domenica 3 aprile 2022

Sognando un parco

Izmaylovo - gennaio 1998


 E anche oggi non ho voglia di uscire, eppure c'è un bel solicello primaverile, l'aria frizzantina che dovrebbe invogliare anche i cadaveri come me a mettere il becco fuori dall'uscio, ma che ci devo fare se non ne ho voglia, non mi si alza la palpebra. Eppure se mi si accendesse il cervello, dovrei concordare sul fatto che sarebbe assolutamente piacevole camminare lungo il fiume quasi secco, arrivare fino al ponte, fare un passo fino alla Cittadella che immagino piena di gente sgambettante che corre sui sentieri dietro ai bastioni, bramosa di fitness e di salutare respirazione all'aria aperta, accompagnata da cagnolini festanti che scodinzolano tutto il loro amore, desiderio di compagnia e attenzione umana. Ma se non ne ho voglia, che ci posso fare? Preferisco star qui ad ubriacarmi di belinate e talk guerrafondai, a scrivere altrettante belinate, perché non ho neppure voglia di concentrarmi su un argomento più serio su cui valga la pena di dibattere, tanto nessuno ha voglia neanche di dibattere con me, quindi che parlo o scrivo a fare. Insomma proprio quella che noi alessandrini chiamiamo voja d'lasmi stè. E ciò detto la pianto davvero lì perché se no mi viene la sbronza triste ed è anche peggio. Perlomeno ieri i Grigi son riusciti a pareggiare, una notizia buona ogni tanto insomma, basta sapersi accontentare. Oppure apro la stura dei ricordi, come da anziano di ordinanza. Dormire, sognare. Un mio amico da Mosca mi scrive solo più di qualità del caffè e di controllare spesso il cuore che è una cosa importante. Non approfondiamo più i discorsi su altri argomenti, io cerco di essere molto cauto a riguardo, non si sa mai, non vorrei creare problemi. 

Ogni tanto mi manda qualche foto dei parchi russi dove va a passeggiare con qualche anziano che gioca a scacchi sulle panchine di pietra, dopo aver spostato la neve dai tavolini. Così mi riporta alla mente i tempi in cui alla domenica prendevo la metro fino a Izmailovsky park. Ricordo ancora tutte le stazioni. Salivo generalmente alla Tvierskaya, vicino al mio albergo e poi cambiavo alla Ckalovskaja, e poi via, la Kliskaja, la Baymanskaja, la Elektrozavodskaja con le sue statue inneggianti al trionfo dell'elettricità, Semionovskaja, Partizanskaja e infine Izmaylovskaja, mi sembra ancora di sentire la voce della annunciatrice che recita i nomi delle stazioni. Ed ecco la piccola uscita che ti immetteva direttamente in quell'enorme spazio aperto di alberi radi e secchi, quando tutto era coperto di neve e tu buttavi lo sguardo indietro e vedevi subito la montagnola, coi palazzi sovietici più lontani a contorno, come quelli che vedi oggi devastati dalle bombe o anneriti dalle fiamme di Mariupol, Kharkiv o di una qualunque delle tante città di quel mondo dalle periferie indistinguibili che era l'URSS. Un vialetto diritto portava alle sue scale che portavano fino in cima da dove buttavi uno sguardo tutto attorno, tra i tanti spazi circondati di bancarelle di cose vecchie, di quadri di artisti della domenica che portavano i loro lavori lì per venderli ai passanti. C'erano poi i venditori di memorabilia dell'URSS, spille e medaglie, orologi Kommandirsky, ne ho una collezione, robe militari, le stupende macchine fotografiche Kiev 88 o le Zorky. Poi i classici souvenir slavi, i legni dipinti, le ceramiche di Djèl', le scatolette miniate di Paleck, matrioske come se piovesse di ogni dimensione, ambre baltiche, colbacchi dal più infimo coniglio al visone di qualità a 100 $, per lo zibellino invece, bisognava andare all'Arbat da qualche negozio specializzato o parlare con qualche "amico" che te lo portava direttamente in albergo in cambio di tre biglietti da 100. 

E in cima alla collinetta una grande spazio dedicato ai tappeti, le meraviglie caucasiche e dell'Asia centrale, alcuni molto usati e consunti, altri splendidi nei loro colori e geometrie, ravvivate dal contatto con la neve su cui venivano stesi. Una meraviglia contrattare con i personaggi del sud che stavano appollaiati dietro i banchetti, facce del Caucaso, i cosiddetti culi neri, non molto apprezzati dai Moscoviti, utilizzando con fatica il mio russo stentato, speso per non farmi confondere con un comune turista e poter trattare da una base più conveniente. Ne ho comprati diversi e adesso me li guardo con la gioia che ti dà l'oggetto che porta con sé non solo la sua bellezza intrinseca, ma la sua storia, quella che si trascina dietro ogni cosa che è più vecchia di te. Quello che arriva da Baku con le sue sfumature verdi e quel Khazak con le sue stelle dalle punte bianche, un poco mangiato da un angolo che stava in una casa di campagna georgiana; mancata la nonna, i figli hanno venduto tutto prima di andarsene a Tbilisi in cerca di migliori possibilità. E quella sacca da cammello Yazd che arrivava dal Turkmenistan, che aveva di certo attraversato lande desolate per arrivare fino a Samarcanda come il soldato della canzone o lo Shirwan i cui colori il tempo ha illanguidito trasformandoli in sfumature deliziose, mentre le sue lane consumate conservano ancora tutta la delicata morbidezza, la carezza dei capelli lunghi e neri della ragazza che con pazienza infinita lo ha annodato più di cento anni fa. Che meraviglia la mia Mosca perduta. Venivo via quando ormai stava facendo scuro, la luce è breve, d'inverno, lassù, a volte col mio pacco sotto il braccio, altre con solo un cartoccetto in tasca, una spilla o un bicchierino di cristallo per gustare un sorso di Stalichnaja. Na sdarovje, caro Zhenja!


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