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I due fiumi di Mtsketa - Georgia - maggio 2024 |
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Monastero di Jvari |
Con lo stomaco a posto, ma era più un appagamento della gola che altro, ci possiamo rimettere in marcia, lasciando Mtsketa per risalire, dopo aver attraversato l'Aragvi, sulla collina che ci sta alle spalle per riuscire a raggiungere il piccolo monastero che ne costituisce il culmine. Si tratta del complesso monastico di Jvari sorto quassù nel IV secolo, sulle rovine di una croce sacra eretta, tanto per cambiare da Santa Nino, che in Georgia ha fatto un po' tutto a quanto pare, per quanto riguarda gli albori e la diffusione del cristianesimo. L'interesse della costruzione è soprattutto data dalla splendida posizione dalla quale puoi dominare tutta la valle con la congiunzione dei due fiumi, posto che il vento non ti porti via e dal suo valore architettonico, visto che si tratta di una delle prime costruzioni cosiddette a tetraconch, cioè con quattro absidi uguali nelle quattro direzioni che inscrivono la classica croce greca. Una tipologia piuttosto comune nel disegno bizantino delle chiese di questa area, ma che ad esempio era stata prevista anche dal Bramante, nel primo progetto del 1503, della basilica di San Pietro a Roma. La strada per arrivare è tortuosa ma infine si giunge all'ampio parcheggio. Da qui prendendo il sentiero per salire alla chiesa al riparo di un muracciolo di pietre, devi tenerti con una certa attenzione perché effettivamente, anche se previsto, si è levato un vento che si fa fatica a stare in piedi.
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Un'abside |
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Icone a Jvari |
L'esterno è più semplice e severo di altre analoghe costruzioni, tuttavia non si possono non apprezzare i bei bassorilievi sulle pareti esterne e sopra i portali. L'interno è ancora più semplice e modesto. Qualche fedele è raccolto in preghiera davanti alle icone esposte attorno; si respira il silenzio compunto e solitario dei santuari di montagna. Ma il vero spettacolo è all'esterno. Sulla balconata sotto gli archi di pietra che si affaccia sulla valle, infatti, la vista è magnifica, i bordi delle colline sembrano dipinti di un verde intenso e scendono ripidi verso i nastri d'argento dei due fiumi che con ampie curve convergono verso la città, congiungendosi proprio ai suoi margini. Lontana, ma ancora ben visibile, l'altra chiesa che abbiamo appena lasciato, appare come racchiusa all'interno del suo muro di cinta, come volesse rimarcare la sua capacità di difesa dagli attacchi degli infedeli. Insomma staresti a lungo quassù, ma come ho detto, il problema è riuscire, pur reggendosi ben forte alla balconata di ferro che ti protegge dallo strapiombo sottostante, a non farsi portar via dalle folate rabbiose di un vento che qui pare essere costante fissa. Alla fine devi desistere e tenendosi ben stretto il cappello in testa, torniamo alla macchina, tuttavia contenti delle immagini immagazzinate con gli occhi.
Così possiamo dirigerci con tutta tranquillità verso la stazione di Tbilisi dove arriviamo verso le 18, visto che alla 20 ci attende il treno che ci porterà ad Yerevan. Il nostro Sarkisjan ci lascia proprio davanti, augurandoci ogni bene e buon viaggio verso quella che rimane sempre la sua terra e noi, dopo aver varcato la soglia del gigantesco edificio, sovietico in ogni sua espressione, andiamo fino all'ultimo piano per attrezzarci ad attendere il momento della partenza. La stazione è il classico palazzone che dopo la caduta dell'impero ha avuto tutti gli spazi invasi da ogni tipologia di attività commerciale, dai venditori di generi di consumo alimentare per i partenti, ai prodotti più vari che possano procurare business ad ogni costo, inclusi i cambisti, dato che la moneta di qua la devi mollare in qualche modo, visto che al di là del confine più nessuno la vuole più. Quindi, prima necessità, quella di andare a liberarci dei Lari rimasti, cosa che a tutta prima doveva essere facilissima, ma dopo il terzo tentativo da altrettanti bugigattoli, uno, presidiato da un donnone avvolta in un fazzolettone colorato, che si dichiara chiusa, il secondo che non ha Euro, poi nemmeno Dollari, il terzo che dice che sono troppo pochi per essere cambiati, comincia a presentarsi complicata.
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Esterno |
Con Gianluca decidiamo allora di fare un salto nel mercatone antistante, dove eravamo già stati il primo giorno e dove sembra ci siano banchetti più professionali. Alla fine ne troviamo uno che mette mano ai dollari, ma che, dal numero di volte che conta e riconta i soldi, che tira fuori dal cassetto le banconote, poi le rimette via, infine smanetta su una vecchia calcolatrice cinese, capiamo che con la matematica anche dei numeri e delle operazioni semplici, ha dei problemi. Alla fine riusciamo a farci dare i nostri verdoni e ce ne andiamo in cerca di cibo per aggiustare la cena. Ma ecco il vecchio che ci rincorre perché sembra abbia sbagliato i conti. Si rifà tutta la strada per tornare al suo bugigattolo, lui ritira fuori la calcolatrice e alla fine risulta che i conti erano giusti e che evidentemente quello del cambista non deve essere il suo mestiere. Torniamo alla stazione e ci compriamo un paio di khachapuri per riempire lo stomaco risalendo all'ultimo piano dove però, dopo poco veniamo cacciati via perché il bar chiude capirà, sono quasi le sette e mezza. Con lo stomaco a posto, ma era decisamente più un appagamento della gola che altro, cerchiamo di raggiungere il nostro treno, che dovrebbe essere l'unico che parte a quest'ora, quindi con scarse possibilità di non trovarlo. Ma l'impresa anche qui si rivela più complessa del previsto.
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Una porta |
In un posto, che poi dovrebbe essere il tabellone delle partenze, quello insomma deputato a indicare da dove partono i treni, ma secondo una vecchia abitudine sovietica alla quale ero a suo tempo abituato, non è detto, è segnalato al binario 3, ma, come dicevo, non è sicuro. Gli addetti della stazione, posto che lo siano, sono vaghi al riguardo e danno indicazioni contradditorie. Andiamo dunque al 3 sgobbandoci le valigia per rampe di scale ripidissime, visto che gli ascensori sono guasti e le scale mobili anche, ma qui non si vede nessun treno, che poi dovrebbe essere qui da tempo visto che dovrebbe partire tra un quarto d'ora. Seguendo le indicazioni di altri disperati come noi, che corrono di qua e di là senza una meta precisa e con i quali cerchiamo di scambiare informazioni sempre vaghe e probabilistiche, vediamo che, ben nascosto al binario 5, un treno c'è e visto che non se ne vedono altri, rifacciamo le scale a ritroso su e giù per raggiungerlo velocemente. Qualcuno assicura che si tratta del nostro, ma non è poi così certo. Cerchiamo disperatamente qualcuno con un aspetto da ferroviere, sul treno stesso o nei dintorni del medesimo o quantomeno dalla cosiddetta dejurnaja, la capavagone che nel periodo sovietico, in ogni treno dell'URSS, presidiava come un cerbero inflessibile il proprio vagone distribuendo i passeggeri con ordine inflessibile e militaresco.
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Icona |
Deve certo esserci da qualche parte. Alla fine un tizio compare e anche se non presenta alcun tipo di divisa, sembra svolgere questa funzione e da alcuni suoi grugniti, anche se non troppo convinti, desumiamo essere sul nostro convoglio. Robe da matti una dejurnaja maschio non si è mai vista, ma i tempi cambiano anche qui. Seguendo le indicazioni stampigliate sui biglietti, stavolta non ci sono dubbi, individuiamo vagone e scompartimento, dove finalmente ci stravacchiamo tranquilli e pronti alla partenza verso il confine. In realtà era più semplice di quanto sembrava, anche perché quello era l'unico treno presente in stazione, ma si sa che quando sei timoroso di sbagliare, l'agitazione la fa da padrone. Il treno mi sembra rimasto molto simile a quello dei miei vecchi tempi andati, quando traversavo l'URSS in lungo ed in largo con la mia valigetta dei contratti, piena di dépliant e di campioni. Anche allora l'amico Gianni prenotava sempre lo scompartimento cosiddetto Coupé, tale e quale a questo, nel quale ci si barricava dentro per la notte insaccati nelle tute da viaggio, per rivestirci poi il mattino dopo, rassettati alla meglio prima di arrivare in stazione. Però allora la dejurnaja di turno, quantomeno ti portava a richiesta, dei bei bicchieroni di thè, sostenuti da eleganti porta bicchieri di metallo e sottobicchieri di maiolica, forse come ai tempi degli zar, così almeno mi raccontava Eugenio.
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Fregio esterno a Jvari |
All'inizio, nei bei tempi andati, addirittura ti chiedeva se lo volevi indiskji o kitaiskji (indiano o cinese), poi, capito che si era italiani, cercava di attaccare bottone raccontando di suoi ipotetici fidanzati italiani perduti nella notte dei tempi. Se ne andavano con occhi sognanti, sbattendo le ridondanti terga che sballonzolavano lungo le pareti del corridoio al ritmo del tutùn tutùn delle ruote del treno sulle rotaie. Adesso vedo che c'è solamente un grande bollitore per l'acqua calda in fondo al corridoio, davanti alle latrine e se vuoi il thè te lo devi portare da casa. In compenso vengono distribuite lenzuola e coperte, così ci predisponiamo per la notte, anche se dopo la partenza, prima di abbandonarsi a Morfeo, conviene aspettare di arrivare alla dogana per sbrigare le pratiche necessarie. Infatti verso le 10:30 ci si ferma in piena campagna e ci fanno scendere davanti ad un gabbiotto dove in fila per uno ci appongono il timbro di uscita. Sbrigano un vagone per volta, noi siamo sull'ultimo. Davanti al portello di ogni vagone, un miliziano con un cane controlla chi sale e chi scende, non si sa mai. Riprendiamo il viaggio e dopo una mezz'oretta ecco che salgono gli Armeni, molto più scherzosi e rilassati all'apparenza, che appongono il timbro di entrata appoggiandosi al vetro. Infine scendono e si spengono le luci.
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Scompartimento coupé |
Possiamo tentare di dormire. Io non riesco mai a dormire fuori da un letto vero, così mi lascio cullare dal dondolio del treno che percorre lento la piana infinita di questa Asia, ponte tra due mondi. Le ore passano in un dormiveglia tutto sommato dolce e denso di aspettative; è questo il viaggio, un lasciarsi andare lungo la via che ti porta da qualche parte, che di conduce all'altrove incognito, che non solo non ti spaventa, ma sempre ti incuriosisce. Così trascorrono le ore, quando poi il sopore passa e finisci con lo svegliarti completamente, non puoi fare altro che, seguendo il dondolarsi del convoglio, alzare la tendina esterna visto che ormai sono le sei ed è già chiaro e buttare fuori un occhio. E' così che la prima immagine che ti coglie è talmente inattesa da farti rimanere senza fiato, stupito del tuo essere lì a goderti quel privilegio. Sul fondo della pianura, il gigantesco cono bianco di neve del monte Ararat, dalle pareti che disegnano un asintoto perfetto con la pianura che si perde all'orizzonte, si staglia netto, con la piccola anticima più bassa al suo fianco, per formare una cartolina perfetta e stupefacente per quanto inattesa. Nulla all'intorno, ai suoi fianchi, davanti, vicino. Solo questo gigante solitario che domina l'orizzonte con il suo carico di storie e di leggende. Un luogo iconico che racchiude in sé misteri e bellezza assoluta. Quasi quasi ti passa di mente anche la voglia di fare colazione.
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Ararat |
SURVIVAL KIT
Dalla Georgia all'Armenia - Il mezzo più comodo è il treno notturno che va da Tbilisi a Yerevan in circa 11 ore, con partenza dalla stazione centrale di Tbilisi alle 20:00 (dal binario 5). Si arriva alle 7:00. Non c'è tutti ii giorni per cui informatevi prima di organizzarvi l'itinerario. Il biglietto costa molto poco per il vagone comune. Nello scompartimento Coupé da 4 letti sui 30 €. C'è anche una cosiddetta I classe con scompartimento a due letti sui 45 €. Vengono distribuite lenzuola e coperte sigillate, ma dovrete portarvi i viveri. Verso le 11 si arriva in frontiera e le operazioni, molto semplici, vengono sbrigate in pochi minuti. (Si scende sul lato georgiano, mentre sul lato armeno salgono i doganieri direttamente).
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Fedele |
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Ingresso |
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