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Al bar - Teheran - Iran - maggio 2000
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Sala da thé a Teheran
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Ero a Teheran una ventina di anni fa ed era da poco terminato il Ramadan. Ero partito prevenuto naturalmente e mi aveva invece molto spiazzato la cortesia, il modo di fare, voglio esagerare, un senso di nobiltà di gesto nelle persone con cui sono venuto in contatto, in aziende, uffici, personale di servizio o semplicemente nel bazar, dove non ho avuto quella sensazione sempre un po' sgradevole di assalto allo straniero che può essere la buona o l'unica occasione della giornata, da non lasciar scappare, che ho sentito spesso in altri paesi definiti poveri. Anche lì, luogo normalmente deputato al chiasso ed alla confusione, stranamente, la gente parlava a toni bassi, senza urlare, trattando con garbo. Ecco, avevo avuto la percezione di mancanza di sguaiatezza anche dall'uomo che girava la pastella nel calderone, prima di farne palline da gettare nell'olio bollente. Tante barbacce dall'aspetto severo che si scioglievano in un sorriso quando ti rivolgevi loro; l'icona del terrorista dei fumetti che invece al di là del bancone ti chiedeva con garbo se il cambio dei 100 dollari lo volevi da 10 o da 50. Non so se è una colpa l'irsutismo e se glabro non è automaticamente sinonimo di buon uomo. Forse Teheran è una cosa e le periferie ed il resto dell'immenso paese un'altra; si sa che i poveri sono ancor più brutti, sporchi e cattivi.
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Con gli amici al ristorante
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Anche i Polo nel loro viaggio, passarono di qui e parlarono di "Saracini molto malvagi e disleali". Certo da quelle parti girava un sacco di gente, probabilmente, neanche si aspettavano di trovare una società così cosmopolita e ricca ed inoltre sicuramente si facevano buoni affari, ma di certo non c’era l’abitudine a vedere tante facce nuove ed inusuali, così diverse da reputarle quantomeno pericolose, anche se è cosa comune che il nativo cerchi sempre di gabbare il forestiero, almeno quando si scatena la trattativa commerciale e forse qualche bidone se lo saranno preso anche i nostri cari Polo e la cosa a loro, commercianti furbissimi, sarà andata per traverso. Certamente è connaturato nell’animo umano, ma quando si vedono facce strane e diverse dalla nostra si teme subito il peggio e ci si mette subito sulla difensiva. Anche io allora ero in cerca della mia personale avventura da mercante occasionale. Così, in quella atmosfera allegra ed eccitata, dopo una lunga giornata di incontri d'affari, mi ero fatto lasciare dal mio amico Safavipour nel centro del gigantesco bazar, una vera città nella città. Mi piace molto stare nel vivo di un luogo, passeggiare da solo sentendo suoni, odori e assorbendo colori e immagini per cercare di capire il senso di un posto e delle persone che lo popolano. Come tutti i suk orientali era diviso per zone merceologiche. Ero passato nella odorosa area delle spezie e in quella dei gioiellieri con le piccole botteghe piene di turchesi e lapislazuli; infine arrivai nel bazar dei tappeti. Non ne avevo mai visto uno così grande, un piccolo paese di viuzze, vicoli e piazzette; una sfilata senza pause di negozietti, buchi, botteghe, anfratti completamente pieni di tappeti di ogni dimensione e colore.
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Panettiere
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Amo i tappeti, mi piace toccarli e sentire la forza e l'arte di chi li ha annodati; molto di più di un artigianato pur abile e sensibile. Quando ho potuto ho sempre tentato di comperare qualcosa nei luoghi di produzione e lì ero nel cuore stesso del tappeto. Ne ero completamente circondato. Le pareti dei vicoli erano coperte di grandi Farsh, mentre l'interno delle botteghe erano completamente occupate da cataste di tappeti, in una sorta di orror vacui su cui sonnecchiavano appollaiati i vari venditori. La qualità della merce era piuttosto scarsa e mi aggirai per i vicoli per un po' assaporando l'ambiente finché arrivai in uno slargo tra le vie, una sorta di piazzetta centrale dove le stamberghe lasciavano il posto a negozi più ariosi e promettenti. Una balconata circondava lo spazio con belle vetrine che ospitavano pezzi veramente belli e di pregio. Dopo averne esaminate alcune, entrai con calma in quella che mi sembrava ospitare i pezzi più accattivanti. Il proprietario mi accolse con un largo sorriso senza la piaggeria del venditore. Mi piacque subito e cominciai a guardare la merce in vista. Scorsi un bel Navahand dai vivaci blu e bianchi, dei vecchi Sarough e un magnifico piccolo Lilian con le volute eleganti sul fondo mattone. Nel tentativo di comunicare scoprimmo entrambi con dispiacere di non avere nessuna lingua comune se non quella internazionale dei gesti e dei numeri. Chiesi se avesse un Farahan, da sempre in cima ai miei desideri. Andò nel retro e riemerse portando sulla spalla un tappeto che srotolò con cura sul pavimento, con l'abilità del venditore conscio della unicità del suo prodotto.
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Al bazar
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Un Sejjadé di una bellezza straordinaria; rimasi stordito dall'eleganza del prato fiorito che occupava interamente il centro con occhi vividi in un fondo scuro, dalle cinque bordure dai colori perfettamente amalgamati e coerenti tra di loro. Ne fui conquistato e lo volevo a tutti i costi. Cercai di dissimulare il mio interesse chiedendo i prezzi di qualche altro pezzo, ma compresi che ero scoperto, quindi cominciammo la trattativa. Il mio antagonista apprezzò il mio approccio e mi fece accomodare su un basso e comodo divano e subito un ragazzino arrivò con il thè e un po' di dolciumi e pistacchi. Magnificò il prodotto, un primi '900 con una annodatura molto fine. Lo feci girare al rovescio constatando come non avesse strappi o riparazioni, anche il vello era sì rasato ma perfetto, senza punti particolarmente consunti. La trattativa, con l'aiuto delle dita, della calcolatrice e di carta e penna proseguì calma per un'oretta. Safavipour mi aveva avvertito che i prezzi difficilmente ribassano oltre il venti per cento dalla richiesta iniziale, così miravo a quel traguardo godendomi la situazione. Fahim, così si chiamava il negoziante, apprezzava ugualmente il mio approccio poco occidentale dispiacendosi di non poter comunicare maggiormente. La trattativa era resa complicata anche dal fatto che Fahim pur essendo disposto al pagamento in dollari, trattava il prezzo in Rial che convertivamo in dollari con la calcolatrice e successivamente io lo trasponevo mentalmente in Lire.
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Lane per tappeti
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Dopo diversi bicchieri di thè e le tipiche scene della contrattazione, con dichiarazioni di bancarotta da parte del venditore e simulazione di abbandono da parte mia con conseguente richiamo sulla porta per l'ultimo ribasso, arrivammo alla fase finale dopo aver mangiato un ultimo lukumi al miele, dolce ma non stucchevole. Capii dalle tappe di avvicinamento che avremmo chiuso attorno ai 400 dollari e, come faccio di solito, insistendo un po' sui 390, gli lasciai il piacere di avere l'ultima parola. E' una tecnica che uso sempre e che lascia sempre un ottima atmosfera tra le parti e concede la sensazione di essere uscito vincitore dalla tenzone al tuo avversario. Così, mentre Fahim si apprestava ad impacchettare il mio meraviglio acquisto, tirai fuori dal mio borsellino da collo tre fogli da 100 e due da 50 per consegnarli ad un perplesso Fahim che mi guardava con occhi interrogativi. Dopo un vicendevole tentativo di spiegazione, compresi con orrore il misundertanding; il prezzo era 4000 dollari e non 400! Come potevo pensare che una simile meraviglia costasse così poco. Mi crollò il mondo addosso, compresi in un attimo che il mio piacere si era frantumato nella logica dell'impossibilità. Lo stesso Fahim era dispiaciutissimo, oltre che per l'affare sfumato, nel vedermi così affranto. Conclusi frettolosamente per il Navahand a 200 dollari e, seguito dall'alto della balconata dallo sguardo dispiaciuto ed affettuoso di Fahim, me ne andai verso il taxi che mi avrebbe portato all'hotel. Avevo però quasi finito i soldi e dovetti pensare a recuperare un po'di contante, problema sempre carico di incognite in terre straniere, per di più saracine come direbbero i nostri cari Polo, anche se allora non avevano di certo carte di credito.
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Le pastelle
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Entrai così in un negozietto, dove al mio albergo mi avevano indicato la presenza di uno sportello di cambista, ma nella camera dove ebbi accesso non c’era nessuno. Dopo un attimo, alle mie spalle silenzioso come un gatto entrò un personaggio assolutamente inquietante. Era molto grande, con un ampia veste che mal nascondeva un corpaccione forte e di certo duro come la roccia. Una barbaccia incolta lo definivano sicuramente come un integralista tra i più feroci, come appariva evidente anche dagli occhi accesi e vivi, quasi febbricitanti, incorniciati da cespugli incolti di sopracciglia da disboscare. La parte scoperta delle braccia pelosissime, poi, lo dichiaravano appartenente più alla natura orsina che a quella umana. Rimasi basito e senza parole attesi che facesse esplodere la cintura che di certo il terrorista teneva ben nascosta sotto le vesti, quando la fiera, con un piccolo inchino mi si rivolse con voce bassa e gentilissima, in un perfetto inglese, chiedendomi se desiderassi dei contanti, come gli aveva già segnalato il personale dell’albergo. Presa quindi la mia carta di credito effettuò rapidamente l’operazione e sorridendo si informò se mi stessi trovando bene nel suo paese, se mi piaceva, quasi scusandosi per gli inevitabili intoppi che avrei potuto trovare. Mi strinse quindi la mano e mi accompagnò all’uscita, augurandomi buon viaggio. L’essere prevenuti è comune a tutti, ma la paura è spesso cattiva consigliera. Certamente persone molto piacevoli, Fahim ed il mio irsuto cambista, come del resto tutti gli altri che ho incontrato nel mio breve soggiorno a Teheran, incluso un cliente di nobiltà principesca, che si comportò con noi con una correttezza rara; non riesco a pensare al momento in cui li bombarderanno.
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Donne
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