venerdì 31 dicembre 2010

San Silvestro.

E così siamo arrivati all'ultimo giorno dell'anno, si direbbe quello in cui si fanno i bilanci e i buoni propositi. Io non vorrei fare il pedante, ma in generale, vi esorterei all'attento uso di classiche frasi fatte, del tipo basta la salute e soprattutto, mi raccomando, speriamo che duri. Quanto ai propositi, meno se ne fanno, meno potremo constatare, tra un anno di non aver rispettato. Quindi per parte mia evito di promettermi di iniziare seriamente una dieta rigorosa, anche per non fare più sghignazzare quanti mi stanno accanto. Anche se ci sembra impossibile le cose andranno comunque avanti e, come mi insegnava il mio primo addestratore al Consorzio Agrario, mettete i problemi irresolubili in una cartellina, alla fine del prossimo anno vi accorgerete che la maggior parte si saranno risolti da soli, per quelli rimasti, la cartellina rimarrà lì pronta a tenerli in caldo per altri dodici mesi. Se riuscirete ad essere sufficientemente sereni, non sarete turbati più di tanto dai politici che non voreste più vedere o dal fatto che non si vedono all'orizzonte quelli che pensate di meritare, che forse esistono solo nelle fiabe, ma accontentatevi della fiaba di tutti i giorni, che vi circonda, delle persone che vi vogliono bene e che sono accanto a voi.

A tutti quelli che hanno avuto la bontà di seguirmi anche durante questo anno (e vi assicuro che sono incredulo, quando (tutti i giorni eh!) butto l'occhio, distratto?, su google analytics) auguro di avere un anno migliore, se possibile, se no almeno simile a quello che hanno appena avuto e che i loro desideri non si avverino completamente, ma che ne rimanga qualcuno da realizzare, conservato al caldo per il futuro, che li faccia sentire vivi e curiosi di quello che può ancora succedere, sazi di cose ma insaziabili di vita. Ci sentiremo il prossimo anno (questa non l'avevate mai sentita eh?) anche se sono un po' perplesso sul fatto che sto diventando troppo ripetitivo e vorrei cercare temi nuovi, un colpo d'ala di gioventù tanto per intenderci, ma si sa le cose non basta desiderarle, bisogna anche essere capaci di farle. Vi lascio allora col solito augurio criptato in linea con la mia latinità, tanto per far divertire chi lo vuole (la facile soluzione al prossimo anno).


DUE VOLTE L'ULTIMA CANTANTE AMICA PER UN GATTO FAMOSO.



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Shi.
Anatra laccata.
Una valle occitana.

giovedì 30 dicembre 2010

Pigrizia.


Abbiate pazienza, ma oggi ho proprio solo voglia di poltrire, adesso vado a leggermi il giornale, poi mi faccio un sudoku e mi metto a correggere le bozze del mio libro, che mi è appena arrivato.

Grandi novità per il prossimo anno, ma non voglio anticipare nulla!

Buon fine anno a tutti.




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mercoledì 29 dicembre 2010

Torrone morbido.

Bah, sono alle prese con il classico problema del dopo Natale. Certo, ormai quasi tutti quelli che mi conoscono e mi portano il regalino, vanno sul sicuro. Così subito dopo aver santificato le feste, oltre a qualche libro che ho già impilato in ordine di lettura prevista, rimane il problema di consumare i dolciumi che mani sante ed amorevoli hanno preparato per me. Anche qui devo dare un ordine di precedenza in modo da poter alternare in maniera omogenea e ordinata, ma tant'è è roba che va consumata con una certa celerità, intanto non vorrei mai che mi andasse a male. Si sa che torroni e vasetti di creme gianduie hanno una loro scadenza e quindi non bisogna por tempo in mezzo e darsi da fare portandosi avanti col lavoro. Ieri sera ho attaccato una deliziosa stecca di torrone morbido da sballo, un ettaro di delizia che mescolava le sue meravigliose pastosità alla croccantezza delle nocciole. Pensate che i pezzi si strappavano con le dita, senza bisogno di coltelli. Ah il torrone, che invenzione sconvolgente.

E' una droga a cui mi hanno spinto i miei da piccino. Il mio papà mi comprava sempre a Natale quella che mi appariva come una enorme mattonella di durissimo torrone Sebaste, detto il diavolo di Alba, riconosciuto come il top assoluto della produzione torronifera, rigorosamente alla mandorla, qualitativamente da preferire alle aborrite arachidi dette giapponesi; già allora evidentemente c'era una prevenzione di massima contro il pericolo giallo, il ventennio non era trascorso invano. La mia nonna materna invece mi comprava i torroncini, che ghiotto, mi infilavo in tasca, timoroso che qualcuno me li fregasse e poi me li sbocconcellavo con godimento a poco a poco. Allora non c'erano ancora quelli ricoperti o a gusti strani che son venuti dopo. Va beh vado a farmene un pezzetto, tanto lo so già che anche quest'anno la pila dei dolci finisce sempre molto prima della pila dei libri.


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martedì 28 dicembre 2010

Lóng.



Quello di cui parliamo oggi, nella forma tradizionale e in quella odierna semplificata, è uno degli ideogrammi più noti e amati della lingua cinese. Come si può vedere dalla evoluzione del carattere a partire dai segni più antichi di quasi 4000 anni fa, di cui vi allego la serie completa, l'immagine del drago era sufficientemente chiara. Nei più classici si possono distinguere nitidamente le ali a destra, mentre sinistra in basso si vede il corpo con le scaglie, con sopra un segno fonetico, già incontrato che significa stare diritto. Nella moderna semplificazione è rimasto molto poco di tutto questo, così il drago cinese, elemento dello zodiaco, animale magico, potente ma soprattutto buono, è anche sinonimo di imperiale e glorioso. Piacerebbe sicuramente a qualunque imperatore, anche nostrano che si vedesse, grande, forte e dispensatore di benessere e felicità.

Ma il nostro drago celeste, Lóng - 龙, ha la testa di cammello, le corna del cervo, occhi di coniglio, orecchie di mucca, collo di serpente, ventre di rana, scaglie di carpa, artigli di falco e zampe di tigre, un bonaccione forte con barba e vibrisse che non fa paura a nessuno e che oltretutto è anche sordo, per questo i cinesi chiamano draghi quelli che non sentono bene. E' insomma un concentrato di cose buone e positive. Ecco perchè, quando calava la sera vicino al lago di Hang Zhou, il mio amico Ping mi portava in una delle tante sale da thé, sulla riva nascosta tra i salici a gustare una tazza di Lóng jǐng chá - 龙井茶, il thé del Pozzo del Drago, il più buono e famoso della Cina, ambrato e profumato, da gustare in silenzio, guardando l'altra sponda del lago, come due vecchi contadini che sotto la veranda della capanna, in una sera d'estate, parlano di canapa e sorgo.



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lunedì 27 dicembre 2010

Fichi alla mandorla.

Natale è proprio un coacervo di tradizioni. Sembrano fatte apposta per mettere insieme i ricordi, le cose care. Ti faranno sentire un po' melenso certo, però che calore, che senso di piacere crogiolandosene. Ecco ne ho appena finito una che mi è particolarmente cara. Era l'ultimo rimasto dal pacchettino avvolto nella stagnola, stretta e chiusa nella carta colorata. Ne sento ancora il gusto dolce e pastoso, solo appena amarognolo alla fine. Penso ci voglia molto a prepararli, fatica e attenzione, il gusto di fare le cose bene con affetto. Credo che si prendano i fichi secchi, ma solo quelli migliori, belli grandi, carnosi e non asciutti, li apri e ci metti dentro un mandorla, poi li unisci per quattro a croce e in fine li passi in forno, che rimangano ancor più zuccherisi e delicati, quasi croccanti fuori e pastosi dentro a meglio descrivere il sentimento di chi li ha fatti per te. Tutti gli anni me li porta una mia cara amica, che mi sa goloso e mi vuole bene.

Li ha sempre preparati il suo papà, una persona davvero speciale che in tutte le cose che ha fatto nella vita ha messo sempre la stessa attenzione, la stessa determinazione di farle nel modo giusto, come vanno fatte. E quest'anno che non li ha più potuti preparare, non avevano lo stesso sapore, anche se dolci e morbidi come si addice alla bellezza dei ricordi; la sottile punta amara alla fine, era un poco più forte, forse era troppo venata di tristezza. Dai Maresciallo, lo sappiamo che li stai facendo ancora, da qualche parte; non ce n'è di uguali e qua continueremo a ricordarceli, sfregando appena i polpastrelli che per un po' rimangono appiccicosi, mentre il profumo caldo rimane ancora a lungo nella mente e nel cuore.


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sabato 25 dicembre 2010

Gli agnolotti di Natale.


Natale è un vero catalizzatore di ricordi. Forse non c'è nulla di uguale. Piano piano tutto ti torna alla mente, i Natali passati e lontani e quelli più vicini. Le cose importanti come le piccole cose, allora spesso si tenta in ogni modo di ricreare atmosfere, di ricostruire situazioni e momenti perduti. Sia la mia mamma che mia suocera a Natale facevano gli agnolotti. Cascasse il mondo alla vigilia, in tutte e due le case, partivano i preparativi, la mia mamma apriva la tavolona di legno e il lungo e pesante mattarello, mentre mia suocera, più tecnologica tirava fuori la macchinetta dal cestino dove aveva poltrito tutto l'anno ed entrambe partivano con la sfoglia.

Un lavorone. Mi sembra ancora di sentire gli schiocchi ritmati della sfoglia che ad ogni stirata del mattarello sbatteva contro la tavola, una specie di sc-iak secco dalla cui intensità e frequenza si capiva quando era giunto il momento di allargarla definitivamente. Poi mio papà prendeva con una forchettita i grumi di ripieno e li depositava in lunga fila sul bordo, un bel risvolto e poi via con la rotella dentellata a formare i quadretti alti di gobba e stretti di ala, come voleva il mio papà, che poi debitamente infarinati venivano allineati su un asse e coperti da un panno umido a riposare fino al giorno dopo. Rigorosamente di stufato all'alessandrina quelli dei miei, mentre gli altri di arrosto alla torinese, due facce uguali e diverse a fronteggiarsi ogni anno.

Mai visto un Natale senza agnolotti. Adesso che se ne sono andate da qualche anno, gli agnolotti si compravano, ma non era la stessa cosa. Così quest'anno Tiziana ha preso in mano la situazione e vai: si fanno gli agnolotti. Per la prima volta. Ieri doppio arrosto, manzo e maiale più salciccia, trita e mescola, spinaci e uova, tutto quello che era previsto dalla ricetta materna lascaita debitamente in eredità. Farina e uova come se piovesse e giù con le mani in pasta come si dice, una schifezza tremenda, ma è toccata al forzuto di casa e poi appena il bolo è diventato morbido e denso, giù a montare la Marisa al tavolo (e mi è andata bene che non abbiamo quello grande di legno se no mi toccava il mattarello!) e poi con sapiente movimento di mano produrre le lunghe striscie di pasta sottile e leggera, dove deposti i malloppini di ripieno sono nati i primi agnolotti della mia vita, con la rotella originale ritrovata e maneggiata con perizia.

Nati o rinati, non so, ma mi pareva di fare un omaggio a quelle due mamme che oggi non erano qui con noi, anche se solo fisicamente. E oggi acqua pronta al bollore, sugo d'arrosto e pomodoro in attesa e parmigiano a pioggia. Lo so, non volevamo dircelo, ma sapevano di poco; non so cosa mancasse, qualche spezia, il sale, la noce moscata, è difficile a dirsi, ma forse lo sapevamo benissimo io e Tiziana e anche la nostra bambina, cosa mancava.



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venerdì 24 dicembre 2010

Esondazioni a Vicenza.

Intanto mentre ci si appresta a festeggiare, nell'ottimismo generale, ci si dimentica di segnalare notizie che forse avrebbero bisogno di più attenzione.
Ci deve pensare la rete allora a farle girare.

Tanto per rimanere informati ! Emergenza esondazioni.

Natale.


José aveva occhi vispi ed intelligenti. Con i suoi dieci anni più o meno e le sue guanciotte ammiccanti non faticò molto a convincermi. Il suo banchetto era piccolo e stava in un angolo un po' defilato in quel mercatino di Guadalajara pieno di colori e di ombre forti. Così non stetti neanche lì a contrattare e in un attimo le sue manine veloci mi incartarono quelle quattordici figurine non più alte di quattro o cinque centimetri. Le icone classiche del presepe messicano bianche e blu con solo qualche piccolo tocco dorato. Sta tutto in un piatto, così come deve essere l'essenza, l'idea, la suggestione. Quando lo guardi ti dà sensazione di serenità, di desideri tenui, di sentirsi carezzati dagli affetti.

Ed è proprio questo che voglio augurare a tutte le mie lettrici e ai miei lettori. Una tranquilla serenità appagante. Un lasciarsi andare agli affetti che ci circondano senza acrimonie o distinguo.

Buon Natale a tutti.

mercoledì 22 dicembre 2010

Il Tao della precarietà.

Tutta la filosofia che sta alla base della cultura orientale è sempre stata molto attenta al problema della stabilità, considerando l'equilibrio del corpo e della mente, fondamentale per il benessere psicofisico. Lo stesso concetto di salute è legato in maniera indissolubile al mantenimento di uno stato di armonia, di non conflitto, di sostanziale mancanza di contrasti tra le diverse parti del corpo. Il corretto fluire delle cose per eliminare l'instabilità tra i diversi stati è la fonte di ogni tipo di benessere inclusa l'assenza di malattia, che è poi il loro concetto di salute. Che questo punto di vista sia o no estremo è da discutere, ma non si possono disconoscere i vantaggi della stabilità. Invece pare che nel nostro mondo si sia affermato un concetto addirittura opposto che vuol farci credere che l'instabilità sia un valore non solo da difendere, ma da incentivare, quasi che l'essere sempre sul punto di perdere qualcosa, migliori l'efficienza, il risultato. Quindi via libera, santificandolo, al precariato in ogni sua forma, soprattutto quando questo maschera il più bieco e deteriore sfruttamento della gente. Si parte dal non se ne può fare a meno, e via con è utilissimo per entrare nel mondo del lavoro, al crea occupazione, fino a il fatto è che la gente non ha più voglia di lavorare.


Non c'è modo più bieco e falso di far passare il modo più truffaldino per sottopagare chi lavora tenendogli un cappio al collo e negandogli ogni qualunque elementare diritto, per un amorevole e ponderato sistema ideato da benefattori del popolo che pensano solo al proprio benessere. Davvero vomitevole. Ora nessuno nega il fatto che ci sia la necessità da parte di chi ha bisogno di un lavoratore per tre mesi abbia la possibilità di avere un contratto ad hoc, così come a chi vuol mettersi a disposizione per un lavoro in modo parziale, sia possibile farlo. Questo è un bene, anzi stabilizza una zona grigia non correttamente contemplata. Ma la truffa, con strizzata d'occhio, parte quando questa tipologia di contratto viene estesa in maniera finta, facendo passare per temporaneo quello che non è. Si finge che un ragazzo ti serva per tre mesi o anche solo per uno, poi gli si rinnova il contratto all'ultimo giorno all'infinito, per tenerlo sulla corda e stringergliela a poco a poco attorno al collo, privandolo di avere un futuro normale. La parte che approfitta pensa di essere furbissima, guarda come li abbiamo fregati, adesso siamo noi a cavallo all'asino. E non si rendono conto, che questo avvilire chi lavora per te, ti porta soltanto disamore per il lavoro, per la tua azienda, un rapporto malato in cui non c'è più fedeltà morale tra le parti, in cui si cerca solo di prendere il massimo che si riesce ad arraffare, ad imparare per poi andarsene dal primo altro che ti offre una minima condizione migliore.

Con una totale ed assoluta perdita di efficienza, di cui poi gli stessi indecenti responsabili, si chiedono il perchè stupiti. Eppure sarebbe così facile regolamentare efficacemente una necessità reale e giusta che preveda che chi ha davvero bisogno di dare lavoro a qualcuno per tre mesi o voglia offrire la propria attività in modo parziale lo possa fare in modo corretto, che esca dalle varie zone grige preesistenti. Basterebbe che questo tipo di rapporto fosse meno conveniente dal punto di vista finanziario, così che verrebbe attivato solo da chi ne ha la reale necessità. Fine automatica del falso e dei furbacchioni. Invece la deriva di questo stato di instabilità precaria crescente è sempre stata la stessa nella storia. Viene un momento in cui la corda sempre più tesa, sempre più sottile e fragile, si spezza e allora sono lacrime e sangue. Il corpo della società disequilibrata si ammala irrimediabilmente ed è malattia, rivoluzione e guerra, in un cupio dissolvi catartico, fino a che si crea un nuovo equilibrio, non necessariamente migliore, certamente diverso.

lunedì 20 dicembre 2010

Uno stage in stile Chen.

Voglio segnalarvi un appuntamento imperdibile per gli amanti ed i seguaci del Tai Ji stile Chen e dell'Yi Quan. Anche se siete soltanto curiosi, penso valga la pena di partecipare, il 30 gennaio, smaltite le feste e le abbondanti libagioni, allo stage che il maestro Luigi Pellissero ha organizzato ad Alba, come da locandina allegata. Al di là della bravura di Luigi, la forza intereriore e la sensazione di energia in attesa di scatenarsi che dà il Chen non potrà che conquistarvi. Se volete maggiori informazioni date un’occhiata al suo sito :http://www.scuoladelprincipiounico.it/








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The writer's block.

Eccomi qui di fronte alla sindrome della pagina bianca. Lo so, questa cosa coglie tutti i grandi scrittori prima o poi, soprattutto i grandissimi come bene illustra Popinga qui, ma per me è sempre stato un po' un incubo, una specie di tarlo ideal-letterario che ho cercato nel tempo di esorcizzare con la logorrea. La verità è che fin da piccolo sono nate le mie difficoltà di scrittore, benché bimbo, non fossi nemico del calamo e della tavoletta, anzi riempivo i miei quaderni dalla copertina nera con pagine e pagine di rigorosi puntini prima, poi sostituiti da aste di buona stesura, orgoglio della mia amorosa se pur severa maestra. Il problema si è posto quando ho cominciato a dover collegare i Pensierini in qualcosa di più corposo che allora veniva chiamato Tema o Argomento. Veniva dato un enunciato, di solito breve e conciso, non come adesso che viene fornito in una decina di fogli fotocopiati, del tipo Come ho passato la domenica. Io vergavo con attenzione esagerata la dicitura Svolgimento, tanto per perdere tempo, poi rimenevo lì con la punta della penna in bocca a guardare in alto, assolutamente privo di idee.

Riempire le quattro mezze facciate de foglio protocollo (che si piegava appunto longitudinalmente, per lasciare lo spazio alla prof per le correzioni) era un vero e proprio incubo. La professoressa Grosso della prima media era preoccupata per questa stitichezza di pensiero e prescrisse alla mia mamma l'acquisto di un libro di temi gia svolti che si chiamava appunto 8 in italiano, con l'imposizione di farne uno, un giorno sì e uno no, fino alla fine dell'anno. Una vera tortura. In un modo o nell'altro arrivai alla fine delle medie, con il voto di italiano che comunque mi rovinava la media, in tutti i sensi. L'inizio del ginnasio fu tragico, nel primo tema ebbi un sonoro 4 dovuto anche ad un tragico e assolutamente ininfluente, al fine della valutazione delle mie capacità letterarie, errore di ortografia, con esposizione al ludibrio di fronte a tutta la neoclasse. Poi la difficoltosa risalita che mi fece percorrere con terribile fatica tutti i cinque anni delle superiori con una sequenza infinita di 5/6, il classico voto senza carne né pesce, in cui l'insegnate ti segnala che non ha ancora deciso se dichiararti ufficialmente deficiente o perdonato fino alla prossima.

Ho arrancato così per tutto il ciclo, col fiatone come un ciclista sul Mortirolo, rimanendo anche rimandato in prima liceo, e solo in italiano, mio unico sfregio su una fedina penale altrimenti pulita (se escludiamo un 7 in condotta, ma di questo si parlerà in altra sede), per arrivare alla temibile maturità, Waterloo di intere generazioni, spauracchio devastante in cui, affrontare la temibile commissione che arrivava da chissà dove, equivaleva ad una guerra senza speranza. Superai lo scritto senza infamia e senza lodo, ma detti il meglio di me nell'orale (come sempre sono stato favorito dalla chiacchiera) e ottenendo un del tutto inatteso 7 finale, cosa che non solo stupì, ma diciamo pure irritò moltissimo la professoressa di italiano che non mi aveva in grande stima, essendoci stati invece molti 6 a coloro che giustamente lei riteneva meritevoli di migliore valutazione. Sono le prime ingiustizie della vita, che ci vogliamo fare. Da allora, per circa 45 anni, non ho dovuto più mettermi davanti alla pagina bianca e spremermi disperato cercando appigli nel vuoto della mente. Poi è partito 'sto trip del blog e non so come, mi sono lasciato scivolare nella dolce onda di questo mare calmo e profumato, la scrittura fluisce morbida come i liquori densi e fruttati delle isole dei Lotofagi e debbo impormi sempre di restringere il brodo, che se no i miei cari lettori si stufano e se ne vanno annoiati. Va beh, anche oggi l'abbiamo portata a casa. A domani.


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domenica 19 dicembre 2010

Recensione : Film - The cup - Khyentse Norbu

L'altra sera ho avuto l'opportunità di vedere questo film di cui avevo sentito parlare. E' un lavoro di Khyentse Norbu e pare che sia addirittura il primo film buthanese mai prodotto. La vicenda è nota. Nel 1998 in un monastero tibetano di rifugiati in India, la vita scorre tranquilla, quando un evento inaspettato mette sottosopra il convento. Tra i monaci ed aspiranti tali, ragazzini in pratica, scoppia la passione per la coppa del mondo di calcio, che sconvolge un po' la vita della comunità. Una passione irresistibile, non molto buddhista in verità, e che si sublima quando con traversie varie si riescono a raccogliere i soldi per affittare televisore e parabola da uno strozzino indiano e, ottenuto il sospirato permesso dall'abate, si riesce a vedere la sospirata finale tra un'interruzione di corrente e l'altra. E' tutto un seguito di gustosi episodi che, anche se vogliono presentare questo mondo in maniera forse un po' troppo edulcorata e ingenua, sono in realtà molto delicati e poetici.

Una ventata di buoni sentimenti, ma non troppo esibiti. Ci ho ritrovato molte situazioni che ho visto nel monasteri vicino a Lasha, con i giovani monaci che cercano di scantonare alla preghiera, che si addormentano sotto l'occhio degli anziani, che ogni tanto fanno i burberi, o fanno scherzi al monaco più giovane appisolato, cucendogli la tonaca al tappeto. Gli interpreti sono tutti di grande simpatia e le parti come quella in cui l'abate si fa spiegare il meccanismo del gioco e vuol capire di queste due nazioni che si fanno una guerra e chi vince avrà in premio una coppa, sono irresistibili. Il fatto è che pare che il tutto sia ispirato ad un fatto realmente accaduto. Se vi capita sottomano direi che è un'ora e mezza bene investita.





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venerdì 17 dicembre 2010

Riviera romagnola.


Ma sì, anche l'altra sera è stata una bella serata. Ci si vede un paio di volte all'anno coi compagni di scuola del Liceo; sono passati più di quaranta anni, però alla fine è sempre un piacere. Prima un aperitivo, poi tutti a casa di Gianna e la chiacchiera fluisce tranquilla. Intanto riusciamo a metterne insieme sempre una quindicina, che non è neanche poco. Certo che alla fine, si finisce sempre per tornare agli episodi di quegli anni e anche se spesso son sempre gli stessi, sembra che siano nuovi. A volte però salta fuori qualche racconto dimenticato e la serata prende una piega ridanciana. Stavolta ne è uscita fuori una nuova, almeno per molti di noi. Erano gli anni in cui si cominciava ad uscire dal guscio e anche andare al mare sembrava un'avventura. Eccoci quindi su una vecchia Fiat 1100 coi nostri due serissimi professionisti di oggi, che allora giovani virgulti con gli ormoni a palla, percorrevano la riviera romagnola con la bava alla bocca.

Beh, come sapete, allora le ragazze erano piuttosto restie a fare concessioni che andassero al di là del bacetto, quando alle feste in casa si spegnevano le luci, prima che arrivasse la madre a riaccenderle. Dunque certe occasioni non potevano essere perse e la macchina, concessa da papà, filava nella notte mentre i nostri due tombeurs de femmes in erba, avevano caricato due biondine danesi di Copenhagen che promettevano disinibizione e un fine serata bollente. Non si sa bene dove si andasse, ma allora il viaggio in macchina faceva parte della botta di vita. Dunque, mancando un sia pur minimo cenno di lingua comune, allora nessuno sapeva neppure quelle quattro parole di inglese, che poi ci avrebbero fatto credere di essere padroni del mondo, la conversazione latitava e si andava avanti a gesti e ad occhiate roventi. Fatto sta che il pilota, in parte distratto dall'avvenenza della sua passeggera che si era abbandonata languidamente sul sedile a fianco, in parte mentalmente occupato a programmare il prosieguo della serata, mentre sul sedile posteriore l'amico cominciava a porre le basi per un incontro più ravvicinato, manteneva una velocità piuttosto baldanzosa, scalando marce a colpi di doppiette e punta tacco (adesso nessuno se le ricorda più, ma non era poi così facile la guida sportiva), quando prese male una curva e per salvarsi dal fosso, tirò una di quelle frenate che sarebbero rimaste famose nei racconti di spiaggia intorno al fuoco, chitarra alla mano.

La fanciulla al suo fianco, presa di sorpresa, non riusci a tenersi e andò a sbattere di striscio con la testa contro il cruscotto. Risultato, una bella ferita sanguinolenta anche se superficiale. Ma nervi saldi e prontezza di riflessi, che la serata si metteva male. Così il nostro pilota che aveva tutto l'interesse a minimizzare, se ne uscì con una frase consolatoria nell'unico linguaggio differente dall'italiano con cui aveva una minima dimestichezza, e che rimase poi famosa nel tempo. Allargando le braccia esalò: "Rien, c'est la frené" e la fanciulla se ne fece una ragione. Non si sa come sia finita quella serata, per noi invece prosecco e panettone, tanto per fare Natale.



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La vergogna dell'onestà.
Allegria!

giovedì 16 dicembre 2010

Cronache di Surakhis 36: La congiura.

L'immenso palazzo clinica dell'imperatore s'intravedeva appena tra i miasmi purulenti che le brezze del mattino spingevano come nebbie sottili dalle Colline Profumate. Anche fuori dei portali si intravedeva un via vai operoso delle sacerdotesse che entravano ed uscivano dall'edificio per adempiere al loro alto compito. Occuparsi del benessere dell'imperatore che giaceva da decenni su di uno speciale letto-macchina che manteneva attive tutte le due funzioni vitali e non solo. Le più abili ed avvenenti, quasi tutte multisex vegane, sostituivano periodicamente gli aghi che stimolavano le differenti zone del piacere del cervello e si occupavano attivamente delle conseguenti reazioni che avevano le diverse parti del vecchio corpo a quegli stimoli. Apposite inoculazioni di farmaci provvedevano al funzionamento in un certo senso efficace dei vari organi.

Intanto, mescolate alle persone che si muovevano nella piazza antistante, il gruppo di Ninja che i Congiurati avevano convocato da una luna secondaria di Antares IV, si confuse facilmente con la folla di faccendieri che si muovevano in cerca di incarichi governativi di fronte agli uffici del Ministero della Corruzione, che per comodità era posto nello stesso palazzo del Governo. Erano cinque bellissime Megamammals Vegane che potevano essere scambiate con le molte sacerdotesse che entravano a palazzo per le incombenze mattutine. La loro capa, Mnogazalatoi, si coprì con il mantello le sei coppie di seni prorompenti, per non dare troppo nell'occhio e guidò il gruppetto con le maschere calate sul viso, con la scusa di cercare protezione dalla insopportabile puzza che proveniva dalle montagne di immondizia delle Colline Profumate, che improvvidamente erano sorte sopravvento al palazzo, per una triste questione di tangenti a cui non si era potuto dire di no, pena l'affossamento di altri provvedimenti riguardanti la riduzione in schiavitù degli operai che perdevano il lavoro.

Le cinque sicarie scivolarono lungo i corridoi tra la generale indifferenza, arrivando in pochi minuti all'esterno della sala dove giaceva l'Imperatore. Penetrarono all'interno senza rumore, come il lungo addestramento le rendeva capaci di fare con destrezza e subito il fruscio sordo delle spade laser fece sentire il suo soffio di morte abbattendo silenziosamente le due Succhiatrici che si stavano occupando del corpo dell'Imperatore, che giaceva immobile e nudo tra i molti tubi e fili che uscivano dal suo corpo collegati gruppi di macchine pulsanti. La Terminatrix andò subito dietro il grande letto, dove sui cuscini di morbido latice umano, i boccoli dorati dell'Imperatore cadevano come una cascata bionda al di là del cuscino. Mentre le altre stavano a guardia delle porte bloccate, lo sfrigolare continuo e minaccioso del laser si alzò diretto alla massa di fili e spine che giacevano sotto il giacilio imperiale per tranciarli di netto e contemporaneamente. Il mantello scuro si era aperto come di'improvviso e i dodici seni prorompenti, che la gravità inusuale del pianeta aveva fatto uscire allo scoperto, incombevano sugli occhi chiusi dell'Imperatore quasi a soffocarlo. Ci fu un istante di pausa che parve infinito, mentre la spada immobile era brandita in alto, poi tutto accadde in un attimo quasi immateriale. Gli occhi della donna si sbarrarono d'improvviso e nella stanza parve quasi di sentire il flusso di informazioni che dalle macchine fluivano direttamente al suo cervello.

Il finanziamento perpetuo al suo Coordinamento esterno per l'Universo, una fondazione che vendeva titoli di vario genere, sarebbe stata approvata. Tutto avvenne in un lampo il laser rosato scese senza soluzione di continuità eliminando le quattro Ninja di guardia, mentre il famoso sorriso stampato sulla faccia dell'Imperatore immobile, sembrò allargarsi ancora di più. La donna scivolò via senza fare il minimo rumore. La fine dell'Impero poteva attendere. Avvertito, nella sua villa lontana Paularius lanciò un ologramma informativo a tutti gli organi mediatici. L'imperatore ed il governo sono salvi. Poi uscì in fretta per andare al postribolo dove avevano cambiato la quindicina, mentre la prima tempesta invernale spazzava le pianure di Surakhis.



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mercoledì 15 dicembre 2010

Carnevale della Matematica n.32

Vi ricordo il consueto appuntamento di metà mese con il carnevale della matematica. Questa interessantissima 32esima puntata è stata ospitata da La nostra matematica, il bellissimo blog tematico di Annarita Ruberto, che vi esorto a visitare anche oltre il post dedicato. L'argomento trattato questa volta riguarda un aspetto molto intrigante di questo mondo, la matofobia, che rappresenta per molti una scusa più inventata che reale per tenersi lontano da un mondo che può essere anche divertente e piacevolissimo. Annarita ne ricerca cause e motivazioni psicologiche con interessante approfondimento. La serie dei contributi è davvero grande e vi potrà deliziare per un po'. Addirittura ci sono entrato di striscio anch'io con Matofobia o matofilia, che sembra un titolo inquietante ma alla fine è di contenuto leggero.



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martedì 14 dicembre 2010

Il Milione 33: I ponti di Su Zhou.


Il reame di Mangi comprende la Cina a sud del fiume Giallo. Qui Marco Polo si ferma per almeno tre anni come plenipotenziaro dell'imperatore e rimane conquistato da questa terra, dalle sue ricchezze e dalla mentalità dei suoi abitanti, per nulla dediti alla guerra e, come lui li definisce, i fatti d'oste, ma piuttosto ai commerci ed alla cultura. Ed è la bellezza di queste città che lo affascinano, unita al movimento vorticoso degli affari e delle opportunità che si presentano. Come non ravvisare le stesse sensazione di chi oggi percorre la Cina, avvertendo questa febbre di crescita, questa volontà decisa di migliorarsi, certo disordinatamente e magari compiendo errori ed ingenuità, ma il tutto spinto da una energia vitale senza fine, un chi che percorre il paese come la forza interiore che percorre i meridiani di un corpo vigoroso. Una delle città che più colpisce Marco è proprio Su Zhou, non lontana da Shang Hai, con i suoi ponti di pietra che gli ricordano la lontana Venezia.

Cap. 147

Suigni è una molto nobile città. Elli ànno molta seta e vivono di mercatantia e di arti; molti drappi fanno e sono ricchi mercanti. La città gira 60 miglia e v'à tanta gente che neuno potrebbe sapere lo novero, che potrebbero conquistare lo mondo; ma elli non son uomini d'arme, ma savi mercatanti d'ogne cosa e sì ànno boni medici naturali e savi fisolafi. E sappiate che in questa città à bene 6000 ponti di pietre, che vi passarebbe sotto una galea. E ancor vi dico che nelle montagne nasce lo rabarbaro e lo zezebe (zenzero) in grande abbondanza e molto buono che per uno viniziano se n'avrebbe ben 40 libbre.

Naturalmente il prezzo è quello che conta, se no che mercanti saremmo, ma passeggiare oggi per Su Zhou nei quartieri antichi di questa città, sui ponticelli di marmo rimasti, a guardare le barche che passano lungo i canali, girare nei mercati avvolti dall'odore delle spezie, questo oro del sud, che permea l'aria e cibi di questo paese, può farti innamorare. Nei piccoli ristoranti, dai banchi di strada, dove i grandi wok neri sfrigolano, sui tavoli traballanti dove arrivano le scodelle e i piatti colmi della ricchezza dei cibi, forti e profumati del sud, ti siedi, dopo aver attraversato i giardini ricchi di verde e di fiori, ad ascoltare il fluire pulsante della vita, a guardare i colori delle verdure e dei frutti, ad annusare il pungente sentore della spezia. Io ero lì nel periodo della zucca gialla, che si chiama appunto Nan Gua (la cucurbita del sud) e te la trovavi nel piatto facilmente, mescolata alle altre verdure con la sua dolcezza, magari negli involtini fritti con le consuete sottilissime sfogliatine di farina di riso, in cui la zucca mescola la sua dolcezza ad altre vedure come il porro e viene calibrata dalla tonalità delle cosiddette 5 spezie, un classico della cucina cinese che dovrebbe comprendere proprio i cinque sapori fondamentali (dolce, amaro, acido, salato e piccante). Le spezie poi in realtà sono sei o sette e comprendono il pepe del Si Chuan, lo zenzero, la cannella, il garofano, l'anice e il finocchio con molte varianti personalizzate. Così quando, calmato l'appetito vi incamminerete per i ponticelli, osservando il mondo esotico che vi circonda, potrete sentirvi davvero come Marco, appassionati di questa terra incredibile.




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lunedì 13 dicembre 2010

Morte al colesterolo.


Dopo un titolo come questo, non potete aspettarvi altro che un post medico- scientifico, perchè la salute è tutto e in questo sono d'accordo, ma soprattutto quella morale e spirituale. Quindi bando alla chiacchiera e, come promesso la scorsa settimana, torniamo baldanzosi e preparati alla buvette di Palazzo Monferrato per una serata, patrocinata come sempre dall'APA (associazione provinciale allevatori) di studio e di degustazione dei formaggi alessandrini di fattoria (ringraziando ovviamente i produttori degli stessi, inclusi gli aderenti al Consorzio Ale Capra, un nome un programma). Perché bisogna soprattutto conoscere per parlare e io amo questo genere di documentazione. Intanto la serata è stata guidata da due illustri maestri degustatori dell'ONAF di Milano che hanno avuto il duro incarico di condurre una canea vociante ed assatanata nei meandri dei profumi e delle sfumature organolettiche dei latticini artigianali della nostra zona.


Un notevole ventaglio costituito da ben nove formaggi è stato l'oggetto della discussione e del difficile lavoro, in cui, come sa chi è aduso a questo genere di prove, tutti e cinque i sensi sono impegnati a dovere, anche se il tema della serata non era di natura tecnica e di giudizio di livelli di qualità, ma rappresentava una cosiddetta prova di assaggio edonistico e con questo ho detto già quasi tutto. Cinque sensi? Certo, a partire dalla vista che ne valuterà le sfumature di colore, dal bianco abbacinante della ricotta, alle diverse variabili di giallo delle differenti stagionature o ai toni intriganti delle marezzature degli erborinati e quindi dal tatto di cui dovrete interpretare le sensazioni di delicata morbidezza e untuosità palpeggiando con cura le fettine disposte a ruota nel piatto dal più dolce al più stagionato in bell'ordine. Valutarne poi l'aroma dopo averne spezzato un angolo per liberarne meglio gli eteri e gli acidi grassi volatili, sentendone il lieve rumore (ecco che entra in gioco anche l'udito), il crock della pasta dura e solida o lo stacco più sensibile dei formaggi più morbidi. Infine dopo avere addentato la fetta, ecco l'esplosione dei sapori che mescolati agli aromi pervaderanno la bocca in una inebriante sinfonia.


Davanti a noi sono passati come in un film, una bianca ricotta, un primosale poroso, una intrigante Quadrella sapida e profumata (forse quello che più mi ha innamorato), il curioso Tal dul bec, una toma delle risaie dal retrogusto di noce e frutta secca, il Maccagno sodo, la sempre apprezzata Robiola di Roccaverano dal acidità benedetta, una toma di capra già correttamente erborinata ed infine un caprino stagionato dal sentore ircino deciso che ti lascia il palato pervaso da un grato pizzicore. Per meglio apprezzare la sinfonia dei sapori, l'assaggio è stato accompagnato da un miele di acacia dalla dolcezza angelica e dal pallidissimo e affascinante colore, seguito dai toni amarognoli di uno scuro e più severo miele di castagno e infine dalla Cugnà, regina degli abbinamenti lattocaseari della nostra disperata provincia. Un Cortese del Monferrato fresco e profumato della Nuova cappelletta e una Barbera d'Asti più corposa della Antica Cascina San Rocco per gli assaggi più stagionati hanno contribuito al tripudio della serata. Altro dirvi non so o non voglio, ma credetemi, la conoscenza è la base della tolleranza e della capacità di comunicazione. Mercoledì esami del sangue.
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domenica 12 dicembre 2010

Assange e l'inarrestabilità della rete.

E' davvero un po' patetico vedere come il potere, quello vero intendo, si senta in affanno terrorizzato quando sente il pericolo corrergli attorno. E il pericolo viene tumultuoso come un'onda inarrestabile da ciò che, nonostante,la forza assoluta di coercizione non riesci comunque a controllare. Oggi questa forza dirompente viene in assoluto dalla rete e dalla sua pervasiva capacità di sfuggire ad ogni controllo; come l'acqua che si insinua nelle fessure, cerchi di bloccala e te la ritrovi non si sa come tre piani più sotto. Questa è stata la vera rivoluzione dell'ultima parte del secolo scorso. Con la sua capacità di spostarsi in maniera immateriale istantaneamente in qualunque parte del mondo e sbucare inaspettata anche dove si pensa sia impossibile penetrare, ha colto di sorpresa anche chi l'ha creata e forse non pensava di aver generato una creatura di per sé stessa incontrollabile, un'Idra dalle cento teste che giocoforza gli è sfuggita di mano.

I regimi dittatoriali più rigidi hanno subito capito il pericolo e hanno cercato di bloccare il contagio, con la forza di tutte le dittature, come in Iran o a Cuba, oppure, per chi ce l'ha, con il potere della leva economica, come la Cina. I risultati sono stati tragicamente deludenti. Basti pensare ai blogger cubani dissidenti come Generacion Y, che ancor di più, per questo sono sotto i riflettori del mondo o come il fiume di informazioni che arrivavano da Teheran tramite Twitter nella macelleria postelettorale. In Cina con operazioni complesse e accerchianti si mettono filtri fantasiosi, si coerciscono i grandi motori di ricerca ad aderire obtorto collo, pena l'esclusione dalla torta, alle direttive del regime, si bannano i blog che sfiorano l'argomento Cina anche di striscio ed è tutto inutile, chi vuole legge facilmente quel che gli pare, i blocchi si scavalcanocon banalità che tutti conoscono e ci si può connettere col mondo e con chi ti pare con una semplicità impressionante.

Un amico italiano che vive laggiù, non ha nessuna difficoltà a farlo come tutti. Il potere si affanna disperatamente e con stizza ad impedire e l'acqua gli scivola tra le dita irridendolo, nessuno riesce a trattenerla, con la forza di una valanga travolge ogni divieto e ogni limite. Il povero Mao si rivoltrebbe nella tomba se sapesse, non gli rimarrebbe che vietare l'uso dei computer e riportare il paese nel medioevo. Ma questa forza terrorizza anche i regimi cosiddetti democratici. Continuamente e con le scuse più fantasiose, tipo la sicurezza per i minori (questa poi è da scoppiare dal ridere), si cercano di insinuare leggi bavaglio che mettano paletti e che possano porre limiti alla libertà di espressione, mascherandola magari con la scusa della difesa delle proprietà intellettuali, senza capire che lo scambio di file è inarrestabile e che la distribuzione delle opere, dalla musica, ai film, ai libri, è irrimediabilmente cambiata e chi si ostina a difendere un fortino assediato, senza sfruttare le nuove possibilità, perderà tutto invece di partecipare alle nuove occasioni di business. Così nell'ultimo caso eclatante, il gigante della democrazia, i paladini della libertà di parola e di espressione hanno avuto una reazione talmente scomposta e incredibile davanti alle punture di Assange da fare riflettere. Un comportamento degno di Nazarbayev o dei suoi sostenitori o dei personaggi che lo invidiano e vorrebbero trovarsi al suo posto, con le sue possibilità. Una reazione con una irosità feroce e impotente quanto quella di un Lukascenko di fronte ad un risultato elettorale inferiore al 99% dei consensi, come sarebbe nei sogni di altri, più immaginifici aspiranti dittatori.

Lo vogliono morto a tutti i costi, tentano di fargli terra bruciata attorno con la spocchia di chi getta la maschera e ti dice che lui è tanto buono, ma se gli fate girare gli zebedei , ti cancella dalla faccia della terra, ti irrora di Napalm quando gli pare. Basta guardare la faccia sdegnosa della Clinton per capire. Eppure le terribili novità che sono uscite, sono di una banalità incredibile, cose che tutti pensano e sanno e di cui nessuno si sarà certo stupito. Ma è bastata la sensazione di impotenza di fronte all'impossibilità di bloccare qualcosa che si voleva comunque fermare a prescindere dai contenuti. E' questo il problema, che puoi essere forte e potente quanto ti pare, ma questa cosa non riesci a controllarla. Da qualche parte risalta fuori e rimbalza in ogni parte del mondo, in ogni punto sperduto del pianeta e più ti agiti e più ti fa male, come nel bunga bunga. E questo sì che non puoi sopportarlo. Probabilmente oggi Assange sta dimostrando che è davvero Vietato vietare.


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venerdì 10 dicembre 2010

Una carriera spezzata.

Non è mai troppo tardi per dare una sterzata di 180 gradi alla propria vita. Spesso si dice che ci vuole coraggio, per altri è questione di curiosità. Però buttarsi in una cosa nuova è stimolo, è passione, è vivacità di pensiero. Poi per un tuttologo, ça va sens dire, se una cosa non l'hai mai fatta, questo è già di per sé un incentivo irresistibile. E poi diciamola tutta, dentro di me questa passione ci deve essere sempre stata, sebbene abbia dovuto rinunciare alla carriera di ballerino troppo precocemente e poi anche a quella di suonatore (mi ero accorto che quello che suonava la chitarra era l'unico che alla fine non limonava, quando si spegnevano le luci), il mondo dello spettacolo ha sempre esercitato su di me un fascino inconfessato.

Certo, lo so bene, per certe cose devi esserci portato, il fisico ha un suo ruolo fondamentale, ma anche la passione fa la sua parte e dalla mia c'è una naturale ed istrionica capacità di porsi che ha dominato anche la mia vita di lavoro, la mia ben nota maschera tragica, la pur sempre importante ed indispensabile conoscenza dei classici. Inoltre la vicinanza e gli insegnamenti che mi ha inconsciamente trasmesso l'amico Nunzio nelle nostre frequentazioni ad Honk Kong, da cui si intuiva il suo futuro già tracciato di attore e regista, e stiamo parlando di uno che ha calcato le scene di Broadway, non so se mi spiego (anzi date un'occhiata al suo sito), possono ben avere giocato un ruolo importante, rimanendo a lungo sottotraccia nel subconscio, ma permeando poi insindacabilmente l'attitudine al proscenio. Possiamo dunque affermare, senza timore di essere tacciato di immodestia, che il metodo Stanislawsky ha per me, ben pochi misteri.

Dunque questa mattina il dado è stato tratto e mi sono presentato al casting per la fiction risorgimentale Violetta, un lavoraccio di dozzina che si sta per girare nella Cittadella di Alessandria, una ennesima opera di bassa macelleria che infesterà il piccolo schermo di qualche TV commerciale. Dovevano mettere insieme un gruppo di un'ottantina di comparse per fare la folla di una manifestazione e forse anche i carcerati rinchiusi nelle segrete. In primis necessitavano, come da volantino, uomini dai venti ai sessanta con barba e baffi. Io, invero, avevo già un po' barato sull'età, ma quando l'ardore dell'arte spinge, ci vuol altro.

Ho riempito il mio bravo modulo con i dati e le misure; alla voce taglia ho messo uno speranzoso 58 e ho consegnato il tutto ad una cortese signorina con macchina fotografica che dopo avermi squadrato mi dice, tra il serio ed il faceto, che non hanno costumi oltre la taglia 50. Avete capito ? Scartato perchè troppo grasso! Se questa non è discriminazione son so più cosa dire. Così si infrange miseramente la mia entrée nel rutilante mondo dello spettacolo. Mi toccherà cominciare seriamente questa dieta, se no, mi sa che non mi prendono neanche a fare la velina.


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giovedì 9 dicembre 2010

Peccati di gola.

Forse è vero. Ero un ghiottone già da bambino. Eppure è strano, perché il mio entourage familiare non aveva questa tendenza di base. La mia mamma era una pessima cuoca, soprattutto di grande monotonia e la prima volta che gli amici mi hanno portato a mangiar fuori avrò avuto almeno 18 anni. Deve essere qualcosa di genetico, che rimane lì latente, nei meandri segreti delle tue cellule in attesa di uscire allo scoperto, un marchio di Satana che affiora sulla pelle come un tatuaggio magico e ti indica per sempre appartenente ad una congrega indicata, chissà perché, in modo negativo. Come tutti i maniaci compulsivi, tutti si tende, dapprima a negare, poi, presi con le mani nel sacco, per dire, o con l'organo interessato in piena azione, anche se sarebbe saggio continuare nella negazione, si fanno mezze ammissioni, ma si tenta di giustificare, di scusare, di addurre motivazioni a discolpa. Non so bene.

Sta di fatto che ero in effetti un bambino grassoccio che solo l'occhio torbido e la scapigliatura del ventenne trasformarono lentamente in individuo di qualche interesse (ahahahahaah, questa è proprio da ridere). Però, per scavare nel passato alla ricerca di una spiegazione, come farebbe un bravo psicoterapeuta per guarirti dei tuoi mali oscuri, quando sarebbe più producente mostrarti, senza parole i tuoi indici di glicemia, se risalgo a quei primi anni di vita, mi rivedo passeggiare accompagnato per mano dalla mamma, per le vie di una Alessandria più vivace e non come oggi precipitata attorno al 55esimo posto per qualità di vita (ultima delle città del centro nord, buon risultato eh?). Le vie del centro erano piuttosto popolate, non tappezzate di negozi chiusi come ora e il passeggio affollato nel pomeriggio. Uno dei riti obbligatori era, dopo la passeggiata, ben vestiti e coperti, ché allora faceva un freddo cane, mica come adesso che il pianeta si è riscaldato, passare in fondo a Via della Vittoria e comprare un cartoccetto di farinata (l'oro del basso alessandrino).

Indimenticabile la sensazione di uscire dal negozietto dello Sporcaccione (così è stato conosciuto per anni ed ora che se ne è andato a far pizze al tegamino e bellecalda in un altro mondo, i vecchi alessandrini ancora lo rimpiangono) tenendo in una mano il pacchetto semiaperto di carta bianca unta e con l'altra estrarne la fettona bollente sempre troppo grande per la mia boccuccia di bimbo, mentre camminavi frettoloso lungo i marciapiedi. La mano scottava, forse per ricordarti l'inferno, castigo del peccato che stavi consumando, eppure ingordamente addentavi quella delizia mordicchiando avido la fetta e palleggiando in bocca il bolo troppo caldo per le tenere mucose. Che piacere goloso! Allora, innocente, non ne conoscevo altro. Un giorno andavamo veloci verso Piazza della Libertà; io, come i lupacchiotti davanti alla preda fornita da mamma lupa, inghiottivo avidamente la fetta, la cui untuosità mi stimolava delicata, le papille, con gli occhi semichiusi dal piacere o forse dal vento gelido che spazzava le vie grige di quell'inverno nevoso. D'un tratto, come sorta dall'inferno mi si parò dinnanzi una figura che, a me piccino, parve subito enorme e nera, minacciosa come solo sanno essere gli angeli vendicatori. Mi sbarrò il passo vindice e mentre io, basito ed immobile, con il boccone rimasto nella strozza che non andava più né su, né giù, volsi lo sguardo in alto verso quel tizio, con aria più che altro interrogativa.

L'omone mi indicò con il dito dall'intento giaculatorio, poi, come colto da ispirazione divina, lanciò il suo strale, che, evidentemente si prefiggeva essere di monito didascalico. - Non di solo pane vive l'uomo!- esclamò con voce stentorea. Poi, lasciato nell'aria il suo insegnamento morale, evidentemente tronfio e felice di avere dato argomenti di meditazione a quella sgangherata gioventù che di lì a pochi anni avrebbe segnato il secolo con un graffio ribelle, scomparì alla vista come un fantasma di mezzanotte, un ectoplasma evangelico avvolto in un nero tabarro, forse solo avvertito e sognato da una coscienza evidentemente già preveggente delle proprie future colpe e disagi. Mi girai interrogativo verso mia mamma e, cercando conforto le dissi: - Ma questa è farinata, mica pane!- Lei scrollò le spalle incurante dei dubbi del suo rampollo che, dopo quell'imprinting, ormai avrebbe portato per la vita le stigmate di altre golosità.







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Allegria!

mercoledì 8 dicembre 2010

Hotel Pekin.


Sono stato a Mosca per la prima volta nel 91. La situazione era irreale e nevicava fitto, nell'atmosfera di semioscurità latente di un novembre che preannunciava un inverno duro. La Moscova era ormai ghiacciata e le code che si formavano come per abitudine davanti ai negozi vuoti, nel lucore giallastro del primo pomeriggio, erano piene di volti stanchi e depressi, mentre le rare macchine giravano per il Kalzò lasciando una scia azzurrognola e puzzolente di carburante malato. L'atmosfera generale mi parve davvero cupa. Usciti dall'ufficio, percorrevamo a piedi le poche centinaia di metri che su un largo marciapiede ci portavano fino alla Gastiniza Pekin. La neve crocchiava soffice sotto le mie suole pesanti, mentre mi stringevo nella dublionka, con la shapka calata sulle orecchie, per trattenere il caldo dolciastro dell'ambiente da cui ero appena uscito.


Non facevo tempo a prendere freddo. Superata la grande piazza semideserta si aprivano, forzandole un po', dato che erano tutte sgangherate, le porte del vecchio hotel staliniano. Il più classico edificio del regime, uno dei sette di stile neoassiro, mutuati dalla visita newyorkese che il dittatore fece negli Stati Uniti e che scimmiottavano lo stile che tanto gli era piaciuto. Il Pekin era il più piccolo dei sette e forse il peggio riuscito con la sua decina di piani e le torri finali sproporzionate, decisamente il fratello minore anche rispetto all'Hotel Ukraina dall'altra parte del fiume, più arioso e composto. Ma la sensazione più tremenda ce l'avevi all'interno, superata la zona cuscinetto tra le porte che divideva la hall dalla piazza esterna cupa e coperta di neve. Le solite tristi incombenze al pesante bancone dove stanche addette ti facevano il favore di ritirarti i documenti vari e ti consegnavano di malavoglia il passport interno, poi te ne andavi verso gli ascensori , quasi tutti rotti per arrivare al tuo piano.


Qui, se avevi fortuna trovavi la dejurnaia, la capa del piano, il più delle volte addormentata su un divano di similpelle slabbrata e quando, incattivita dallo sgradito risveglio, ti consegnava la chiave, andavi, senza disturbarla più oltre, a cercarti la camera lungo gli enormi ed infiniti corridoi. Poi ti rinchiudevi nella stanza gigantesca. Tutto doveva essere grande e maestoso quando l'albergo era stato costruito; le dimensioni dovevano evidentemente risultare allo stesso tempo monito e minaccia per chi ne usufruiva o semplicemente le guardava; testimonianza di grandezza, ma anche di severa attenzione. Occhio a quello che fai che il grande fratello ti vede e ti giudica. In ogni momento. Questa era la sensazione. Inoltre si favoleggiava che dappertutto ci fossero microfoni e le leggende in tal senso si sprecavano, anche se nell'agonia finale del regime, credo che tutto fosse un po' lasciato a sé stesso e l'incuria generale avesse invaso anche questo aspetto della vita politica.


Al piano terra, in fondo c'era il ristorante, una misera e scarna interpretazione della cucina cinese, sempre scarsamente fornito anche di quei tre o quattro piatti che il deludente menù proponeva, su tovaglie macchiate e stazzonate. Era frequentato di malavoglia dai pochi clienti dell'hotel che al mattino, ci facevano una tristissima colazione a base di cetrioli e smietana, mentre un colossale (tutto doveva essere grande) samovar di acciaio troneggiava in un angolo della sala per il thé. Al sabato sera arrivavano gruppetti o coppie di ragazzi russi per festeggiare qualche compleanno, riempiendo qualche tavolo qua e là, i maschi con le giacchette lise e strette con una rosa in mano, le ragazze diafane e bellissime con le camicette di poliestere trasparenti e le scarpe col tacco che si erano portate nel sacchetto di plastica per cambiarsi gli stivali da neve con cui erano arrivate dalla fermata della metro poco lontana. Aspettavano a lungo dopo l'ordinazione ai camerieri svogliati, ma non sembrava loro importare. Poi si mangiavano con cura gli involtini primavera rinsecchiti e il pollo alle mandorle freddo, guardandosi negli occhi, inconsapevoli e forse disinteressati ai cambiamenti epocali e ai durissimi anni che stavano alle porte, al di là del grande ingresso, mentre la neve continuava a cadere stanca, a soffocare i pochi rumori della notte sovietica.



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Hotel rossija

martedì 7 dicembre 2010

Il popolo e i Tango Bonds.


Non vorrei cadere nei luoghi comuni, dicendo che i politici son tutti uguali, ecc, ecc. Già si sa come si va a finire quando si prende la strada del qualunquismo. Accidenti mi ero imposto di non usare più parole che finiscono in -ismo e ci sono subito caduto (un'altra volta dirò la mia sul buonismo e su come mi infastidisce l'uso strumentale che si fa di questa parola). Però quando si va ad ascoltare o a leggere qualcosa del passato, lontano o recente, si impara più che da qualunque lezione. Partite pure da Cesare e finite ai dittatori dei giorni nostri, se leggendo le loro cose od ascoltando i loro discorsi, trovate un abuso della parola Popolo, non affannatevi a controllare chi l'ha detto o chi l'ha scritto, tanto sapete già come è andata a finire. Sicuramente male per lo stesso popolo, tirato abusivamente in ballo. Così adesso quando ascolto, distrattamente, per carità, qualche politico, ho una specie di counter automatico nel subconscio e se sento pronunciare la parola Popolo, magari gonfiando un po' le gote per tromboneggiarlo meglio, per più di tre volte, nello stesso discorso, istintivamente mi si stringono subito le muscolature involontarie, incrocio le dita, digrigno i denti, mi viene la secchezza delle fauci.


E' proprio la parola e la sua pronuncia tronfia e gigioneggiante che chiama allo stare attenti e a mettersi contro il muro controllando chi ti sta alle spalle infingardo. Guardate, quando sono stato a Buenos Aires, quel paese era proprio in fondo al pozzo dopo il default e la gente normale era davvero in condizioni disperate; incontravi continuamente persone che avevano avuto una vita dignitosa se non benestante, precipitate di colpo nell'indigenza e nella disperazione, come ad esempio un ex- direttore amministrativo di un'azienda fallita che mi portò all'aeroporto su un taxi abusivo, con la giacca sdrucita che aveva visto tempi di splendore e che mi confessò di vivere su un divano in un sottoscala da un amico che gli dava ospitalità. Un dramma economico in cui il paese era precipitato di colpo dopo decenni di inscipiente cannibalismo di politici che aprivano sempre i loro discorsi inneggiando al Popolo e parlando solo in suo nome, osannati e amatissimi a cominciare da Evita il cui museo e la cui tomba è meta di continuo pellegrinaggio fin dagli anni in cui si cominciò ad aprire le voragini nelle fondamenta di quel paese un tempo ricchissimo. Eppure in quelle sale piene di ricordi e di fotografie di folle che applaudono, si ascoltano discorsi coinvolgenti in cui il Popolo e il suo interesse primario viene continuamente tirato in ballo.


Sono stato anche al cimitero a vedere la fila di quelli che continuano a portare un fiore; quando tu parli al Popolo quello ti crede, pensa davvero che tu ti stia sbattendo per lui e non per avere più potere, più soldi o più puttane. E quel Popolo se li è voluti e votati tutti, uno dopo l'altro, qualcuno nel frattempo il potere se lo è preso con la forza e la violenza, sempre in mome del Popolo però, intendiamoci. Poi ancora altri a fare solo gli interessi del Popolo, gente che aveva accumulato ricchezze enormi andata al potere per meglio conservarle ed aumentarle e altri beceri Masanielli che arrivavano allo stesso posto per lo stesso fine. Il risultato finale è stato quello che tutti hanno potuto vedere e comunque il Popolo lo ha poi scontato sulla sua stessa pelle. Così fate attenzione anche voi, mettete una specie di avvisatore automatico e quando scatta il numero quattro, vuol dire che quella parola è stata pronunciata già una volta di troppo; mi raccomando, allenatevi a stringere le chiappe per istinto e state in campana.



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lunedì 6 dicembre 2010

Dai vegani ai carnivori.


Beh, ormai lo sappiamo tutti che la carne fa male; ce lo ripete ogni giorni il saggio Veronesi con buona ragione. Inoltre c'è anche il problema dello sfruttamento delle risorse del pianeta; per fare un chilo di carne occorrono infatti sette chili di cereali e l'inquinamento è un problema ineludibile (ma di questo parleremo un'altra volta) oltre alle varie considerazioni di affamare il Terzo Mondo. Però le cose non basta saperle e condividerle, bisogna anche comportarsi di conseguenza, in modo coerente e consapevole. Insomma fatti e non parole. Ecco quindi perchè ieri sera, mentre dal cielo calava la terza nevicata della stagione, segno inequivocabile degli epocali mutamenti climatici in atto, ho aderito con entusiasmo, assieme ad un gruppo di amici, ad una interessante manifestazione di cui vi prego di apprezzare le sfumature culturali, altra cosa di cui oggi si sente una grande bisogno.

Si è trattato di una serata organizzata alla buvette del Palazzo Monferrato, dalla APA (Associazione provinciale allevatori) per meglio conoscere ed apprezzare questo straordinario vanto del nostro territorio. Si è cominciato con l'illustrazione delle caratteristiche delle varie razze bovine da carne, passando poi a presentare i diversi tagli ed infine a spiegare come va valutata la qualità delle carni stesse, attraverso un attento esame di tutti gli aspetti organolettici che la rendono così straordinaria ed irrinunciabile. Sul tavolo erano presenti tre spettacolari magatelli di sei/sette chili ciascuno delle tre razze esaminate, la Limousine, la Garonnaise e la regina delle carni, la Piemontese. Inoltre facevano bella mostra di sé tre immaginifiche costate da oltre un chilo che permettevano di apprezzare de visu le caratteristiche generali, l'aspetto e la marezzatura delle parti grasse ed il colore. Un vero trionfo di una materia deliziosa ed appetibile. Infine si è passati agli assaggi guidati, che sono cominciati con le tre varietà di carni, presentate come Cruda all'albese, che ha permesso di apprezzarne la fragranza, l'odore e le delicate sfumature del colore, per proseguire con gli stessi tre campioni ciechi sotto forma di vitello tonnato tradizionale, per meglio testarne la tenerezza, il gusto e la succosità, per arrivare infine allo stracotto in cui i tre campioni potevano essere valutati complessivamente in tutti i loro aspetti significativi.

Affondare la lama del coltello in quei cubetti squisiti per sentirne la maggiore o minore resistenza, ha dato un vero e proprio piacere fisico, al pari dell'espandersi dell'intensità in bocca del sapore e della sua succosità. C'è un chè di ancestrale in questa voluttà che ti prende mentre apprezzi il rosso vivo della fibra della femmina Limousine, per passare alla sfumatura aranciata propria dello scottone piemontese dalla insuperabile tenerezza (di cui nella foto potete apprezzare lo spettacolare e significativo lato B) o al rosato più docile della Blonde d'Aquitaine (che bionda magnifica, altro che Marylin!). Una apposita scheda di valutazione ha raccolto in maniera scientifica le varie sensazioni del panel di assaggiatori. Le cose van fatte seriamente, dico io. Uno Chardonnay morbido e dall'intenso retrogusto e una Barbera del Monferrato vellutata e di buon corpo, con lontani sentori di rosa appassita (vi è piaciuta questa?) hanno dato un senso globale e significativo alla serata. Oramai sono inserito nel panel , la prossima settimana si replica con i formaggi dell'alessandrino. Non ci si può tirare indietro davanti ai propri doveri e gli impegni presi vanno rispettati. La cultura e la coerenza innanzitutto alla faccia di chi non la rispetta e di chi ci vuol male.



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domenica 5 dicembre 2010

Il Milione 32: Le triglie di Shanghai.


Il nostro Marco Polo, ormai ambasciatore plenipotenziario del Gran Khan, comincia i suoi viaggi verso sud, dove gli si aprono scenari completamente nuovi, paesi esotici e ricchi di profumi di spezia e di potenzialità commerciale, le stesse sensazioni che non possono non cogliere chi oggi gira per l'Asia. Attraversa il fiume Giallo, confine tra il regno di mezzo e il reame di Mangi, la seconda colossale via d'acqua cinese, folgorato dall'energia che la percorre.


Cap. 134


Quando l'uomo è ito per tre giornate a mezzodie truova città e castella e di capo giugne allo grande fiume Cameraman (Huang Ho , il fiume giallo) che vien de la terra del Preste Gianni (si riferisce ad una figura mitica dell'Asia centrale, a capo di un regno di cristiani Nestoriani) e ch'è largo un miglio e molto profondo, sì che bene puote andare grande nave. E in questo fiume à bene 15.000 navi del Grande Cane per portare sue cose. Quando l'uomo ha passato questo fiume, entra nel reame del Mangi e lo conquistò il Grande Cane.


Questa parte era allora come adesso la più ricca e produttiva della Cina ed è proprio in questa area che si addensano le maggiori attività commerciali. La sua linfa vitale la percorre immensa ed inarrestabile. E' il fiume Azzurro, lo Yang Tse Kiang, la via d'acqua più popolata del mondo.


Cap. 143


Quando si va per isciloc (oriente) per 15 miglia, si truova la città di Signi in sul maggiore fiume del mondo, ch'è chiamato Quian. Egli è largo fino a 10 miglia e lungo più di 100 giornate. E per le molte città che sono su per quel fiume va più mercatantia e più cara che per tutti i fiumi del mondo...che io vidi a questa città una volta 15.000 navi aportate.


Davvero uno spettacolo incredibile, il fluire di tutto questo traffico sul grande fiume fino alla città sull'Oceano, oggi la colossale Shang Hai (letteralmente Sul Mare), forse allora piccolo villaggio di pescatori sul delta del fiume. Ho avuto il privilegio di vedere i cambiamenti di questa città incredibile durante tre lustri, un luogo con una vitalità ed una forza straordinaria. Ogni volta che ci tornavo trovavo interi quartieri stravolti e irriconoscibili. In soli tre anni l'isolone di sabbia di fronte al Bund, la sfilata di edifici commerciali di inizio secolo che l'impero britannico ha posto sulla riva, si è trasformato, da un cantiere pieno di gru, in una selva di grattacieli multicolori e sfavillanti di luci.


Ero davanti alla vetrata della torre della televisione, davanti ad un piatto di delicate trigliette stufate coi cipollotti e le fettine di germogli di bambù (vedere da Acquaviva per la ricetta assieme allo splendido post) sui tavolinetti del ristorante girevole. Duecentocinquanta metri più in basso le navi scivolavano lente sul sinuoso nastro azzurro, un vorticoso muoversi senza fine, un insaziabile desiderio di affermazione, di ricerca di ricchezza e di potenza. Oggi in questa città trovi tutto quello che offre il mondo; puoi mangiare il Churrasco brasiliano come bere vino in una Brachetteria, degustando, tra cinesi compiti, il profumato ed unico vino dell’Acquese. Questo incredibile paese sta correndo su di un rollercoaster in continua accelerazione, senza più potersi fermare. Credo che abbia in mano la palla in assoluto e l'unico modo perché questa corsa si arresti, è che si faccia del male da solo.





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