sabato 7 novembre 2020

Luoghi del cuore 84: Tra gli alti passi tibetani


Il lago Yamdrok - Tibet - Cina - agosto 2005


Donna Cam
Il problema intanto è quello di riuscire a respirare, un po' come la faccenda del Covid. Ti senti il petto pesante, fai un grande sforzo, ma di aria e di ossigeno sembra che non ce ne sia mai abbastanza, così fai due passi e ti devi fermare, meglio se ti puoi sedere. Però, vuoi vedere uno dei luoghi più interessanti del mondo, il Tibet? Allora, se il bello vuoi vedere, un po' devi soffrire, nel senso di far fatica fisicamente. E se arrampicarti su qualche sentiero scosceso per goderti un monastero da una posizione più favorevole diventa subito una tortura, pazienza. Feci non più di cento metri per fare una foto dietro alle torri dorate di Ganden a Tzetang, una ripida salita tra serti di bandiere colorate che si agitavano al vento teso del nord e appena arrivato in cima, mi prese secco, un violento conato di vomito perché a 4500metri bisogna camminare lentamente, fermandosi ad ogni passo. Così non bisogna avere fretta di sparare giudizi improvvidi e apparentemente evidenti sulle questioni politiche locali. E' facile venire abbagliati da quello che sembra così facile da capire, magari conquistato dalla simpatia della tua guida tibetana, una giovane ragazza dall'occhio triste a cui chiesi cosa ne pensava della nuova ferrovia che avrebbe raggiunto Lhasa in fase di ultimazione e che mi rispose: - Servirà solo a portare qui altri cinesi-. Bisogna andarci con mente aperta e senza preconcetti, cosa inusuale, ma almeno tentare è già positivo, si possono portare a casa riflessioni interessanti. Magari uno crede o è convinto di certe cose, poi, guardando con i propri occhi, ascoltando campane diverse, comincia a far lavorare il santo germe del dubbio che dovrebbe stare sempre nella testa delle persone pensanti. 

Tibetano
Dare più spazio al relativismo e cercare di restringere quello delle certezze assolute. Magari partendo da osservazioni marginali, teoricamente di poca importanza. Ad esempio, uno degli animali più conosciuti ed ammirati della zona è lo yak (Bos grunniens mutus), tutti i turisti sono bramosi di toccare con mano questo magnifico animale che, puro tra le vette, sa vivere nella rarefazione dell'alta quota permettendo che la vita si svolga anche lassù. Come sempre, però le cose vanno interpretate e capite. Sì, popolava un tempo solitario gli altipiani dall'aria fine, ma era (ed è) animale stizzoso, per nulla docile all'aiuto dell'uomo con le sue bizze fastidiose e le sue bizzarrie continue. Ma verso il suo territorio, col tempo ci fu una continua infiltrazione di bovini (bos taurus), possiamo dire uno stillicidio di migrazione clandestina di animalacci dediti a faticare senza lamentarsi che, pur molto malvisti dai duri e puri, hanno cominciato a mescolarsi con gli aristocratici yak, dando luogo a sempre più frequenti incroci. Si potrebbe dire un meticciato provocato dalla globalizzazione. Questi ultimi chiamati Dzo o Dzopkio, assai più resistenti e validi (probabilmente anche più intelligenti) che assommano i pregi di entrambe le razze, sono ormai la maggioranza assoluta sul territorio. E' un po' la storia del mulo, insomma. Forse qualche gruppo di yak ha cercato di contrastare questo andazzo, non gli andava certo di spartire il territorio con i nuovi venuti, sporchi di letame e incolti al massimo, che, tra l'altro, si sdraiavano dappertutto senza rispettare le tradizioni e le convenienze, se potevano si acchiappavano le femmine e muggivano anche in un modo del tutto incomprensibile, ma la storia compie inevitabile il suo corso ed è difficile opporsi. 

A 5400 metri

Inoltre gli yak, a suo tempo non avranno avuto neanche giornali o capi partito o non avranno potuto formare leghe o gruppi per opporsi al destino che incombeva inevitabile. Ma tant'è così sono andate le cose nel lontano Tibet. Tra l'altro, se ci andate, evitate di chiedere, come ho fatto io, informazioni agli abitanti, sul famoso burro di yak, che è un po' la bevanda nazionale. Infatti lo Yak è un nome riferito soltanto al maschio della specie, la femmina si chiama Dri, un po' come toro e vacca e chiedere del burro di yak ha un significato assolutamente disdicevole. Così tanto per rimarcare il problema la mancanza d'aria, eravamo arrivati al limite delle nevi eterne a 5400 metri, scavallando un passo dove scesi dall'auto solo per scattare una foto e risalendo poi le pendici di un'altra valle solitaria arrivammo ai 4794 metri del passo di Kampa-la che ci accolsero con una sgradevole sensazione di difficoltà respiratoria. Ecco, cali giù dalla Toyota e fatichi a camminare, a respirare, pensi che sei praticamente in cima al Monte Bianco e invece intorno a te le montagne crescono come i funghi da lì in su. Guardi in alto e capisci perché in tutte le tangke tibetane appese alle parete dei templi il cielo sia così indaco, sempre cosparso di sbuffi bianchi di nuvole. Camminando lentamente tra i fasci di bandiere di preghiera colorate che sventolano nel vento teso e gelido, portando in alto le loro richieste di aiuto, arrivai a vedere, poco più sotto, la superficie piatta di turchese del lago Yamdrok Tso che si insinua tra le vallette laterali come un polipo dai cento tentacoli, un lago sacro nel deserto dell'alta quota. 

Ragazze al mercato

Sei in Tibet, ma se sei cinese il lago si chiama Yamzho Yumko e non è poi molto sacro, anzi, con il tipico pragmatismo cinese, si trova in una posizione straordinaria per fare una condotta forzata di oltre mille metri di dislivello che generi energia di cui il nostro mondo (sottolineo, il nostro) è perennemente affamato. I tibetani hanno guardato l'operazione con grande disapprovazione e si sono messi, metaforicamente, sulla riva del lago ad aspettare. Non ci sono immissari, quindi è prevedibile che la continua emunzione di acque farà scendere il livello del lago fino a farlo sparire e qui casca l'asino. Perché i cinesi non lo sospettano o quanto meno se ne fregano, ma tutti sanno che in fondo al lago, da ere immemorabili è tenuta prigioniera e incatenata una orchessa malefica che, una volta liberata dal peso delle acque, spezzerà le sue catene dorate e distruggerà il mondo, quantomeno la Cina. Per questo forse, i tibetani che transitano dal passo con gli yak o le mandrie di capre, dopo aver messo una ulteriore pietra sui monticelli lasciati dai viaggiatori che li hanno preceduti, guardano il lago e sogghignano a lungo, stringendo gli occhi come fessure scavate nella carne. Quelli a cui raccontano la storia ridono e li prendono un po' in giro. Ma i pastori non sono come i ragazzi impazienti che tirano pietre a Lhasa o bruciano qualche negozio e magari rischiano la vita. Raccontano a te, che ansimi camminando piano per raggiungere l'auto e che guardi un po' smagato i monaci col telefonino che si messaggiano durante la preghiera nel gompa di Sera, una frase famosa di Guru Rimpoche scritta in un rotolo di pergamena del XV secolo:- Quando l'uccello di ferro volerà ed i cavalli correranno sulle ruote, il popolo tibetano sarà sparso per il mondo.- e le fessure sorridono ammiccanti. Loro aspettano. 

Monastero diTzetang

Certo che se andiamo a  rileggere il Milione per vedere cosa si racconta di questa parte del mondo, scopriamo che il giudizio che dà il nostro Marco sui tibetani è abbastanza tranchant, però è assai curioso che corrisponda appieno alla considerazione che degli stessi hanno i cinesi odierni, per non parlare dei loro vicini a sud, nepalesi e indiani. Dobbiamo ragionare su questo marchio di infamia che accompagna da sempre tutte le popolazioni nomadi del mondo, che sono viste dagli stanziali, come troppo liberi (non andiamo a discettare dei loro costumi sessuali, decisamente disinibiti e che prevedono addirittura la poliandria) e per questo pericolosi a prescindere, a parte il fatto che gli stessi tibetani considerano la regione più vasta del loro territorio, la provincia di Kham, popolata di banditi e ladroni. La realtà è dunque che da sempre tra la Cina e questa sua regione (già allora inclusa e facente parte dell'impero) c'era una prevenzione di tipo etnico, cordialmente ricambiata dai tibetani stessi. C'è poco da fare, come gli zingari, i cinesi li hanno sempre considerati solo dei truffatori mestatori dell'occulto, stregoni, strologhi e fattucchieri e certamente questo è l'aspetto che più colpisce e affascina il viaggiatore, i templi, le statue terrifiche a loro guardie. Le leggende che li circondano e che lo fanno rimanere a bocca spalancata di fronte ai fuochi dei bivacchi, sorbendosi un delicato thé al burro rancido (spiegazione logica della riuscita di digiuni monacali prolungati che fa anche bene alle labbra vista la quota se riuscite a buttarlo giù) di fronte a racconti di miracolose levitazioni o di trasmissione a distanza del pensiero. E per la verità ho assistito anch'io a quest'ultimo miracolo telepatico, come da allegata prova fotografica qui sotto.

Trasmissione a distanza del pensiero


Preghiera al monastero di Sera
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