupende croci. Torniamo quindi in fondo alla valle, verso Alaverdi la città industriale che è sorta qui in epoca sovietica con lo sfruttamento delle miniere di rame, oggi molto ridotte come produzione e quasi abbandonate, che presenta la faccia triste di ogni luogo postindustriale di epoca passata, con le sue file di capannoni in disuso, lasciati in preda alla ruggine e al degrado. Lo spopolamento che ne è conseguito contribuisce ancor di più a quell'aria di desolato abbandono che ammanta tutti questi luoghi che hanno avuto una storia recente di industrie finite nel nulla, nonostante, assieme all'attività della fonderia, dia ancora lavoro a qualche migliaio di persone. 

Sanahin

Certamente l'aspetto dell'area è devastante, in linea con tutti i similari luoghi minerari delle altre parti del mondo. A soli sette chilometri invece, risalendo il bordo della gola, eccoci a Sanahin, altro centro culturale religioso di una certa importanza dove una comunità di monaci studiava i testi sacri, ricopiandoli e producendo opere d'arte straordinarie. Il gruppetto di edifici risulta qui seminascosto tra i rilievi erbose e le costruzioni emergono da lontano solo per le loro parti superiori. Su tutti domina il grande gavit, l'imponente e severo vestibolo della chiesa principale di San Astvatsatsin (Santa madre di Dio), con il suo lungo colonnato di sostegno  che devi percorrere per entrare nella chiesa, passando per la interminabile serie di lastre tombali scolpite, che formano esse stesse un incredibile decoro sacro. Ma anche l'altra, quella di St. Amenaprkich, ha una struttura straordinaria col suo grande vestibolo quadrato che anticipa la navata rettangolare ed altissima sostenuta da colonne grasse e tozze, completamente ricoperte di iscrizioni nel geometrico alfabeto armeno, quasi a contrasto con lo slancio della costruzione complessiva. In fondo, nell'abside che la tenda rossa lascia aperta e visibile, secondo la tradizione ortodossa armena, due monaci parlano tra di loro alzando gli occhi al cielo di tanto in tanto. 

I lunghi capelli grigi raccolti in una codina, un po' hippy d'altri tempi, si muove all'unisono con i cenni di affermazione. All'esterno le alte pareti alle quali la pietra squadrata darebbe un senso di pesantezza, sono alleggerite da una serie di archetti verticali che terminano in sottili ed eleganti colonnine che arrivano fino al suolo. Anche qui una costruzione a torre contiene il campanile. Attorno, tutta una serie di costruzioni minori, cappelle, le tombe degli Zacharia, la famosa biblioteca ed una chiesetta in rovina, della quale indovini a malapena la cupola crollata di pietre grigie ammonticchiate a terra. Dappertutto una imponente serie di khachkar, alcune bellissime davvero. Ce ne sono almeno una cinquantina, alcune all'interno, altre a far da corona, con la loro tenera pietra rossa a far da contrasto con il grigio delle pareti, sparse all'esterno. Insomma un altro luogo a cui la assoluta assenza di visitatori conferisce un senso di sacralità molto coinvolgente. Se non fosse per qualche banchetto lungo la scala che sale al monastero, davvero avresti la sensazione di vivere in un tempo diverso. Mille anni qui non sono niente, almeno questa è la sensazione. 


Distillatori di calvados

Mentre scendiamo passiamo davanti al cimitero recente, qui niente khachkar, ma grandi lastre tombali di granito nero sulle quali sono state riprodotte, credo con un sistema di elettroerosione, vere fotografie del defunto lì sepolto. Piuttosto impressionanti. Ma una signora ci chiama da dietro al suo banchetto, visto che passa poca gente di qua. Il marito ci fa subito entrare nella sua casupola che sta alle spalle del negozio stesso. Lo abbiamo beccato che stava distillando mele, in una specie di calvados di queste parti e vuole subito mostrarci il suo lavoro, insomma che qualcuno lo apprezzi. Ci racconta un po' del suo laboratorio contadino, poi parte l'assaggio, 56 gradi, un po' forte direi, ma lui ride contento; un po' di formaggio aiuta a far passare l'aggressività del liquore, ma quello di 62 gradi, lo lasciamo; è davvero troppo per noi. E' un pensionato, ha fatto l'insegnate di ginnastica e l'allenatore di basket, adesso si dedica solo alle attività di campagna, con gran gusto direi. Quelli che passano di qui, li invita solo per il piacere della chiacchierata, la moglie fuori al banchetto lo guarda con l'aria di chi ormai se lo trova a casa tutti i giorni tra i piedi e ne deve sopportare la presenza. Ma a questo punto la nostra strada volge a sud e ce ne andiamo anche se con la gamba un po' malferma e non si tratta della strada percorsa. Meno male che guida il nostro Saro.

Il pavimento a Sanahin

SURVIVAL KIT

Gli orci ad Haghpat

Monasteri della zona di Dilijan e Debed - Goshavank - A circa 20 km in un villaggio di nome Gosh, fondato attorno al XII sec. dal sapiente Mkhitar Gosh, estensore del primo codice penale, di cui si vede la grande statua. Uno dei migliori esempi di architettura armena. Nel cortile si vede quella che è considerata la più bella Khachkar dell'Armenia. Haghartsin - Altro capolavoro artistico ad una quindicina di minuti da Dilijan, privo di mura esterne con molti pezzi importanti. Infine, più a nord a pochi chilometri da Alaverdi, nelle gole del Debed, i monasteri di Haghpat e Sanahin dalle architetture molto interessanti e se vi rimane tempo a una ventina di chilometri il monastero di Akhtala, unico della zona a conservare una serie molto completa e piuttosto ben conservata di affreschi.

Una khachkar

Sanahin
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7 -  Kazbegi

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