Kostantin Alexandrovich Cerebrov non ce la faceva davvero più. Aveva i suoi anni ormai e da quando era cambiato tutto aveva cominciato ad intristirsi ogni giorno un pochino di più. Era stata come una discesa verso un luogo buio e grigio, sempre più triste e spento, senza una fine certa in fondo al tunnel. Era uno di quegli uomini di un altro tempo, un tempo che lo aveva appassionato, anche se in fondo non si trovava né bene, né male, ma che era per lui un punto di riferimento certo, in cui non c'era spavento o meraviglia. Una tranquilla situazione di stallo, una nicchia ecologica in cui adagiarsi tranquillo e guardare scorrere la vita senza sorprese. Fin da quando era diventato ingegnere, la vita aveva preso una svolta tranquilla. A Ufa, dove era nato, la vita non era certo vorticosa come a Mosca; la Baskiria era una regione periferica che aderiva pedissequamente a tutte le direttive centralizzate, rispettava i piani quinquennali senza problemi; tutt'al più la gente andava a caccia di frodo e se ammazzava una mucca invece che un orso, si faceva una colletta e si ripagava l'animale e nessuno piantava grane. Certo i pelmeni di orso sarebbero stati più buoni, ma anche quelli di vacca andavano bene, in più si faceva una bella grigliata di shashlikì e vodka e se girava, fino a martedì pomeriggio nessuno ti veniva a rompere le scatole per andare a lavorare. Quando era stato chiamato a seguire un nuovo impianto per imbottigliare acqua minerale, negli Urali, in fondo era stato contento. Finalmente promosso a Glavnji indzhenjer, qualcuno si era accorto della sue capacità, sarebbe stato responsabile del progetto, ingegnere capo.
Tutti macchinari occidentali, roba costosissima e di grande efficienza, il kombinat del Sanatorij aveva messo i soldi e tutto era arrivato in pochi mesi, assieme ai tecnici, gente che lavoravano come matti, tutti espertissimi, che non capivano come mancasse sempre qualcosa, come se tutto dovesse sempre essere lì disponibile. Le cose non andavano mica così! Come quella volta che gli avevano chiesto una manciata di viti a Brugola urgenti. Eh bravi, come se ci fosse un negozio dove andarle a comperare. Tutto facile per quella gente, dalle loro parti avranno avuto sempre tutto a disposizione, chissà poi se sarà stato vero quel bengodi. E si erano pure stupiti quando il suo incaricato, Alexiej, era tornato dopo tre giorni con le brugole fatte al tornio una per una. Non erano proprio perfette, qualcuna del 13 invece che del 12, ma bastava poi allargare un po' il buco senza tante grane, ma intanto eccoli accontentati quei precisini, non sia mai detto che il glavnij indzhenjer Cerebrov non risolve un problema. Certo quando tutto era stato completato, l'impianto collaudato e le bottiglie avevano cominciato a venire fuori dal tunnel dell'affardellatrice, era stato un piacere, vedere i pacchetti che correvano sui rulli del nastro come tanti soldatini. Erano tutti a bocca aperta, anche il commissario politico che era stato mandato direttamente da Mosca, gli aveva fatto i complimenti e gli era toccata una putijovka di un mese in Crimea a Sudak. Senza la moglie però, a lei era toccata due anni prima. Che meraviglia però! Le grane erano cominciate subito dopo. La linea non girava come doveva, ce n'era sempre una. Però alla fin fine, le bottiglie manco si vendevano e finivano sotto la tettoia in fondo al magazzino. Forse anche perché l'acqua aveva quel saporaccio di zolfo. Beh, in fondo era l'orgoglio della zona, quell'acqua minerale, puzzava come una fogna ed era pure salata, ma faceva bene da matti, lo diceva pure il dottore capo del sanatorj.
Ma in fondo, quello che contava per il piano quinquennale era la potenzialità della produzione e non la produzione stessa. Così, una volta potevi dare la responsabilità al granulo di PET che non arrivava, un'altra era mancato il foglio di polietilene per avvolgere i fardelli, un'altra ancora la sorgente si era seccata per due mesi. Quello che contava era che le bottiglie, 6000 all'ora, si potevano teoricamente produrre e buona notte. Poi all'improvviso era cambiato tutto. Glasnost, perestroika, un sacco di paroloni vuoti e all'improvviso tutti che si erano messi in testa di fare soldi. Tutti commercianti, tutti bisnessmieni, anche quelli che qualche anno prima ti avrebbero denunciato per crimini commerciali se cercavi di vendere un po' di nafta "avanzata" dal riscaldamento del sanatorj, che poi il freddo faceva pure bene e conservava la gente, tanto con tutta la vodka che tiravano giù, manco se ne accorgevano che i caloriferi erano ghiacciati. E tutti volevano andare a Mosca a fare affari e ritornavano con quei macchinoni importati, tutta roba rubata in occidente, si diceva. E il segretario regionale del partito era diventato il proprietario del sanatorj, non si sa bene come, ma con la privatisazija, avevano distribuito a tutti le azioni, secondo merito e importanza naturalmente e alla fine erano venute tutte a lui (e un po' anche al vicesegretario, che però era poi morto in quell'incidente, lo avevano trovato con la faccia gonfia e tutto rosso a bolle, ma avevano detto che aveva bevuto troppo quella sera, prima di finire nel fosso con la Merziedès nuova). Da allora lo chiamavano una volta alla settimana per sapere come andava la produzione e quali erano i costi dei materiali e avanti con la canzone di ridurre il personale che le spese erano troppe e intanto gli operai rompevano le scatole che lo stipendio era basso e quelli che lavoravano al McDonald guadagnavano il doppio.
Tutti i giorni una grana nuova, da farsi scoppiare la testa, altro che premi e complimenti, sempre rogne e rimproveri. Roba da non poterne più, lui che non poteva neanche permettersi una Zhigulì scassata. Anche Zvijeta, alla fine lo aveva mollato per un affarista di Ekaterinburg, uno che rappresentava una ditta occidentale e che si beccava un sacco di provvigioni e le comprava dei profumi italiani da 100 dollari. Dice che l'avrebbe portata a Venezia, altro che lui vecchio babbione, che al massimo era riuscito a farle avere la putijovka in Bulgaria una decina di anni prima. Ma si sa che come dice il provebio: kuritza niè ptiza, Balgària niè za granitza, la gallina non è un uccello e la Bulgaria non è estero, come diceva sempre sua nonna e anche Tatjana, la segretaria del segretario, che lo seguiva sempre nelle commandirovke in cui si doveva fermare a dormire fuori. Poi, da quando gli affari si erano spostati sempre di più verso la capitale, avevano cominciato a lasciarlo più in pace. La fabbrica piano piano arrugginiva in silenzio, di bottiglie ne venivano fuori poche ormai. Che importava tanto tutti volevano la Coca Cola, la Fanta e tutta quella roba che ormai si trovava in ogni kiosk di paese. Lui passava le sere da solo, nella dacia di legno a fianco alla fabbrica, che aveva visto ben altre bisbocce, a guardare un vecchio televisore a cui ogni tanto bisognava dare una botta forte dietro per farlo smettere di sfarfallare. Tanto aveva gli occhiali così spessi, che la dottoressa, una trombona coi baffi che aveva lanciato il disco alle gare regionali dei pionieri, gli aveva detto che non li facevano più forti di così e che se non ci vedeva poteva andare in uno dei negozi nuovi a comprarsi quelli che arrivavano dall'estero con la montatura leggera e sottile, invece di quei bacchettoni di tartaruga finta, sempre che avesse avuto i soldi per pagarseli, ahahahah.
Che risate, quando le aveva borbottato che a un compagno come lui, gli occhiali li avevano sempre dati gratuitamente e con precedenza per meriti di lavoro. Li sentiva ancora ridere mentre se ne andava curvo, mentre nevicava fitto fitto, col peso del sacchetto di bottiglie di vodka di basso qualità che un amico che lavorava in un albergo vicino, rubava in cucina e gli girava a prezzo di favore. Roba così così, quasi un samagòn di buccia di patate, come facevano in campagna. Ma i contadini buttano giù di tutto. Già, adesso in città arrivavano i vini dalla Francia, l'Asti dall'Italia, altro che lo champagne sovietico con cui brindavano al termine delle riunioni politiche. Non se ne facevano più di riunioni politiche. Negli uffici del partito avevano aperto un supermercato, pomposamente chiamato Komersiant ed era pieno di madame impellicciate che spingevano carrelli colmi di roba di importazione, tutta gente che qualche anno prima si faceva trombare sui sacchi di barbabietole, giù allo zuccherificio e adesso facevano finta di non conoscerti più, le varie Viera e Liudmilla, solo perché il marito aveva avuto una rappresentanza di medicinali o trafficava in roba cinese. Sì, era andata sempre peggio da quando era cambiato tutto. Vicino al tavolo di faesite sbrecciata, sporco di purea di patate rovesciata, ruttò un paio di volte, mentre gli veniva su il gusto della composta di cetrioli, ormai alla sera mangiava solo quello e buttò giù con un colpo secco, quello che restava della seconda bottiglia di Garilka, si tocco un po' la barba lunga che non si faceva da giorni, poi crollò di colpo sul divano dai braccioli di plastica slabbrati da cui usciva la spugna marcia, gli occhiali pesanti gli caddero sul fianco e cominciò a russare rumorosamente.
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