sabato 29 agosto 2009

Tu chiamale, se vuoi, emozioni.


Mi piace molto vedere gli animali selvatici che sguazzano o zampettano a casa loro, beh a chi non piace… Quando ho potuto ci sono andato, certo una cosa è stiparsi nei pulmini che percorrono a dozzine il Masai Mara, un’altra è farsi qualche ora con le ciaspole nei piedi per guardare gli stambecchi, quelli sopravvissuti almeno, nella neve del Gran Paradiso. Anche gli elefanti ed i bufali selvatici nelle foreste indiane dei monti Nilgiri sono una bella emozione, ma secondo me, un posto magico è costituito dai parchi che circondano il delta dell’Okawango in Botswana. La vastità del territorio e la solitudine in cui ti trovi sono la parte definitiva del fascino. In una zona grande più o meno come il Piemonte, entri e per una settimana, può capitare che non incontri nessuna altra macchina, per non parlare, visto che sei andato lì anche per fare qualche bella foto, se non hai una sufficiente scorta di batterie cariche e con gli aggeggi moderni, tutto funziona a batteria; siamo schiavi della tecnologia. Ma se ti dimentichi questo aspetto è come essere un inglese a fine 800, padrone del mondo che gira per le colonie senza confini. La nostra Toyota era come una barca in mezzo al Pacifico, solo savana all’orizzonte. Robert, il cacciatore bianco con cappellaccio d’ordinanza, era un giovane sudafricano sotto la trentina, muscoloso sotto la sahariana caki, biondiccio, barba lunga da vero macho con l’aria di chi può girare l’Africa impunemente come se fosse nella piazzetta di Sestriere. Tipo interessante, che non parlava mai a sproposito e che le mie due donne guardavano con occhio umido (pare che somigliasse a Tom Cruise, sicuramente per l’altezza secondo me), di certo sapeva trattare femmine e belve feroci con la stessa competenza. Al mattino, fiutava l’aria, certamente per sentire l’odore della selvaggina lontana e indicava la via da percorrere lungo le piste polverose ad Al, un bantù, che oltre a guidare si occupava di tutti i lavori, dal montaggio del campo alla cucina, aiutato da un ragazzo australiano che si faceva una esperienza col programma di mettere in piedi una agenzia di viaggi naturalistici in Tasmania, a suo dire, terra di grande interesse. Abbiamo visto tutto quello che volevamo vedere e abbiamo avuto tutte le sensazioni di wilderness che volevamo sentire. Imprigionati in un branco di bufali che bloccavano l’auto, fermi per ore con una famiglia di leoni a divorare una giraffa (loro), seduti in un campo mentre gli elefanti ci passavano dietro la schiena, attenti a schivare le cacche che i babbuini ci tiravano dagli alberi, sotto i quali avevamo saggiamente evitato di mettere le tende, immobili per non fare innervosire mamma ghepardo mentre leccava il suo piccolo, svegli a sentire il tremendo rumore degli ippopotami che scendevano lungo la riva della palude masticando fogliame. Quella sera Robert aveva cucinato sulla griglia di fortuna delle succulente bistecche, che misteriosamente saltavano fuori di tanto in tanto dalla cambusa senza fondo del trailer, una vera delizia, tenerissime e saporite, innaffiate da sidro locale di cui alla partenza avevamo fatto una scorta notevole. Prima di ritirarci nella nostra tenda, Robert, che invece dormiva à la belle etoile sul tetto della Toyota, ci disse con fare circospetto, di non uscire durante la notte perché poteva essere pericoloso, limitandosi al più ad aprire appena la zip della tenda se sentivamo rumori, borbottando qualcosa a proposito di iene e leoni. Ci coricammo alla chetichella in vigile attesa. Dopo un’oretta, la tenda era circondata di fruscii sospetti, di strappetti, leggeri mugolii, grattare nervoso di unghioli. Tra sentimenti contrastanti, tirammo giù un poco la lampo del frontale; era una notte luminosissima di luna quasi piena che rischiarava bene la savana davanti a noi. Nella spanna di apertura, allargata con le dita, io e le mie due donne, cercavamo di abituare gli occhi all’oscurità, ma incrociammo subito due, poi subito tre paia di pupille gialle che ci fissavano alla distanza di un metro. Si muovevano rapide, neri nasi umidi annusavano il terreno verso di noi, zampe nervose grattavano il terreno in cerca di cibo spostando le pietre. Tre grosse iene stavano davanti alla nostra canadese ispezionando con cura tutta l’area. Ci tenevano d’occhio con la noncuranza di chi è padrone a casa sua e ti vuol far sentire intruso. Dopo una mezz’oretta come erano venute se ne andarono. Non ci furono altri visitatori quella notte. Un’emozione forte, ricordo ancora bene i rumori, i fruscii, l’alito fetido e l’ammirazione per il cacciatore bianco. Prevedeva tutto, il magnifico, anche le emozioni, gran cosa l’esperienza. Al mattino, di fronte alle uova e pancetta che Al aveva preparato, ci guardavamo contenti e ci chiedevamo stupiti di come fosse possibile prevedere gli eventi in quel mondo selvaggio. Anche mia figlia aveva vissuto le emozioni della nottata con grande intensità, aveva solo sedici anni, ma mentre risalivamo sulla Toyota per andare verso la palude del delta mi disse: “Guarda che l’ho visto ieri sera Robert che sfregava il grasso delle bistecche sulle pietre davanti alla nostra tenda”. Non c’è niente da fare, in questo mondo omologato e globalizzato, quando paghi hai diritto anche alle emozioni impreviste, all included.

venerdì 28 agosto 2009

Impiantistica varia.

La pianura tra Crimea e Ukraina è sconfinata. L’occhio corre all’orizzonte e si perde in quella linea infinita che scandisce in primavera il cielo azzurro chiaro dalla terra nera che comincia a colorarsi di tenero verde. Le strade sono rettilinee come negli stati centrali degli States e per kilometri e kilometri non incontri anima viva, poi un’insegna ad una strada laterale ti avvisa che da qualche parte c’è qualche cosa. Nel nostro caso era il Kolkhoz Rodina dove eravamo attesi dal direttore in persona. Il kolkhoz è in realtà un paese al centro di una grande area coltivabile. Nel nostro stavano quasi duemila persone, in grandi case a più piani che circondavano una grande piazza/aia centrale, assieme a caseggiati più bassi, magazzini, officine, depositi, servizi vari. La sensazione è di essere sperduti al centro del nulla. Gente se ne vedeva poca in giro, un po’ perché le semine primaverili e gli altri lavori agricoli erano finiti, un po’ perché il sistema agricolo sovietico stava tirando le cuoia insieme al resto e chi poteva se la filava in cerca di occasioni migliori. In fondo alla grande piazza una lunga costruzione a tre piani cadeva a pezzi. Era stato il centro di produzione polli, ne andavano via due camion al giorno, poi non era più arrivato il mangime, forse qualcuno si era dimenticato di quel kolkhoz sperduto o c’erano altre destinazioni più importanti, così i polli erano morti di fame. Quelli che si poteva, erano stati mangiati, il mercato della città era troppo lontano e non c’era la benzina per portarli, così tutti gli altri li avevano buttati nella fossa dietro il caseggiato che aveva cominciato a marcire. C’era anche una fabbrichetta con una specie di linea per fare le patatine fritte, anzi prima si faceva una specie di purea, poi questa veniva laminata in sottili gallette e il tutto era fritto in un olio nero che sembrava quello esausto dei camion. L’addetta farfugliò qualcosa a proposito di semi oleosi trattati con trielina e soda caustica, ma ritenni opportuno non approfondire. Nonostante questo fui obbligato all’assaggio di qualcuna delle gallette nerastre che uscivano prima di essere stipate un scatolette di cartone da pacchi. Non riuscii a togliermi quel pizzicore sulla lingua per ore, anche quando incontrammo il direttore responsabile del centro. Era giovane e prestante, decisamente atletico per un dirigente agricolo di campagna e dopo aver esaminato le sue richieste che si riassumevano in una ricerca di fondi da investire in mirabolanti attività di sfruttamento dei prodotti agricoli del kolkhoz, dai maiali, alle patate al girasole, cercammo di salutare ed andarcene. Non riuscimmo a svignarcela, ma fummo coinvolti nella cena d’onore tra molteplici brindisi all’imperitura amicizia italo russa; la vodka garilka scorreva a fiumi e notai grande feeling tra il nostro Misha e il direttore-atleta. Entrammo più in confidenza e gli chiesi come era finito in quel buco. Si intristì subito e mi parlò del suo recente e più glorioso passato quando svolgeva l’importante incarico di “consigliere” a Cuba. Anni straordinari pieni di ricordi piacevoli e ambrati, non era chiaro se riferiti più al rum o alle cubane con le quali aveva maturato una buona intesa commerciale. Grandi pacche sulle spalle al nostro Misha che risultò aver avuto anche lui, un passato di “consigliere-consulente commerciale” e non solo a Cuba, ma anche in Angola, Cambogia e altre parti del mondo. Strani paesi per fare affari, ma si sa, le buone opportunità si nascondono dove meno te le aspetti. Troppo curioso come sempre, chiesi cosa vendevano da quelle parti. Si guardarono in tralice. “Abarudovnjia, impianti” fu la risposta, poi si cambiò discorso e si aprirono le altre bottiglie di vodka, tra canti sguaiati e rimpiangendo i bei giorni felici dei tempi passati. Ce ne andammo il giorno dopo mentre la bruma del mattino avvolgeva i ferri contorti ed arrugginiti del deposito trattori pieno di macchine abbandonate.

giovedì 27 agosto 2009

An mó


L’arte del massaggio è antica come la Cina. Il primo carattere del bisillabo, che significa “massaggiare”, è “àn”, formato dal segno an per la pronuncia e significa premere, accoppiato al segno di mano come suggerisce l’atto di cui si tratta, mentre "mo" significa sfregare, anch'esso con all'interno il segno della mano. Questa attività non è una semplice tecnica di benessere fisico, ma fa parte della medicina tradizionale, in quanto non si tratta di banale manipolazione, ma di una complessa serie di digitopressioni nei punti sensibili dell’agopuntura, seguendo con precisione la teoria dei meridiani. Io sono un amatore dei massaggi e, come sapete, esperimento con curiosità le cose che incontro e qualche anno fa a Pekino ebbi una interessante esperienza al riguardo. La fiera era alquanto moscia e si chiacchierava con i colleghi degli stand vicini in attesa dei primi svogliati clienti. L’amico della ditta che ci stava a fronte arrivò con qualche minuto di ritardo con il ghigno sofferente di chi ha dormito poco bene. Dopo il caffè di rito volle metterci a parte di quanto gli era occorso la sera prima, quando lo avevamo visto filare alla chetichella senza venire a cena col gruppo. Amante anch’egli dei massaggi, aveva voluto profittare dei servizi del nostro hotel, che al secondo piano avevano un interessante insegna che recitava: Thai and Chinese Massage, con alcune gentilissime e sorridenti signorine alla reception. Alla richiesta aveva scelto il massaggio thai, speranzoso di una esperienza variata ed indimenticabilmente esotica. Accomodatosi sul lettino era stato preso in carico da una signorina alquanto muscolosa che, in linea con lo stile prescelto, aveva cominciato ad operare sulle sue stanche articolazioni, prese e torsioni piuttosto rudi. Incurante dei suoi, dapprima cauti, poi sempre più gridati, segnali di stop, proseguiva nelle sue prese a tenaglia interrompendosi solo al suono di preoccupanti scrocchiamenti e al raggiungimento di angolazioni decisamente innaturali. Non ci fu verso di farla smettere, furono quaranta minuti di dolore e lacrime e quando finalmente scoccò l’ora, non gli parve vero di poter porre termine alla tortura pagando il giusto. La notte portò linimento alle ferite e alla delusione, ma a quanto riportava, quella mattina gli sembrava di stare decisamente meglio. Fatto acuto dall’altrui esperienza, nel tardo pomeriggio, arrivai davanti al centro benessere dell’Hotel, dubbioso ma deciso a non rifiutare l’esperienza ed alla gentile richiesta di scelta, risposi senza esitazioni, Chinese massage, alla sorridente ed esilissima fanciulla che mi accompagnò nella stanzetta, dopo che avevo calzato i mutandoni di ordinanza. Steso sul lettino, attendevo la mia delicata ancella, quando si aprì la porta e con orrore, vidi entrare deciso un mongolo basso e tarchiato, in tutto simile al mitico Objob di Mission Goldfinger, uno dei film cult della mia gioventù. Aveva manone grandi come putrelle e i ditoni grassi e tozzi che quasi non si distendevano, leggermente torti, sembravano pinze d’acciaio al magnesio. Mi guardai attorno per vedere se c’erano vie di fuga. Nulla, solo e prigioniero del mostro che con un sorriso melenso sbatteva le manone, sfregandosele per scaldarle. Il testone pelato era imperlato di sottili goccioline mentre le fessure degli occhi si stringevano sempre di più. Gli artigli calarono di botto sulla mia schiena afferrandone i teneri fasci muscolari non usi ad un simile trattamento . Capii che era inutile tentare di opporsi al mostro, abbandonarsi era l’unica soluzione per abbreviare la tortura, quei bitorzoli puntuti premevano i miei punti sensibili senza pietà come cacciaviti dentro il legno massello, come punte di trapano nel muro della mia insensibilità occidentale, tentando nuove vie, cercando di creare non richiesti nuovi orifizi. Come dio volle tutto finì come era cominciato e il mongolo con un piccolo inchino scomparve dondolandosi dietro alla porta da cui era comparso, lasciando il posto all’ancella che mi aiutò a ritrovare la via del ritorno. Il giorno dopo camminavo leggero e disteso e firmammo anche un contratto. L’effetto placebo aveva colpito ancora.

mercoledì 26 agosto 2009

Miniere.


Vivere una vita come topi. Quello che vedete qui a lato (sempre che riesca a postarlo), non è come sembra, un Megaloptide di Mizar II reso schiavo nelle miniere di Surakhis da Paularius, il personaggio che, chi mi segue, conosce ormai bene, ma una ragazzo della val Germanasca che, non molti decenni fa, trasportava talco al di fuori della miniera Paola vicino a Prali. Il nostro amico Paularius, guarderebbe con invidia ai rapporti di lavoro dell’epoca, rapportandoli a quelli della sua miniera, che, ingenuamente nel descriverli, credevo disumani, infatti, nella realtà, i minatori di questo periodo, stavano in galleria per dodici ore consecutive, senza permesso di mangiare, con silicosi e sordità garantite, tubercolosi possibile ma non certa e durante il periodo invernale non avevano, causa neve ed altre intemperie, la possibilità di scendere a valle dove abitavano le famiglie. Trascorrevano quindi le dodici ore di riposo in baracche di fortuna vicino alle gallerie, in attesa del turno di rientro. Molto istruttivo dunque, il percorso proposto in due o tre ore da Scopriminiera che, dopo la visita del piccolo museo che contiene anche una bellissima serie di foto d’epoca, tra le quali quella che vi ho mostrato, vi trasporta per un kilometro e mezzo nelle viscere della montagna a vedere una realtà conclusasi solo nel 1995. Non è la prima miniera che ho visto. Ricordo, vicino a Johannesburg, una miniera d’oro con un immenso pozzo nel quale calava il montacarichi. Venti minuti di discesa e ti sembra di essere al centro della terra, in realtà eravamo a 250 metri di profondità, mentre il pozzo più basso era a -2800 metri! Stessa situazione, stesso lavoro, stesso martirio quando provi a maneggiare un martello pneumatico che quasi non riesci a reggere per le vibrazioni che ti trasmette alle braccia e per i 110 decibel che ti mitraglia nelle orecchie; non resisti neanche dieci secondi, devi mollare per non diventare matto. Poi pensi che invece quella gente se lo puppava per 8, 10, 12 ore di seguito e ti chiedi, ma come era possibile? Eppure questa vita da topi era addirittura agognata, si faceva la fila per poter scendere laggiù. I ragazzi di queste valli aspettavano con ansia di avere sedici anni per scendere con i padri nelle gallerie, lo preferivano anche negli anni ’50, piuttosto che scendere in città alla catena di montaggio. Poi piano piano, le condizioni sono migliorate, le gallerie più difficili sono state chiuse, anche perché non erano più redditizie e anche i ragazzi italiani hanno trovato altri lavori. Sono arrivati e rimasti i minatori polacchi. Perché si sa, ci sono lavori che in un paese ricco e sviluppato nessuno vuol più fare. Un momento, oggi rimane aperta solo più una miniera nella valle con una quarantina di addetti. Beh, udite, udite, quasi la metà sono ragazzi italiani e giovani; forse in Italia sta succedendo qualcosa e non ce ne accorgiamo, forse è meglio che si faccia qualche ragionamento su queste cose. Non ti becchi più la silicosi, si fanno otto ore e poi c’è pure la mensa, ma credo che non sia un lavoro da rose e fiori, fare la vita del topo. Per meditare su questi argomenti, se deciderete, incuriositi da questo post, di passare una gradevole giornata da queste parti, penso che non rimarrete delusi. Magari per non rimanere troppo intristiti e pessimistici sul futuro del nostro paese, cosa sconsigliatissima, vi esorto, scesi dal trenino e usciti dalla galleria della miniera Paola, di sostare all’adiacente ristorante Il ristoro del minatore, dove davanti ad un abbondante terrina di polenta taragna o un plateau di tome della valle con miele di castagno, potrete valutare le difficoltà della vita d’altri tempi.

domenica 23 agosto 2009

Chaberton!


Adesso basta! Non ce la faccio più; tutto questo va al di sopra delle mie possibilità di resistenza fisica. E teniamo conto anche del fatto che sono convalescente! Il problema è che il gruppo di sodali dai quali sono circondato, sono delle vere e proprie macchine da guerra e hanno trasformato questa vacanza estiva in un vero e proprio tour de force, una gara di resistenza fisica volta alla conquista di tutte le cime (e non solo) che circondano questo sventurato paese. In poco più di un mese oltre 15 mete conquistate a furia di gambe e sfinimenti. Sta di fatto che, a quantità industriali di calorie spese debbono corrispondere altrettante necessità di recupero delle calorie medesime ed a me che non partecipo (quasi) mai alla prima fase, pare brutto astenermi anche dalla seconda; non voglio essere giudicato un asociale, quindi obtorto collo, mi aggrego alle cene che seguono con metodica cadenza le imprese scalatorie. Ieri era in programma una cima impegnativa, lo Chaberton, punto chiave della linea di difesa tra Italia e Francia in tempi passati, oggi testimone di un’epoca che non c’è più, ma tuttavia, meta impegnativa per gambe provate da tante precedenti imprese; diciamo quasi cinque ore per raggiungere la vetta dove consumare i consueti formaggini, tra lo spirare dei venti. Io stesso, che ho mantenuto occupato il tavolino alla Rosa Rossa, per non perdere la prelazione, mi sono sentito affaticato ripassando mentalmente l’itinerario. Certo che poi alla sera bisogna recuperare le energie, quindi tutti a casa degli amici carissimi, che non contenti di essersi sciroppati la giornata di sport, ci hanno preparato un menù a dir poco strepitoso (non è chiaro come abbiano fatto, ma io, sebbene appostato, non ho visto nessun incaricato di catering che se la svignasse dal retro). Il salto del tappo della vedova Clicquot, ci ha reso partecipi di un Kir royale impreziosito da relativa fogliolina di menta ed ha aperto la strada al delirio di hors-d’oeuvres, iniziati con le sottili fette di una coppa stagionatissima, olive taggiasche e cetriolini, seguite da un tourbillon di crostoncini con patè di cinghiale della Maremma, di olive nere, di olive verdi con riccioli di robiola, di crema di pomodori secchi e di bocconcini di salmone, formaggio ed erba cipollina. Per poter fare onore abbiamo dovuto raddoppiare la dose di Kir, prima di attaccare un cestello di radicchio ripieno di mazzancolle in salsa aurora al Remy Martin. Qui è entrato in scena uno Chambave Muscat della Valle d’Aosta di notevole spessore, che ha dato, a me che non lo conoscevo se non di fama, sensazioni difficili da dimenticare. Un bouquet aromatico affascinante che lascia spazio a sensazioni gustative che sembrano essere state appositamente create per unirsi al crostaceo in un abbraccio stravolgente. Ne sono ancora scosso al solo pensiero! Dal forno sono quindi emerse delle deliziose Croques Madame la cui dorata crosticina di formaggio delle valli nascondevano l’insidia di una temperatura al calor bianco, subito lenita dal vino di cui sopra. A questo punto la cena ha potuto aprirsi ufficialmente col piatto denominato: L’alta marea arriva a Fenestrelle, una sontuosa insalata di polpo insaporita da ogni profumo, tra cui spiccava, a ricordo di una gita precedente, il timo serpillo raccolto sulle ripide balze della Fionière. Ma non è certo finita qui; come accompagnato da un rullo di sonorità maghrebine e mediorientali ecco arrivare il Profumo di Libano, il Tabouré, un freschissimo piatto estivo felicità dei vegetariani, dove l’incontro ardito con un Brunello di Montalcino ha aperto la porta di una commistione tra culture diverse. Come nell’antica tradizione piemontese, la Pausa di velluto, una delicatissima passata di porri, ha dato fiato col suo tepore morbido a corpi esausti ma non domi, per prepararli al gran finale. Uno Chaberton gateau, preparato per l’occasione, con incorporata fotografia su ostia non consacrata della montagna ormai vinta, ha trovato posto con l’aiuto di una malvasia passita di alta classe negli stomaci non ancora completi, assieme al più tradizionale e delizioso bounèt piemontese, che ha segnato la chiusura delle danze, bagnato da un sorprendente rum nicaragueño invecchiato Flor de Caña, che per essere compreso, ha dovuto essere assaggiato diverse volte. Oggi ho un leggero mal di testa, per cui ho avuto un pranzo estremamente misurato. D’altra parte devo anche pensare a stasera; ci attende un’ordalia di melanzane alla parmigiana.

sabato 22 agosto 2009

Monginevro o Moncenisio?



Probabilmente fu un bel dilemma per quel poveraccio di Annibale, clandestino maghrebino che con la solita compagnia di immigrati irregolari tentò di conquistare un posto al sole nella ricca Europa, che già a quel tempo evidentemente faceva gola ai tunisini di Cartago. Dopo essersi fatto tutta la strada, traghettando dalle parti di Gibilterra, attraverso Spagna e Francia meridionale (allora la via libica non era di moda), doveva scegliere un punto poco frequentato dove passare. Anche se allora non c’era Schengen, le Alpi non dovevano essere molto presidiate; comunque scartò subito la Liguria, evidentemente anche a quei tempi, il trattamento che sulla riviera di Levante e di Ponente si riservava ai turisti, era ben conosciuto e non avendovi un alloggetto opportunamente acquistato nei primi anni sessanta, vi rinunciò senza pensarci troppo. Rimanevano Moncenisio o Monginevro, due colli abbastanza tosti all’epoca, tenuto conto che le strade non erano asfaltate e gli elefanti mica sono muli. Poi una volta arrivato in val di Susa sarebbe stata una passeggiata fino a Torino per farsi una serata ai murazzi. In realtà per lo sballo lui e i suoi soci scelsero Capua, un po’ più in giù e da quelle parti doveva girare roba da stenderti a giudicare da come andò a finire. Però deve essere stato un bel busillis decidere di fronte ai due colli, anche se qualche amico che stava già in Italia da un po’ gli avrà dato qualche suggerimento. Comunque io tra la salita piuttosto aspra e credo non proprio agevole dal lato francese, con conseguente discesa vertiginosa verso Cesana dal Monginevro e la strada forse un po’ più lunga del Moncenisio, ma più larga e panoramica, avrei scelto la seconda. Intanto mi dà l’impressione che si veda meglio dove vai a parare e l’elefante è bestia dubbiosa, si fida poco del tizio che gli sta seduto in testa a dargli bastonate, va un po’ dove gli sembra meglio mettere gli zamponi senza volare giù come un babbaleo. Poi se vogliamo metterla anche dal punto di vista turistico, anche il lago è un gran bel colpo d’occhio; va bene che allora non c’era, ma credo che una bella sosta in zona appena passato il colle, valesse la pena anche durante le guerre puniche. Poi ci sono anche da considerare i fantastici affreschi dell’abbazia della Novalesa, qualche kilometro più a valle. Sì anche quelli allora non si potevano vedere, ma tanto non li abbiamo visti neanche noi dato che giovedì era l’unico giorno di chiusura e l’unica attività concessa era l’acquisto dell’elisir delle monache. Però una cosa, di certo non se la sarà persa, perché è un po’ un obbligo passando da queste parti e mi riferisco alla Trota Fario del Moncenisio, una squisitezza che avrà lenito la dura fatica della conquista del colle. Consiglio in ogni caso, chiunque passi da queste parti, di non lasciarsela sfuggire (nuota veloce, ma ci sarà chi pensa a farvela trovare nel piatto). C’è un piacevole ristorante quassù, con vetrata panoramica vista lago, dove ad un prezzo onesto potrete gustare questo simpatico animale ammirando il panorama dello specchio turchese che si stende davanti a voi. Dalla foto che, se la chiavetta TIM malefica, mi consentirà di allegare in calce, noterete le rosee e sode carni del sunnominato salmonide a cui le mandorle aggiungono morbida saporosità e accompagnato da una montagna di frites. Il kyr di aperitivo non ve la farà bastare, potrete quindi completare la sosta con la più classica mousse au chocolat o meglio, dato che siamo in zona, degustare una assiette de fromages, dove con saporose tome locali, non mancherà il vanto del colle, un Bleu del Moncenisio, morbido e delicato che meriterebbe un calice di Sauternes. Quel birbantone di Annibale non se lo sarà fatto mancare certamente, d’altra parte al passaggio aveva messo la Francia a ferro e fuoco, qualche cosa avrà razziato certamente, mica si sarà portato da casa solo le banane per gli elefanti o i formaggini, come quelli che mangiano tristemente i poveri camperisti nel parcheggio!

venerdì 21 agosto 2009

Conoscenze linguistiche.

Sono sempre stato morbosamente attratto dalla capacità che hanno alcuni nell’apprendimento delle lingue, forse perché mi ha sempre affascinato capire i tortuosi percorsi logici degli idiomi, spesso così comuni tra di loro, spesso così lontani e diversi. Che bello poter essere un poliglotta, capire con facilità le persone che incontri per il mondo, poter far passare i tuoi concetti a chi ti è tanto lontano per cultura e mentalità. Certo è per questo che mi sono avvicinato, per curiosità e interesse a tutte le forme linguistiche a cui ho avuto occasione di passare accanto, per caso o per scelta, cercando di penetrarne, almeno superficialmente i segreti ed i punti di comunione. Purtroppo, per incapacità genetica o per pigrizia innata, non sono mai andato oltre a conoscenze molto superficiali, che non mi permettono di esprimermi bene in nessuna delle lingue di cui mi sono interessato (per la verità neppure in italiano, come dicono alcuni miei detrattori e come avranno spesso avuto modo di notare i miei 25 lettori), fedele anche alla mia filosofia tuttologica che è meglio fare tante cose male piuttosto che conoscerne una a fondo alla perfezione. Però ho sempre ammirato gli affabulatori linguistici come il mio amico Ferox che intorta i suoi ascoltatori in russo o cinese indifferentemente oltre ad un altro paio di idiomi, ma, in questo caldo pomeriggio d’estate, questo mi porta a ricordare un tiepido marzo in Crimea, terra di storia antica anche se un poco decaduta, quando conobbi un certo R. un commerciale di lungo corso che aveva battuto per oltre tre decenni le terre dell’Unione Sovietica in lungo ed in largo. Era costui dipendente di una ditta di trading che vendeva impianti di vario tipo e ci eravamo trovati a collaborare casualmente, nel tentativo di fornitura di una fabbrichetta di gelati nella neonata Ukraina dalle parti di Sinferopoli. Poiché una serie di manifesti sparsi per la città, mettevano in guardia circa una epidemia di colera che, a quanto sembrava, stava imperversando in città, ce ne stavamo rintanati in albergo a mettere a punto l’offerta, ma come capita nei momenti di rilassamento, prese a raccontarmi un po’ delle sue esperienze. Io che avevo tutto da imparare di quel mondo, lo ascoltavo rapito. Rimpiangeva soprattutto di non essere più giovane, per poter cogliere tutte le opportunità che quel mondo in rapido mutamento sembrava offrire. Con poche migliaia di dollari avrebbe comprato un impianto usato per fare ghiaccioli e avrebbe voluto iniziare un business vicino a Yalta, luogo ideale che si apriva al turismo interno. Scoprii che il costo del ghiacciolo è costituito quasi tutto dal bastoncino di legno che lo sostiene, circa 1 lira, tutto il resto mirabolanti guadagni; già si vedeva con uno stuolo di ragazzini alle dipendenze,con un contenitore pieno di ghiaccioli appeso al collo, da mandare in giro per le spiagge ed i luoghi di villeggiatura, i cosiddetti Sanatorji, e poi forniture ad alberghi, bar, insomma soldi a palate. Mi raccontava anche, con dovizia di particolari i modi con cui prendere i russi e le russe; lui grande bevitore aveva dimostrato la sua resistenza alla vodka, scolandosene più volte un boccale da birra, suscitando in questo modo sconfinata ammirazione nei futuri clienti che valutando la prestazione, avevano poi, prontamente firmato il contratto. Conoscevo anch’io l’importanza della convivialità nei rapporti d’affari laggiù, ma ero comunque convinto che la parte fondamentale fosse giocata anche dalla simpatia personale e dalla capacità di chiacchiera del soggetto, per cui gli espressi la mia invidia per come certamente, attraverso tutti quegli anni di permanenza, avesse ormai una padronanza perfetta delle sfumature della lingua russa che gli potevano permettere valutazioni fondamentali nelle trattative. Mi squadrò in tralice dal basso, essendo piuttosto piccolino seppur corpulento (come lo definiva Zhenjia) e poi mi disse in tono definitivo: - Dopo trenta anni di Russia, so dire solo buon giorno, buona sera e togliti le mutande, le uniche cose che servono in questo paese.- Sarà anche per questo che non ho poi molto approfondito neanche il russo, che pure è una lingua così affascinante. Un’altra occasione perduta, mentre me ne sto qui, in un bar di montagna, a succhiare un ghiacciolo alla cola e mi sembra di ricordare che, secondo R. sarebbe stato uno dei gusti più richiesti dalle signore del luogo.

mercoledì 19 agosto 2009

Affidabilità.

Avere un camper dà una sensazione di grande libertà. In effetti mi manca un po’ quella possibilità di decidere sul momento dove andare, cambiare destinazione o luogo dove fermarsi a seconda dell’umore del momento o della piacevolezza del luogo. Certo in una mia vita precedente ero nomade ed il gusto mi è rimasto. Il primo camper che ho avuto era un Fiat 238 attrezzato Camo, come dire Anonimous, un usato di vent’anni piuttosto spartano. Poco pratico del mezzo e della tecnica del camperista, volendo sperimentarlo, andando come prima uscita a capo Nord, una meta classica, lo portai vicino a casa, da un cosiddetto mago dei camper di cui per amor di patria non faccio il nome. Volevo che gli desse una guardata, magari mettendo a posto le eventuali magagne che il mio occhio inesperto non avevano saputo valutare al momento dell’acquisto e che mi mettessero in grado di partire tranquillo per il grande Nord. Seduto su una seggiola da campeggio sbrindellata, circondato da una fila di camper nuovi di zecca in vendita ed in affitto, da far sognare un emiro in vacanza con le 18 mogli, alzò gli occhiali da sole sulla testa, si alzò lentamente, dette un’occhiata di traverso al mio gioiello, si aggiustò il pacco e pronunciò una frase che rimase celebre nella mia memoria negli anni futuri. “Mé, anc’on s’afari lé, a vag nonca fin al Mandrogn” (per chi deve preparasi ai futuri esami necessari per avere la residenza da noi potrà servire come esercizio quindi traduco: -Io, con quell’affare lì, non vado neanche fino a Mandrogne-, noto paese della provincia di Alessandria, distante 3 km dal luogo del consulto). E se ne andò nell’ufficio vicino, senza aggiungere altro. Scornato, ma non domo, me ne tornai a casa; il giorno dopo caricammo il mezzo di tutto punto, pieno di gas e benzina, acqua e cambusa e partimmo all’indomani verso le 6 di mattina. La prima tappa fu la costa svedese 36 ore e 1800 km dopo, in un bel campeggio nel bosco. Devo dire che alla prima prova, il misconosciuto e zingaresco mezzo non aveva battuto ciglio. Proseguimmo per la costa norvegese, divertendoci come non mai. Incontrammo altri camperisti, come capita lungo la strada. Si dorme vicini, si fa comunella, ci si scambiano esperienze. Certo tutti guardavano con sufficienza il mio topolone grigio, ma tra camperisti c’è più complicità e nessuno ci derise; piuttosto erano tutti prodighi di consigli nel caso avessimo incontrato difficoltà tecniche o meccaniche prima di raggiungere la meta. In particolare una coppia di fiorentini di lunga esperienza, alla guida di un imperiale Hymermobil Mercedes, di sette metri, con ogni comodità che potessi immaginare nella mia mente di neofita, ci fu molto vicina e facemmo un bel tratto di strada insieme. Li lasciammo andare avanti perché volevano arrivare velocemente a capo Nord, ma attrezzatissimi com’erano ci lasciarono un dettagliato elenco di posti a cui rivolgerci in caso di rotture, default meccanici, insomma necessità varie. Noi ce la prendemmo con calma, procedendo prima alle isole Lofoten, una vera meraviglia naturalistica, prima di andare ancora verso nord per gustarci il sole di mezzanotte negli ultimi giorni utili. Invece inopinatamente, ritrovammo i nostri amici ad un migliaio di kilometri dal capo. Avevano rotto irrimediabilmente la frizione; mezzo bloccato fino all’arrivo del pezzo da Oslo. Erano molto nervosi e sapemmo poi al rientro in Italia che non erano riusciti a raggiungere la meta, ma se ne erano tornati lemme lemme a Firenze. Noi procedemmo di conserva, gustandoci l’estrema appendice dell’Europa, anche se con un cielo un po’ rannuvolato, poi scendemmo tutta la Finlandia con uno slalom tra i laghi, la Russia allora misteriosa, l’Estonia, prima di tornarcene a casa sani e salvi dopo 11.000 km in un mesetto. Lo tenemmo per cinque anni il topone grigio e ci portò in ventidue paesi, fino in fondo al Marocco, dove una sbarra dice che più a sud non ti lasciano andare e non si bucò mai nemmeno una gomma, mai un problema, mai una lira spesa da un meccanico. Anni dopo, mi comprai anch’io un Hymermobil, non era spaziale come quello dei fiorentini, ma era sempre l’università dei camper. Ad ogni viaggio ebbi un problema meccanico grave, pompa dell’acqua, cardano dell’albero motore, coppa dell’olio e così via cantando. Per fortuna se lo portò via l’alluvione del ’94 se no non avrei proprio saputo come liberarmene.

domenica 16 agosto 2009

Forte Moutin


E’ una costante storica. In ogni tempo a qualcuno è venuto in mente di fondare imperi millenari, armi che non possono essere fermate, fortezze che non possono essere espugnate, invincibile, difese invalicabili da costruire a prezzo di fatiche e sacrifici (altrui) per poter essere difesi dal nemico feroce. Ci sono esempi in tutte le epoche e in tutte le latitudini. Il destino di queste opere è stato identico, sempre, a testimonianza di quanto gli sforzi per realizzarle sia stato utile. Ne abbiamo un ennesimo esempio anche in questa valle. Nel corso del 1600 si sentì, incommensurabile, il bisogno di costruire un’opera di difesa invalicabile. Chissà come fu sentita questa decisione dai valligiani del tempo, strappati ai pascoli e alle povere colture dei campi faticosamente terrazzati nei secoli, per effettuare chissà quali lavori di corvé. Così prese corpo l’idea di erigere, su disegno dell'architetto Vauban, un forte inespugnabile sulla riva destra del Chisone che avrebbe chiuso la valle ad ogni tentativo di invasione da parte dei Duchi di Savoia che diventavano sempre più aggressivi a quel tempo. Il forte Moutin, così fu battezzata l’opera, crebbe a poco a poco, occupando tutto il fianco della vallata con spesse mura, pronto ad opporsi all’invasore che sarebbe arrivato chissà quando dalla pianura. Finalmente anche a questa Fortezza Bastiani venne il momento di provare la sua potenza. Vittorio Amedeo, all’inizio del 1700, pose l’assedio alla città di Fenestrelle e si trovò davanti all’insormontabile ostacolo costituito dall’ormai consolidato forte Moutin. Una bella rogna. Fu dunque portato un cannone sulla sovrastante Ridotta dell’Andour, una altura che domina il vicino crinale ed il primo colpo sparato centrò la polveriera che saltò in aria con tutto l’ambaradan, Il Forte, semidistrutto, si arrese immantinente con tutta la sua guarnigione. Per capire se la lezione fu di qualche utilità, basta considerare che dopo pochissimo iniziarono i lavori per costruire l’attuale forte di Fenestrelle, la cosiddetta grande muraglia piemontese, sull’altro versante della montagna, naturalmente girato nella direzione opposta, nuova difesa invalicabile contro il nemico, blablabla. Nessun insegnamento, nessuno che apprende qualcosa dagli errori del passato, nessuno si rende conto che gli eserciti passano, distruggono, gli eroi si immolano ed alla fine rimangono sempre e solo gli agricoltori a moltiplicarsi sulle rovine e a tramandare la loro discendenza. Oggi ti puoi aggirare lungo il fianco della montagna, camminando per ore in questo groviglio di vegetazione e dappertutto troverai ancora, tra un gruppo di alberi, tra i cespugli più spessi, tra i rovi più spinosi le rovine del vecchio forte Moutin ingoiate dalla pineta o sepolte parzialmente dai detriti della montagna. Non è una atmosfera tropicale, ma passeggiare su questi sentieri impervi non è molto dissimile, sotto molti aspetti emozionante, dalla ricerca delle tante ciudad perdidas della mesoamerica, una Tikal nostrana, una Palenque de noantri, nel tentativo di incontrare un Pakal sconsolato, fiero come tutti i guerrieri, gabbato come sempre dai contadini che fingevano di temerlo.

sabato 15 agosto 2009

Cronache di Surakhis 19: L'asta.

Paularius era soddisfatto; ormai, secondo le disposizioni che aveva dato, tutta la città era tappezzata di manifesti che illustravano l’ordinanza galattica dell’Imperatore crisocrinito recante i punti fondanti circa l’obbligo assoluto di visione ottimistica dell’economia, unico sistema per uscire finalmente dalla crisi. Lui stesso aveva riaperto la miniera, anche se la richiesta di pietra di Baum era scesa a livelli storici, ma contava che le perdite gli sarebbero servite per compensare le tasse evase con il cosiddetto giavellotto fiscale, l’ultima trovata di Twoseas per sistemare le fortune giacenti sulle galassie esterne. Il controllo tele psichico dell’ottimismo, avrebbe convinto anche i più renitenti; in ogni caso, il colpo vincente era stata l’istituzione delle aste obbligatorie per incentivare i consumi planetari. Paularius, grazie alla sua vicinanza all’Imperatore, della cui villa su Surakhis era assiduo frequentatore e fornitore di ancelle tuttofare, aveva ottenuto l’appalto delle sale d’asta ed anche la maggior parte dei Banditori erano suoi dipendenti. Li aveva scelti con cura tra gli psicomentalidi di Capella III, che erano anche quasi tutti megalopenici, quindi con accessorie capacità di convincimento; comunque amava frequentare le aste a sorpresa, di tanto in tanto per verificare come andavano gli affari e anche per dovere sociale. Così per spostarsi da un punto all’altro della città, aveva anche preso, grazie agli incentivi ecologici, una nuovissima auto a merda, che, con l’uso di combustibile ecocompatibile, aveva anche gli opportuni permessi per l’uso dei parcheggi interni. Certo c’era il problema dell’odore, ma la commissione dei Teobio l’avevano approvata e la puzza era stata giudicata estremamente naturale e soprattutto non di sintesi kimica. Entrò nella grande sala d’aste togliendosi il tappanaso e salutando le guardie con un cenno. Sorrise a tutti quelli che incontrava per spargere ottimismo ad ogni passo e si sedette in fondo per non dare nell’occhio anche se tutti lo avevano notato. Nella sala si affollavano cittadini di ogni razza e ceto, d’altra parte le disposizioni erano chiare e la mancata partecipazione conduceva diritti alla lista di attesa per l’espianto di organi non vitali. Certo le disposizioni valevano solo per i Keepintheass, ma si vedeva qua e là anche qualche Put caduto in disgrazia che generalmente stava in fondo, evitando con cura di mescolarsi agli altri. Il Banditore, che aveva già piazzato centinaia di lotti e continuava a forzare la mano alla sala, aveva visto con la coda dell’occhio l’ingresso di Paularius e non voleva perdere l’occasione di mettere in evidenza le sue doti. Mise quindi sul piatto un set di 24 camicie in plastica trasparente, il cui prezzo partiva da 280 crediti. Erano una vera schifezza e si vedeva da lontano che alcune mancavano anche dei bottoni: i Consumatores chinavano gli occhi senza mostrare interesse alle descrizioni mirabolanti del Banditore che enumerava i vantaggi dell’offerta, tra cui pagamenti a 250 anni con interessi moderati e buoni premio per partecipare alla lotteria che metteva in palio un ambitissimo invito nella villa dell’Imperatore, ma la gara non sembrava partire, nonostante gli stimoli. In un angolo, scomodamente appollaiato su un sedile incongruo per la sua razza, stava un polipoide di Rigel, tenendosi in equilibrio con il tentacolo maestro al bordo della sedia. Il Banditore lo aggredì direttamente puntandolo con un segnalatore laser. “Lei non ha ancora comperato niente! Crede di venire qui a prenderci in giro?”. Il polipoide tentò una disperata difesa affermando che le camicie non erano adatte alla sua razza a causa degli otto tentacoli, difficili da fare uscire dalle due maniche, tra l’altro un po’ strette, che la taglia non era XXXL e che nell’asta precedente aveva già impegnato gli stipendi dei tre nipoti per acquistare una partita di gondole da salotto per tutta la famiglia, ma il Banditore non mollava la presa, rintuzzò facilmente ogni tentativo di difesa e gli propose l’impegno sugli organi dei pronipoti. Paularius se la godeva, voleva proprio vedere come se la sarebbe cavata il Banditore, che a questo punto ne fece una questione di principio e assalì il Polipoide con sarcasmo: “Bravo, continui pure a diffondere pessimismo, continui pure a non consumare, ce ne siamo accorti tutti di che tipo è lei, un nemico dell’Impero, un Negativo, forse addirittura – e qui lasciò con mestiere per un attimo una pausa di sospensione – non sarà mica un Risparmiatore!” . Pronunciò la frase senza interrogazione, ma come una accusa decisa; il brusio nella sala si fermò completamente; attorno al Polipoide si fece il vuoto, i vicini si scostarono mentre gli sguardi di tutti lo esaminavano con disgusto. “La gente come lei sono la rovina dell’Impero, ma sappiamo come intervenire”. Ad un suo cenno entrarono i Sardar che, afferrato il malcapitato per i tentacoli lo trascinarono fuori dove attendevano le ambulanze del centro espianti, mentre sbatteva invano il becco per biascicare le sue ultime scusanti. L’asta proseguì senza ulteriori perdite di tempo e le camicie furono aggiudicate dopo una interminabile gara di rilanci continui ad un Tetrorchide di Arturo che aveva tatuato sulla schiena lo slogan dell’imperatore “Consumate con ottimismo” in caratteri neogotici. Paularius se ne andò dopo un poco, soddisfatto; l’auto si avviò piano lungo il viale che lo portava verso casa. Lontano, all’orizzonte, le Colline Profumate erano avvolte dalla nebbiolina beige che le alte ciminiere delle centrali a merda spargevano ecologicamente nella valle.

venerdì 14 agosto 2009

Formaggi e medicine.


Ancora due passi per tenere caldi i muscoli, ieri è toccato alla Val Clarée, una bella vallata alpina, quasi rettilinea, che corre parallela al confine italiano. Un lungo sentiero con una pendenza dolce alla portata anche di quelli che, come me comminano solo dietro costrizione o minaccia. La giornata è magnifica, il sole forte e neanche una nuvola. Si cammina quasi al fianco del torrente in un saliscendi tra i pini che incorniciano le montagne circostanti. Belle montagne, un po’ insolite per le Alpi Cozie che ci abituano a severi e corposi massicci scuri. Qui invece bianche e dirupate, quasi dolomitiche si direbbe, che lasciano libere vette diritte e pareti verticali con grandi coni detritici alla base. Chiacchierando si arriva facilmente al circo finale che chiude la valle, dove il torrente non è che un rivo che si fa strada a fatica tra i prati ed i pascoli. In fondo in posizione dominante, il rifugio è una buona meta per chi si accontenta di godere del panorama splendido di tutta la valle dalla sua terrazza. Aiuta naturalmente a rasserenare l’animo per chi lamenta comunque la fatica del cammino, un fresco kir al cassis e una buona fetta di torta ai mirtilli o al cioccolato. Le calorie se ne vanno facilmente camminando, non si vuole avere a fine giornata un bilancio troppo negativo. Dunque il lento ritorno dall’altro versante, tanto per cambiare punto di vista. Poi il ritorno, con una diversa chiave di lettura. Già che siamo sulla strada, si impone una fermata a Briançon, sempre piacevole, sempre divertente, soprattutto perché la meta principale non è certo la fortezza, ben conosciuta dopo tanti anni e tante soste, né i suoi graziosi ristorantini lungo la salita principale che offrono tartiflette, bourguignonne e raclette, ma il famigerato centro commerciale dove fare strage di formaggi ed altre peculiarità francesi. Così avanti tra un crescendo di Saint Felicien, Saint Marcellin, Chèvre blanc, Brie de Maux (delizioso), Mont d’Or, Compté (18 mesi) e Camembert e va già bene che non abbiamo bambini piccoli per cui scartiamo gli scaffali del latte in polvere; piene le sporte e poi via alla farmacia dove tutti i farmaci costano la metà, Aspirina, Maalox, Lasonil, Voltaren e chi più ne ha più ne metta. E dire che quest’anno ci hanno fregati, anche l’alcool (per fare il genepì) costava la metà, ma visto che compravamo quantità industriali, da quest’anno S. deve aver suggerito a Sarkò di farsi furbo e in farmacia ci sono solo più le confezioni da 50 cc. Ma chissà perché i medicinali in Italia costano il doppio? E’ una vera orgia di acquisto, però più di tanto non si può. Quasi quasi è un vero peccato non essere malati.

giovedì 13 agosto 2009

Stella cadente.

I meccanismi della mente umana sono strani ed insondabili. Ma cosa può condurre un gruppetto di ultrasessantenni bisognosi di riposo dopo una giornata di dura camminata a riprendere le auto e salire in montagna a guardare le stelle cadenti? Ricerca del tempo perduto? Nostalgie un po’ fané di un passato lontano? Voglia di passare una serata all’aria aperta? Chissà. Il fatto è che ieri sera, memori del fatto che, come da cronache estive (non ci sono molte notizie in agosto oltre le vacanze del Certosino e un po’ di mogli ammazzate da coniugi nervosi), tra qualche decennio non ce ne sarà più traccia (abbiamo finito anche queste assieme al petrolio), saliamo in macchina attrezzati di tutto punto e via fino al Colle delle Finestre, punto d’eccellenza per avere una bella visione notturna. A nulla vale l’osservazione dei più concreti, che tutto il cielo era completamente coperto da una spessa nuvolaglia nera, ma come ci viene consigliato ogni giorno, prevale l’ottimismo e si va con qualunque tempo, alla faccia di Italia-Svizzera che comunque è un’amichevole estiva. Si sale pian piano e miracolo, le nubi si squarciano e quando arriviamo a Pian dell’Alpe, una stellata imperiale occupa tutto il cielo visibile tra le montagne. Alla luce incerta delle pile cerchiamo spazio in un prato evitando, se possibile di calpestare quanto il suono di allegri campanacci bovini che ci circonda, promette essere sparso qua e là per intrappolare gli incauti che si affidino alla scarsa luce del plein air. Si stendono i teli a terra, poi, imbacuccati per resistere al gelo che sale, tutti stesi a terra a pancia in su con lo sguardo a nord-est. Il grande carro tramonta a poco a poco dietro la montagna, mentre la grande doppia W di Cassiopea sorge dal varco del colle, la lunga striscia della Via Lattea attraversa tutto il nero del cielo. Sono quasi le 23, l’ora più propizia, infatti mentre gli occhi si abituano all’oscurità, ecco che lo sciame delle Perseidi comincia a fare il suo lavoro, solcando l’oscurità con strisce diritte e leggere. Sarà pure che la Hack non ci trova più niente di interessante, ma quell’attesa silenziosa dell’attimo fuggente, quel ohh di meraviglia trattenuta quando la riga luminosa attraversa tutto il cielo e subito scompare senza lasciarti il tempo di respirare, di completare il pensiero, di formulare il desiderio represso, quell’abbraccio in cui la tua ragazza si stringe a te per ripararsi dal freddo pungente, io, questi scampoli di emozioni, pur piccoli, non li butterei via così facilmente come la pelle del salame. C’è rimasto anche il tempo per stappare una bottiglia di champagne per festeggiare degnamente un compleanno in quota. Semplici sì, ma noblesse oblige. Poi quando il quarto di luna ha cominciato a far capolino dietro la grande massa scura del Pelvo, ci siamo alzati, intirizziti e contenti, per tornare a valle, domani sveglia alle 6:30, ci aspetta una lunga marcia al Sommellier. Sereni i più, qualcuno forse deluso perché le Perseidi sono così rapide, attraversano il cielo, il pensiero ed il desiderio in un attimo, non ti lasciano neanche il tempo di pronunciare per intero la parola Superenalotto, pazienza.

martedì 11 agosto 2009

Cronache di Surakhis 18: Keep e Put

E’ sempre stata una questione ontologica; fin dalla notte dei tempi sono esistite tra i viventi due categorie kantiane, assolute, separate da una barriera invalicabile; poi con il passare dei millenni ciò che era scritto nel libro della natura si è andato istituzionalizzando e si sono così formate, migliaia di anni fa le due CRU (caste riconosciute ufficialmente), quella dei Keepintheass, la più numerosa, popolata e caciarona, e quella dei Putintheass, elitaria, quasi nobile, a cui non si accede specificamente per censo, nascita o merito, anche se questo aiuta assai, ma più per inclinazione naturale, per dote innata. Transitare da una casta all’altra è quasi impossibile anche se molti lo tentano invano, la propria natura ti risucchia inevitabilmente come in un magma denso e puzzolente. I Put (così sono chiamati per brevità) sono in generale forti e potenti e con questa loro forza possono permettersi di essere liberal, aperti e generosi, tanto poi spetta a loro dettare le regole della partita a carte distribuite, mentre i Keep sono brutti, sporchi e cattivi, sono deboli e poco capaci, timorosi che anche quel poco che hanno sia loro tolto; così sono facilmente e giustamente manipolabili dall’altra casta che sfruttando queste loro debolezze porta a compimento l’unica relazione esistente tra le due caste. Così sempre temendo, sono razzisti, malevoli ed egoisti, ricettacolo di tutte le nequizie, vivono decentemente solo in quegli angoli della galassia popolati prevalentemente da criptopenici. Paularius, Put da innumerevoli generazioni, era un po’ preoccupato per la quotidiana rogna che la sua posizione di presidente dei proprietari minerari gli imponeva quel giorno. Era già svanita la serenità, tipica di chi fa il proprio dovere, che gli aveva dato la serata precedente trascorsa con gli i ragazzi della Gilda delle Zilionny Rubachky, in ronda in città, dove avevano scovato un gruppetto di Andromediani clandestini in un sottoscala, dando loro la lezione che si meritavano e che d’altra parte la legge prevedeva. Anche se uno dei suoi, un piccolo Megalopenico di Antares II si era tolto delle belle soddisfazioni e se prima di tornare a casa al meritato riposo, se ne erano grigliati un paio, senza neanche mangiarseli tutti, che erano duri e fibrosi da morire, ognuno aveva riguadagnato il letto con i pensieri e il peso morale delle incombenze della giornata successiva. Infatti alle 10:00, Paularius aveva convocato la commissione dei Morigeratores per comunicare l’applicazione rigorosa della nuova legge appena approvata al Parlamento galattico, l’istituzione delle gabbie salariali a tutti i lavoratori delle miniere. Puntualmente, all’ora prevista, si presentarono in quattro, lasciando una lunga scia bavosa sul pavimento di legno pregiato. Erano gasteropodi Keep dell’emisfero Sud e anche se gli furono subito antipatici, cominciando con le solite bavose lamentazioni, li ascoltò con degnazione. Ad un suo cenno della mano cessarono però subito di sproloquiare e Paularius con poche taglienti parole rimarcò i vantaggi che la nuova legge avrebbe portato a tutti i lavoratori, in fondo era stata promulgata nel loro esclusivo interesse. Le Gabbie sarebbero state istallate appena fuori della miniera ed i lavoratori che non avessero mantenuto gli standard produttivi, mensili, s’intende, così chi avesse problemi fisici, poteva tranquillamente recuperare nei giorni successivi, sarebbe stato cosparso di sale e appeso nelle gabbie stesse per dieci giorni, affinché i vapori di cloro dell’aria gli corrodessero almeno parzialmente le appendici, a monito di tutti gli altri che, passando, sarebbero stati correttamente e senza altra coercizione, stimolati ad aumentare la produzione. Le Gabbie salariali erano il futuro dei rapporti di lavoro anche per tutte le altre galassie che guardavano a questa riforma come ad un punto fermo per i rapporti del mondo del lavoro. Uno dei Morigeratores prese la parola ed iniziò una incomprensibile giaculatoria sulla giustizia e sull’uguaglianza tra i viventi. Paularius fece un cenno annoiato e due Sardar lo prelevarono portandolo via di peso, carne buona per li strizzosauri. Gli altri tre si dichiararono moderatamente soddisfatti, anche se vollero inserire nella dichiarazione d’intenti che il loro intervento aveva ridotto la permanenza nelle gabbie di un giorno, in cambio di un prolungamento perpetuo per clandestini e Puzzoni Neri di Rigel. Niente da fare, razzisti e malevoli i Keep, era la loro natura. Paularius li guardò allontanarsi, muovendo i grassi deretani schiumosi e sorrise, lui poteva permettersi la tolleranza e la generosità dell’essere superiore, ma ragionò con tristezza, con oppositori di questo genere, ogni riforma importante diventava una battaglia e un inutile dispendio di energie. Chiamò i servi che con le fiamme ossidriche disinfettassero l’ambiente, poi si distese sui divani morbidi aspettando le escort.

lunedì 10 agosto 2009

Cervo d'agosto.

Questa mattina la pioggia batteva forte sulle lose del tetto, un ticchettio ritmato e gradevole che ti fa venir voglia di rannicchiarti meglio sotto le coperte, girarti dall’altra parte e riprendere il piacevole dormiveglia interrotto. Poi, i pesanti rintocchi del campanile proprio sopra la testa, sono proprio nove, niente da fare, anche nella ripetizione dopo cinque minuti, dicono che forse è meglio tirarsi su. Sulla piazzetta davanti a casa, alla Rosa Rossa, locanda dagli antichi trascorsi, citato anche dal De Amicis, che ha visto fermarsi nelle sue sale re e principi, le brioches si raffreddano ed è meglio non farle aspettare troppo. Assieme al denso marocchino, che qui si ostinano, chissà perché, a chiamare Collino, aprono degnamente la giornata, anche se qualche goccia scende ancora dal cielo che però mostra già un’intenzione di soleggiare. La notte è stata lunga, doveva portare ristoro ad una serata difficile, in cui, con una decina di amici, si doveva onorare uno strepitoso civèt di cervo con la polenta. I cubetti di tenera polpa frollata, avevano riposato per 24 ore in una buona bottiglia di nebbiolo d’Alba, un sereno giacere per il fiero animale di cui avevano fatto parte, assieme ad una mezza cipolla infilzata dei canonici cinque chiodi di garofano, carota e sedano, alloro ed una pioggia di bacche di ginepro. Poi, tre ore di lenta e ragionata cottura, rabboccando del vino rimasto ed un bicchiere di morbido brandy spagnolo per rifinirne l’ubriacatura, lo hanno reso degno del caldo letto di sontuosa polenta che lo attendeva per uno sposalizio di sapori ed aromi. Ne abbiamo mangiato molto per la verità, ma terminatolo, gli infami ventri, già tesi, non sono riusciti a dare regole ragionate alle gole non ancora sazie ed un vascone di altra dorata polenta che ospitava nei suoi meandri segreti almeno una buona metà in volume, di robiole e gorgonzola, sapientemente mescolate, è stato messo in tavola per terminare la funzione. Dolciumi e gelato che , si dice in Piemonte, disnàusia, ci hanno condotti al caffè ed ai distillati per preparare un sonno corposo atto a permettere al corpo di sopportare la sfida. Si dice che la polenta riempia subito, ma che poi sgonfi velocemente. Forse dipende dalla quantità. Una degna serata comunque, come sempre quando la si passa tra amici a chiacchierare amabilmente, a commentare i balli e le musiche occitane ascoltate nel pomeriggio nella festa al Forte, dove si erano alternati due gruppi con mirabili sonorità. Sì, forse da qualche giorno sono un po’ monotematico, ma da queste parti, l’Occitania è un argomento sentito, la gente ci crede, si veste in costume, balla e canta e non mi sembra, che come da altre parti, questo sia un pretesto per scivolare lungo una china sgradevole, che invece di arricchire gli altri con tradizioni passate, ne fa una scusa per incrementare odio e barriere o isolazionismi antistorici. La scritta sulla maglietta di un ragazzo del gruppo “La ramà” (davvero bravi tra l’altro, anche nei semplici suoni acustici a cui li ha obbligati l’inclemenza del tempo) mi ha rallegrato subito, recitando: “Meno ronde e più ghironde”. Mi pare un bello slogan di questi tempi.

domenica 9 agosto 2009

Delfini d'Occitania


Eh sì, in queste vallate c’è un sound particolare, il suono occitano della ghironda che tutto avvolge, che riporta a tempi più antichi, in cui questi spazi erano percorsi da fremiti di lotte religiose, da guerre tra dinastie e nazioni ormai scomparse. Tanti i gruppi che, per la gioia degli amatori suonano nelle serate estive per allietare i balzelli dei ballerini che subito si buttano nello spazio lasciato libero dagli spettatori alle prime note della curenta. Ma c’è gruppo e gruppo; un conto sono gli appassionati, magari anche bravi e gradevoli da sentire, un conto sono i grandi artisti. E qui incontestabilmente, almeno credo, bisogna parlare dei Lou Dalfin che da venticinque anni portano anche al di fuori del territorio, queste note, arricchite dalla loro particolare visione del sound occitano. Strumenti antichi accanto alla ghironda (la viulo della tradizione), alle cornamuse, all’organetto e a tutta una serie di flauti, ma anche bouzaki, chitarre e batteria per aggiungere un colore inevitabilmente rock che non solo non stona affatto, ma arricchisce di forza, ritmo e potenza attrattiva una musica che non lascia insensibili già al primo ascolto. L’altra sera a Miradolo, tre ore senza sosta, dove accanto alle più tradizionali bourrè e farandoule o agli antichi brand de chevaux cinquecenteschi, si sono sentite dolci scottish ed indiavolati rigudùn per terminare con una appassionata Se chanto, l’inno dell’Occitania, seguita in coro da tutti gli spettatori e chiuso da uno strepitoso assolo della chitarra elettrica, vero e proprio tributo a Jimmy Endrix. Difficile anche per chi non ama la musica folk, rimanere insensibili, al di là del fatto che nessun ballerino riesce a tenere ferme le gambe durante queste performances. Il prato dell’agriturismo il Tiglio, che ha ospitato la manifestazione, era tutto un sabba di folli che saltellavano con metodo prima di cadere esausti dopo la mezzanotte. Secondo me da sentire assolutamente se capitano dalle vostre parti; se no dare un’occhiata su Youtube. Sempre a causa della chiavetta non riesco a postare gran ché al di là di una foto del grande Sergio Berardo, l’anima del gruppo.

giovedì 6 agosto 2009

Chapatti, piadine, gofri?

Finalmente invidioso di tutti i blog di cuochi che frequento, ecco un post di cucina. Beh, non esageriamo, però oggi voglio parlarvi di una tipica specialità della Val Chisone, particolarmente interessante perché oltre ad essere una golosità strepitosa è il classico piatto che aiuta la socializzazione e la compagnia. Trattasi del cosiddetto “gofri” che a dire il vero si trova un po’ dappertutto nella terra d’Oc, dalle Alpi ai Pirenei e addirittura dirò che ne avevo trovato di simile in Svezia. Negli Stati Uniti si usa come base dei french toast. Il nome potrebbe arrivare da Wafer (ma qui chiedi l’aiuto di Skakkina) in quanto quello è il criterio e anche l’aspetto. E’ una base neutra come tante nel mondo, dalla pasta della pizza, ai chapatti indiani, alle piadine , ai Nan pakistani e chi più ne ha più ne metta, su cui aggiungere salato o dolce, quindi dal prosciutto crudo alla Nutella, tanto per cambiare. Cosa li rende insuperabili? Il fatto che non se ne possano comprare un certo numero per mangiarli, bisogna farli e via, cotti e mangiati sul posto, belli caldi e farciti, se no subito si ammosciano, diventano molli e inconsistenti, insomma una vera schifezza. Dunque, se non c’è la sagra paesana in valle dove vi rapinano 2,5/ 3 euro dopo un’oretta di coda, c’è solo una soluzione, farseli. E qui casca l’asino, perché la ricetta per la pastella è semplice e gli affettati li vende il salumiere:

· 1 kg di farina

· ½ litro di latte

· 1 litro di acqua (o 1,5 se vi piacciono più croccanti)

· Una bustina di lievito da pizza

· 2 cucchiaini di zucchero

· Sale q.b.

Mescolare bene per evitare grumi e lasciare riposare 3 o 4 orette e la pastella più semplice del mondo è belle che fatta, ma adesso? Bisogna possedere il gofrier, strumento ormai introvabile che consta di un attrezzo bivalve costituito di due cerchi di ghisa sovrapposti e incernierati con la superficie quadrettata, che verranno opportunamente unti con lardo su cui si colerà un mestolino di pastella. Si richiudono i cerchi che sono posti su un attrezzo toroidale da cui emerge una vivissima fiamma di gas che arroventa le superfici esterne. L’attrezzo permette la rotazione a 180° per cui entrambe le superfici riceveranno la giusta dose di calore e dopo 3 o 4 minuti si apre ed ecco che salta fuori il gofri, una cialda rotonda quadrettata di circa 25 cm di diametro, croccante fuori e morbida all’interno, pronta per essere tagliata in due, ripiegata e farcita alla bisogna. Gli amici sono tutto intorno, si chiacchiera, si ride, si beve un sacco di vino nell’attesa e si passa il tempo mentre i gofri vengono via via sfornati e così si passa la sera in compagnia. I miei preferiti sono con il lardo o con la pancetta, ma anche con gorgonzola e miele non sono male. Non aggiungo foto perché questa malefica chiavetta me lo rende difficile, ma fidatevi, ieri sera eravamo in 14 e se ne sono andate almeno 7 od 8 bottiglie, più i distillati ovviamente. Se non li ha fermati la polizia andando a casa, hanno detto che vogliono tornare.

mercoledì 5 agosto 2009

Gamberoni e rambutan.


La montagna favorisce gli incontri. Proprio l’altro ieri, tra le otto persone che circolavano per il paese, ho ritrovato un caro amico, un vecchio commilitone delle scorribande lavorative che un tempo si facevano in giro per il mondo. Come capita di solito tra reduci (anche se lui è tuttora in servizio permanente effettivo) abbiamo rinverdito i cosiddetti bei tempi ed in particolare quella che rimase nota come la ciucca di Bangkok, un tragico episodio a memento di cosa significa il sacrificarsi per l’azienda. Il cliente era un malese importante che ci aveva invitato a cena in un ristorante sull’acqua, noto per il suo servizio di gamberoni alla griglia più simili a grossi conigli d’acqua e i deliziosi gambuta, frutti all’apparenza spinosi ma delicati. Eravamo una decina attorno al tavolo ed il boss manteneva un atteggiamento cordiale ma molto silenzioso, mentre chi teneva banco era il suo direttore generale, un vietnamita magro e piccolo con due sottili fessure al posto degli occhi. Il nostro agente thai, che aveva combinato la serata, ce lo aveva descritto come un ex vietcong che, finita la guerra aveva capito da che parte tirava il vento e si era guadagnato assieme ai meriti politici, una posizione di rilievo negli investimenti malesi in Vietnam. Anche se parlava un fluente inglese e descriveva con proprietà la linea di presse necessaria all’azienda, io non riuscivo a togliermelo dagli occhi mentre strisciava nel sentiero di Ho Chi Min col pugnale tra i denti, a tendere trappole a Rambo. Gli stessi occhi, la stessa piega di sorriso plastico stampata sulla faccia. Notammo subito che la tavola apparecchiata con sfarzo non comprendeva acqua né altri tipi di soft drink, ma solo una decina di bottiglie di whisky Suntory, il brand giapponese onnipresente in Asia. Come in tutte le cene d’affari che si rispettino fu un continuo brindisi a cui non è facile sottrarsi, sollecitati dai vari avventori, in particolare dal viet che, ad ogni istante si alzava proponendo imperitura amicizia tra i popoli e riempiendo i nappi per bisogna, in particolare quello del mio amico che gli era seduto particolarmente vicino e che era quindi sottoposto a particolare pressione. La giornata era stata dura, trascorsa accanto la pressa dimostrativa, montata nei pressi di un campo da golf, a sparare migliaia di tappi tra la meraviglia dei P.C. (probabili clienti); la sera era caldissima; il ghiaccio nei bicchieri tintinnante; il whisky scorreva delicato nelle gole. Arrivò il temuto momento del Karaoke, imprescindibile come il golf, se volete fare affari in oriente. Io e R. ci esibimmo ovviamente in O’ sole mio, d’obbligo per gli italiani in trasferta, il nostro Narupon una delicata canzone orientale, inframmezzata da innumerevoli Kap, il suo tipico intercalare thai, mentre il nostro ospite si esibì in una strappalacrime On my own con il vietcong che faceva da controcanto con gli occhi sempre meno visibili, notai però che, di tanto in tanto ricolmava malignamente il bicchiere del mio amico che era sempre più sotto sforzo. La serata volgeva al termine e dopo i saluti di rito i nostri ospiti ci lasciarono, il viet guardava di sottecchi, scomparendo come lo stregatto con un sorriso sempre più falso. Ci alzammo anche noi o perlomeno tutti cercammo di alzarci, chi più chi meno fermo sulle gambe, ma il mio amico no; era immobile con gli occhi vitrei, come anestetizzato da una freccia avvelenata in una risaia del delta. Tentammo di alzarlo e portarlo a braccia nella toilette approssimativa del ristorante, dove subito si aprirono le cataratte. Quando, rovesciato come un calzino lo deponemmo nel letto, temevamo per la sua pur forte fibra. Come dio vuole la notte passò e il giorno successivo fu in grado di riprendere l’aereo che ci riportava a casa. Non si lasciano prigionieri in mano al nemico.


martedì 4 agosto 2009

Sette colori.

Sono circondato da un gruppo di assatanati amanti della montagna. L’imperativo è raggiungere la vetta, la meta; fatica e sofferenza il mezzo, premio ineguagliabile, l’arrivo, il compimento del progetto, la conquista se pur provvisoria, del luogo raggiunto. Così viene effettuata una lista di gite da svolgere con cadenza almeno trisettimanale nei vari luoghi ameni che ci circondano, preferibilmente al di sopra dei 3000 metri. Rimangono però gli altri giorni da riempire; così ieri, giorno come dire, morto, tra due imprese piuttosto dure, si è pensato di fare una piccola sgambata, tanto per non far raffreddare i muscoli. La meta scelta era il lago dei Sette Colori a cavallo del confine italo- francese. Chi mi conosce, sa che non voglio apparire come il solito bastian contrario asociale, così non mi sono tirato certo indietro di fronte a quella che è considerata una gitarella da pensionati cardiopatici. Le previsioni del tempo erano incerte, ma non ci si può certo trincerare dietro queste scuse, così di buon mattino, gli zaini affardellati venivano caricati sulle macchine e il rombo dei motori copriva il sibilo di un vento teso che portava avanti pesanti nuvole grigie. Lasciate alle spalle Sestriere e Cesana, ci si inoltra su uno sterrato di una decina di km fin sopra Sagnalonga, dove, lasciate le auto, inizia il tragitto. Il sentiero è in lenta salita e non appare molto faticoso almeno per le prime decine di metri. I camminatori, a ben altro abituati, conversano sereni pigolando festosi, mentre ai primi cenni di mutamento nell’angolo di salita, comincia la fatica di chi, non aduso al periglio montano, deve concentrarsi sul duro compito che lo attende. Dopo poco, la respirazione si fa più frequente, affannata, rotta, mentre i polmoni si dilatano il più possibile alla ricerca di quell’ossigeno che sembra mancare, che si muta a poco a poco in un ansimare confuso. I muscoli delle gambe non abituati al compito, cominciano a dare segnali, si fanno più duri e legnosi,meno pronti a sostenere i 100 kg e oltre che vengono obbligati a traslare in un insolito ascendere privo di tregue e di mercede. Lo zaino, che deve contenere tutto quanto prevede l’imprevedibile, comincia a trasformarsi in una insopportabile zavorra che cresce di peso ad ogni passo. Il clima è ostile, come a respingere l’incauto che si è posto in testa di compiere l’impresa e sembra dire, ma perché non te ne sei stato a casa a leggerti un bel libro. Mentre i nuvoloni neri si addensano, il vento gelato spazza la montagna con sibili acuti ed incostanti come per respingerti meglio. Le vesti di cui ci si è abbondantemente ricoperti a difesa del freddo, diventano via via teli da serra, sotto i quali la fatica, trasforma i movimenti in sudore che scorre copioso in rivoli che intridono camicie, felpe e tutti gli altri strati sovrapposti. Sembra che la temperatura, come una febbre maligna ti soffochi, ma non appena pensi di liberarti di uno strato o ti fermi per un istante per allentare la morsa dell’acido lattico sui polpacci, ecco che un’inversione termica istantanea pervade il sistema e ciò che poco prima era umido calore insopportabile diventa sudore gelato che ti avvolge la schiena con dita adunche, che ti morde la spina dorsale promettendoti dolori futuri, facendoti rabbrividire a lungo. Il sentiero sale spietato zigzagando tra valloncini e creste, a volte scendendo un poco, per irriderti e ricordarti che i pochi metri di sollievo saranno ripagati poco dopo per riguadagnare la quota perduta con qualche strappo più duro. Mentre ci si avvicina al colle il vento diventa sempre più violento ed è sofferenza gradita, in quanto, forse, eviterà la pioggia. Sulla cresta che segna il confine, un cartello abbattuto segnala il passaggio, assieme a cumuli di filo spinato arrugginito, ricordo di tempi passati. Ancora uno strappo, poi ecco là, in fondo ad un cono glaciale, tra sponde brulle e grigie, la nostra meta, il lago dei Sette Colori. Una piccola superficie circolare solitaria, grigio piombo che induce a tristi pensieri. Si cade disfatti sul bordo dello stagno immobile, dalla superficie tremolante per le gelide folate che arrivano dalla Francia. Ma i camminatori veri non possono accontentarsi; proprio a fianco li sfida il corto cono della punta Gimond che bisogna immediatamente debellare. In un paio d’ore si va e si viene, mentre chi si è reso disponibile a far da guardia alla fortezza Bastiani dei bagagli abbandonati, si intabarra per resistere al gelo mordicchiando tra una folata e l’altra un formaggino ed una tavoletta di cioccolata, che rimarranno bloccati sullo stomaco a monito perenne. Violata la vetta e riconquistata la sponda del lago, dopo poco ristoro, si riprende la via del ritorno, la discesa, non per questo più lieve della risalita. La fatica si assomma, le punte degli alluci battono contro le scarpe per frenare il peso che scivola, le ginocchia dolgono, i piedi soffrono, gli spallacci dello zaino tagliano le spalle, ma il ritorno ha in sé qualcosa di magico, che sul momento ti fa sentire meno il peso della fatica, perché se ne sente il termine non lontano che premierà il non essere crollato lungo la strada. Le macchine sono ormai in vista, le prime gocce stanno per scendere dal cielo, ma sei quasi arrivato, le giberne allentate, le pezze da piedi quasi sciolte, i capelli incollati alla fronte. Uno sguardo al cielo bigio, prima di lasciarsi andare, inebetito sul sedile amico, la chiave che accende il motore che ti riporterà in salvo, a casa. Così anche questa giornata di riposo è finita, oggi ci sarà una gita vera, per i camminatori veri, al Vallonetto; tu alla base a lenire le ferite.

domenica 2 agosto 2009

Ming


Cade una pioggerella leggera che ha rinfrescato l’aria. Il monaco ha terminato una breve meditazione, poi lentamente si è seduto al tavolo ripiegando le gambe con un colpo secco alla lunga tunica grigia. Ha preso con la mano sinistra il bastoncino di china nera e con un piccolo strumento ne gratta con cura la polvere che cade nella cavità della bella pietra nera da inchiostro sulla cui sommità è scolpito un drago dalla coda ritorta. Esegue questa operazione con cura e con lentezza. Un pensiero all’allievo che si domandava perché lui, maestro calligrafo non lasci questo noioso compito a qualche studente per dedicarsi solo al tratto dei caratteri. Una lieve piega della bocca, un accenno di sorriso. Come può comprendere il Tao, se ancora pone queste domande, se non capisce che anche la ripetitività di una operazione semplice apparentemente ripetitiva è parte del tutto, del compiersi totalizzante del gesto, della riuscita finale, dell’essenza di significato che la pennellata dà a dei semplici segni tracciati sulla carta. Quando l’inchiostro è pronto, si ferma un attimo a contemplare il grande foglio di carta disteso davanti a lui, un vuoto di concetti da riempire di forma. Sposta con cura l’ampia manica della veste. Ha scelto un grande pennello, di pelo di martora morbido e flessibile; lo inumidisce quando basta, permettendo all’inchiostro di permearne gli interstizi, lo solleva appena perché non coli e dopo un attimo di attesa, quasi ad attendere che il concetto fluisca rapido dalla sua mente, attraverso il braccio fino al manico, la mano guida l’attrezzo con colpi netti, quasi fossero leggeri fendenti di pugnale, neri tagli decisi sul biancore abbacinante della preziosa carta fatta a mano. Due brevi tratti verticali e uno orizzontale a completare un piccolo rettangolo, con una chiosa centrale; un attimo di sosta poi un deciso taglio verticale ed un secondo al suo fianco finito di scatto con un colpo deciso del polso a formare un piccolo e grazioso uncino; infine due brevi tratti orizzontali a completare il carattere Ming, formato da due ideogrammi semplici accostati, a sinistra il sole, a destra la luna, stilizzazione della falce appesa nel cielo. Sole più luna, accoppiati, non c’è luce più forte, di qui il significato di Luce, Chiarezza, Illuminazione. Che curioso - pensò il monaco – questo concetto di luce accecante che squarcia le tenebre della notte fisica e psichica, dell’ignoranza, del dubbio, che illumina la mente e la apre definitivamente alla comprensione. Che curiosa la lingua cinese e questo ideogramma, che è anche il nome della penultima dinastia imperiale così amante dell’arte e della bellezza, oggi usato anche in tante parole moderne, che definiscono concetti nuovi e sconosciuti, ma all’interno dei quali vivono gli stessi antichi significati. Unito alla carattere di libro (Ming shū) si ottiene : “Il libro della luce” e lo si trova continuamente allegato a tutti quegli strumenti modernissimi che tanto affascinano le persone più curiose. Niente altro che il libretto di istruzione, quello che molti occidentali aprono solo dopo aver rotto lo strumento di cui cercano di capire il funzionamento maneggiandolo maldestramente senza prima volerlo conoscere, cercare di assorbirne l’essenza. Sorride ancora il monaco pensando a questo, mentre il grande foglio che porta impressa la sua opera finisce di asciugare.

sabato 1 agosto 2009

Ipercinesi gastronomica

Ormai è chiaro e ci sono anche parecchie dimostrazioni scientifiche; se si vuole fare intervenire a qualche evento un numero consistente di persone, non c’è che un modo, dare da mangiare. Arrivano come le mosche, come le cavallette, come le api sul miele, qualunque sia l’occasione, dalla presentazione della prima enciclopedia sulle pantegane, al convegno di psicopatologia suina. Possibilità di nutrimento, come se piovesse e la massa accorre. Ecco il perché del successo di tutta una serie di sagre paesane dove orde di gitanti arrivano spazzolando via tutto quello che gli si propone, dai salamini d’asino, alle rane in umido; tutto quello che come dicono a Canton, si muove o nuota o cresce sopra o sotto terra, si mangia tutto. Fenestrelle è un grazioso paesetto della Val Chisone, quasi spopolato d’inverno, con qualche affezionato di lungo corso nei mesi estivi che si aggira lungo la strada interna del paese guardandosi intorno alla ricerca di un suo simile senziente. Un vero paradiso per chi ama la tranquillità lontana dagli schiamazzi estivi, le passeggiate nei boschi (solitari); ideale per mamme con piccini al seguito da mollare in un prato, per pensionati disgustati dalla calca estiva e dalla opprimente calura della piana. Bene, basta la parola magica, Serata Gastronomica, che la Pro Loco organizza grazie alla buona volontà dei suoi aderenti, qualche manifestino sparso per la valle e il paese diventa una Las Vegas occitana, una Mexico City nell’ora di punta, una Hong Kong sovrappopolata. Già nel tardo pomeriggio code di macchine provenienti dalla lontana pianura e dagli angoli sparsi della valle, intasano la statale alla ricerca di un parcheggio. Già dal giorno prima i preziosi volontari hanno predisposto lunghi gazebi attorno alle aree di produzione dell’offerta culinaria. Verso le 18, le prime avvisaglie di mangiatori, formano code ordinate in prossimità dei punti chiave mangerecci mentre altri famigliari occupano saggiamente le panche predisposte. Le colonne di fumo provenienti dai paioli dove braccia robuste girano grandi bastoni, indicano la strada. In altri punti vengono predisposti vassoi ricolmi di ogni ben di dio, si preparano le casse, si dispongono le offerte. Verso le 19, mentre la folla comincia a rumoreggiare e le code si addensano, si aprono le danze e comincia il sabba. E’ chiaro che la faranno da padrone le specialità della valle. Accanto alla inesauribile polenta e spezzatino (i sacchi di farina gialla accumulati danno certezza agli astanti), ecco un banco che offre acciughe al verde e la glara, una sorta di gateau di patate valligiano; in un attrezzato garage ecco che si sfornano a getto continuo patate salà, altra tipicità della zona, bollite con poca acqua nella pentola con salamino, il cui grasso insaporisce la superficie delle patate stesse rendendole appetitosissime; nella piazzetta formaggi degli alpeggi e “cajette”, sorta di grandi gnocchi di pane e altri ingredienti misteriosi, stillanti burro. Pochi passi ed ecco un altro lungo banco con torte e crostate prodotte dalle operose massaie, infine in fondo al paese la specialità assoluta della valle, i “gofri” o “turtej” , grandi cialde prodotte inserendo una semplice pastella in un apposito strumento bivalve di ghisa quadrettata, arroventata su acconci bracieri, una sorta di antenato del wafer, comune in varie forme in molte zone montane europee, che funge da base per essere opportunamente farcito di pancetta, formaggi o dall’onnipresente Nutella. Nei punti chiave, volenterose orchestrine fornivano la colonna sonora dell’evento. Lungo la strada, chiusa al traffico, solo poche ore prima, completamente deserta, non si riusciva quasi a fendere la folla, che si spostava da un punto all’altro come un onda furiosa, forbendosi i baffi (chi li aveva). Per cacciarli via e farli tornare pieni come otri alle loro case, verso mezzanotte hanno dovuto mostrare che non c’era quasi più niente, che era stato spazzolato tutto il mangiabile. Fuori tutti. Oggi siamo tornati alla normalità. Qualche mamma ai giardinetti, due o tre anziani che a mezzogiorno rientrano al desco, sono sparite anche le tracce del bagordo serotino, forse è stato solo un sogno.

Where I've been - Ancora troppi spazi bianchi!!! Siamo a 114 (a seconda dei calcoli) su 250!