domenica 31 ottobre 2010

Cronache di Surakhis 33: Lettera al direttore.

Egregio Direttore,
Sono un cittadino rispettoso delle leggi e delle tradizioni. Cerco di comportarmi come è giusto e come ritengo sia bene per il nostro disperato e povero pianeta. Non ho mai cercato facili scorciatoie per me o per i miei figli per farli raggiungere i vertici che si meritano, in quanto figli miei. Mai ho cercato di convincerli a conquistarli con i loro meriti, ma, come è giusto, li ho sempre guidati a sfruttare le nostre parentele e corrompendo in modo corretto e proporzionale i vari giudici. Forse qualcuno pensa che non abbia sofferto quando ho dovuto sopprimere quasi diecimila schiavi delle mie miniere senza neanche recuperare i costi di mantenimento con quel poco che ho ricavato dalle banche degli organi?

Invece, vedo ogni giorno di più, che corruzione, lenocinio, vendita di indulgenze, prevaricazione e tutti quei sacri valori fondamento della nostra società, a cui ci siamo sempre ispirati vengono irrisi e vilipesi, mentre le strade della capitale sono percorse da schiere di sordidi Morigeratores che chiedono addirittura di mettere ai posti di potere persone capaci o, che orrore, quasi non oso dirlo, scelte tra i più meritevoli e non come è giusto tra chi ha i migliori appoggi o possibilità di corrompere. Attaccano il lungocrinito imperatore, che Iddio gli dia lunga vita, come se i suoi 900 anni e il fatto che governi dal suo letto e mantenuto in vita dalle amorevoli macchine, non fossero sintomi della grande vitalità del sistema. Gli addebitano come una colpa la frequentazione dei templi di Venus Fellatrix come se non fosse giusto per l'uomo santificare i pochi momenti di riposo con un paio di Succhiatrici Bavose di Capella IV o con un massaggio ristoratore di qualche Plurizinna Intergalactica. Questa nuova ventata di insopportabile veterobigottismo si indigna se mette a capo di un ministero qualcuna di queste sacerdotesse, come se intanto questa posizione avesse influenze pratiche.

Questa gentaglia, non riconosce più la callipigia come unica dote importante e utile ad una buona carriera, per le proprie figlie. Insopportabili Da Ze Bao tappezzano i muri insinuando ogni giorno che il Suo Giornale Unico e Riconosciuto, non si occupi dei problemi planetari, quando da mesi Lei, Direttore sta pubblicando importanti inchieste sulle posizioni preferite dal nostro Imperatore dai boccoli d'oro, che Iddio lo protegga sempre, o sulla classifica del Campionato di Ronda sul numero dei clandestini Andromediani eliminati nelle Cacce. Noi cittadini seri e rispettosi non ne possiamo più, vogliamo che queste orde diventino carne per predatori di organi, che non accada mai più, come è avvenuto l'altro giorno, che un concorso planetario correttamente truccato venga sospeso. La prego intervenga senza pietà e in alto i peni sempre!
Con stima, Paularius di Surakhis.

P.S. La prego di pubblicare senza indugio questa mia, se non vuole che le invii i miei Sardar con le loro sempre convincenti mazze bubgabungofore.


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venerdì 29 ottobre 2010

Recensione: Rigoni Stern - Amore di confine.

Mario Rigoni Stern, non è uno dei miei autori preferiti. Non che non mi piaccia come scrive o le sue tematiche, ma la sensazione è che alla lunga sia un po' troppo ripetitivo. In questo Amore di confine, libro di racconti brevi del 1986, ripercorre con una serie di piccoli affreschi, tutto il corso della sua vita. A mio parere, dà il meglio quando ripercorre i lontani ricordi di guerra. Non per niente mi sembra che Il sergente nella neve sia la sua opera più intensa e compiuta. Qui invece mi dà l'apparenza di tirare un po' via, tanto per riuscire ad andare fino alla fine.


Certo è sempre lieve e delicato, anche quando racconta di cose dure e difficili, però, forse come è logico in tutte le raccolte, alcuni pezzi mi sembrano meno riusciti. Più convincente in In una valle felice o in Marte, meno in La rivolta per i tori o Guerra all'incendio. Un pò Bibbia obbligata per i nuovi profeti del "naturale" come stile di vita, un' esegesi del come si stava bene una volta e così via cantando, in una serie che oggi ha la via spianata per la corrente sempre più impetuosa dei natural-teo-bio-akilometrizero. Per carità, ce ne fossero comunque di questi libri. Lo consiglio comunque a chi ama leggere qualcosa prima di dormire. I 44 racconti sono ideali, data la brevità, per disporsi in un buono stato d'animo che consenta un riposo non turbato dagli inevitabili e ormai quotidiani Scazzi e Bunga Bunga.

giovedì 28 ottobre 2010

Wáng Bā Dàn


I cinesi son persone come tutte le altre nel mondo e di certo fanno le stesse cose avendo le stesse pulsioni, ma la loro cultura, da secoli è intrisa di una incredibile pruderie, che nei modi e soprattutto nel linguaggio respinge in maniera decisa ogni forma di supposta volgarità che, come in molti altri campi, offenda il generale senso di equilibrio e di armonia. Così è inutile cercare sui vocabolari, per mettersi in pari con la lingua, espressioni volgari o anche semplici parolacce per trovare un contraltare alle nostre maniere ormai comunemente sboccate. Niente four letters words, forse neanche esistono e il mio amico Ping, nei primi anni che frequentava il nostro paese era assolutamente inorridito dal fatto che le nostre più gentili signorine avessero sempre in bocca quella parola di 5 lettere che fornisce ormai un nostro comune intercalare.


Ma allora come si fa, possibile che un popolo sia così dotato di autocontrollo da negarsi anche una semplice imprecazione o non riesca a descrivere una situazione scurrile che poi pratica come tutti, comunque assai volentieri? Ecco che spunta l'intelligenza e quindi all'espressione volgare viene sostituito un giro di parole edulcorato che lo descriva. Ecco dunque nel Sogno della camera rossa (vedi qui) che l'azione clou del sesso, viene detta il gioco della pioggia e delle nuvole e così via. Tuttavia è un po' come rincorrersi tra doping e antidoping, ogni espressione ingentilita, diventa subito, dato il suo significato, volgare e impronunciabile da chi si considera educato e il famoso libro che la conteneva è visto come licenzioso e inadatto alle signorine. Dopo tanti anni il mio amico Ping si è completamente italianizzato però e ogni tanto qualcosa gli scappa, se pur a malincuore, così quando all'indirizzo di un auto che gli aveva tagliato malamente la strada se ne uscì con uno stentoreo Wáng Bā Dàn! se pure inudibile all'esterno dell'auto, capì di averla fatta grossa e si dimostrò reticente alla mia richiesta di spiegazioni.


Vi assicuro niente prurigine, soltanto un sano desiderio di approfondimento glottologico. I tre ideogrammi sono assolutamente semplici e di facile lettura. Il primo Wáng 王, lo abbiamo già esaminato qui, significa Re o insegna reale, il secondo Bā 八, è il semplice numero 8, il terzo Dàn 蛋, significa Uovo, Ovoidale. Dunque? Intanto i primi due assieme significano L'animale che ha 8 insegne reali (piastre) e cioè la tartaruga, ben riconoscibile dal suo carapace che contiene 8 scudetti. Allora Uovo di tartaruga, trasformato in volgarissimo e impronunciabile insulto. Beh, se me lo consentite, ma si tratta di studio, significa semplicemente "stronzo", ma come mi ammonì subito Ping con il dito puntato con severità: "Però tu non dire mai!".



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mercoledì 27 ottobre 2010

Profumo di mare.


C'è poco da fare, l'inverno è alle porte, l'aria più tersa fa indovinare le cime lontane delle montagne già coperte di neve e folate di vento gelido arrivano da nord, messaggere impunite di catarro e colpi di tosse. Il mare è ormai lontano nei ricordi, con il suo invito di salsedine e di orate alla griglia. Noi del basso Piemonte siamo morbosamente attirati dal mare, per carità, anche le valli alpine sono bellissime, il profumo dei prati e delle vacche all'alpeggio, ma se ci fosse il mare, sarebbe un'altra cosa. Gente marina dunque, non per niente molti centri dell'Alessandrino hanno nel toponimo, il suffisso Ligure. Quindi tutti grandi nuotatori, penserete, come gli abitanti della penisola. Tenete conto che quando, ragazzo, andai Polonia, a tutti veniva richiesta una prova di nuoto prima di avere in uso un kajak sui laghi Masuri, tranne agli italiani, esentati ad honorem essendo considerati di default tutti esperti nuotatori. Invece io, lo confesso, non so nuotare. Mi avvicino al bagnasciuga, bramoso, e mentre tutti si tuffano gioiosamente, varo il mio corpaccio bianco con cautela, rimanendo come un gigantesco ghiozzo incagliato sulla sabbia di una secca. Sguazzo alla meglio, attento a non farmi entrare l'acqua negli occhi, allungando il piede a sentire la consolante sicurezza del fondo mentre gli altri nuotano veloci verso la boa. Direte che sono un improvvido e che ne ho avuti di anni per rimediare a questo stato di cose, inoltre nel mare sta a galla anche un ferro da stiro, basta stare fermi a pancia in su e si emerge senza problemi come un sottomarino in avaria. Infatti ci ho provato. Una trentina di anni fa, dopo che un'amica mi aveva regalato il libro: Come imparare a nuotare, tornato da un viaggio in Turchia, nelle cui acque di turchese avevo lasciato il cuore (oltre ad un portachiavi d'oro, improvvidamente tenuto nella tasca del costume), si decise con altri due colleghi di lavoro, nelle mie stesse dolorose condizioni, di andare ad iscriversi al famigerato "corso di nuoto".


La piscina era colma di bimbi vocianti, occhieggiati dalle madri chiocce al di là della vetrata appannata. Noi equipaggiati di tutto punto, costumino anni 70, calottina blu e stringinaso parevamo Fantozzi con Filini e collega, sul bordo della piscina, schierati come soldatini in attesa degli ordini dell'istruttore/caporale. Cominciammo seguendo con ordine e disciplina tutti gli esercizi che ci venivano meticolosamente impartiti, dalla tavoletta alla testa sott'acqua, fino ai primi tentativi di spostarci con le potenti bracciate che il turgore della nostra giovanile muscolatura rendeva possibili. Bene, tra tutti e tre, nelle dieci lezioni previste, abbiamo bevuto quasi mezza piscina. Partivamo dal bordo della parte bassa e nel tentativo disperato di compiere la traversata dal lato corto, arrivavamo, mulinando le braccia come eliche di un motoscafo in disarmo, dall'altra parte, sprofondando a poco a poco come un Uboot silurato, fino a sbattere contro il fondo, fortunatamente contenuto nel metro e venti. Emergevamo nella disperata ricerca di aria, dopo un'apnea angosciante e la morte nel cuore. Alla fine, con gli occhi rossi di cloro, dopo l'ennesimo tentativo fallito di mantenere la linea di galleggiamento per più di trenta secondi, il corso finì e l'istruttore allargò le braccia ci mandò liberi scrollando la testa. Non gli era mai capitato. Tre su tre. Gatti di marmo irrecuperabili. Non sono riuscito a stare a galla neppure nelle acque melmose del Mar Morto (vedi foto allegata).



P.S. A richiesta posso aggiungere che l'aria orribilmente schifata, non è dovuta ad una ipotizzata talassofobia, ma al benefico ma terribile e risucchiante fondo fangoso, che fa tanto bene alla pelle, ma fa un po' senso.

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martedì 26 ottobre 2010

Il Milione 28: Ammassi e meritocrazia.

C'era un ristorante proprio a fianco della Città Proibita dove mi portava spesso l'amico Ping, che serviva piatti tradizionali, anche lì adesso fanno un po' di fuffa su come si mangiava bene una volta, tutto il mondo è paese, ma le polpettine di maiale che nuotavano in un sughino denso e saporitissimo, andavano giù come l'olio (date un'occhiata alla ricetta da Acquaviva), mentre una cantante sul palco miagolava antichi motivi dell'opera di Pechino. Certo Marco Polo sarà stato quasi sempre a corte, quindi si sarà abituato a piatti più raffinati, dopo che il suo nuovo Signore gli aveva affidato incarichi importanti che gli permetteranno di girare l'Asia in lungo e in largo, intanto ci descrive molte delle istituzioni di quel mondo, sorprendentemente moderne, a partire dal sistema postale, che contava oltre 10.000 stazioni, di tre miglia in tre miglia, in tutto l'impero, con cambi di cavallo talmente rapidi da ridurre ad un decimo i tempi di consegna rispetto alle normali carovane. Ma non solo, il Gran Khan aveva istituto anche una sorta di assicurazione per proteggere il paese alle carestie.

Cap. 98

Sappiate che il Grande Sire manda messaggi per tutte le province per sapere s'egli hanno danno di loro biade o per difalta di tempo o di grilli o per altra pistilenza. E s'egli truova che alcuna sua gente abbia questo dannaggio, no gli fa torre alcun tributo, ma fagli donare di sua biada acciò ch'abbiano da seminare e mangiare. E questo è un grande fatto di un signore a farlo.

Certo è stupefacente questa comprensione dei problemi del popolo da parte di un supposto barbaro mongolo dedito solo alle conquiste ed ai saccheggi. Ma non basta, si dovevano anche prevenire i problemi e regolamentare il mercato.

Cap. 102

Quando è grande abbondanza di biade, il Sire ne fa fare molte canove d'ogni biade, come di grano, miglio, panico, orzo e riso e falle sì governare che non si guasteno, poscia quando è il grande caro, s'il fa tirar fuori. E tienlo talvolta 3 o 4 anni e fa 'l dare per lo terzo o per lo quarto di quello che si vende comunemente e in questa maniera non vi può essere grande caro.

In pratica il classico sistema degli ammassi praticato dai Consorzi agrari per regolamentare le punte di prezzo, evitando così le speculazioni del mercato. Tutto controllato efficacemente da schiere di funzionari imperiali e di ministri efficientissimi, scelti attraverso i micidiali esami da Mandarino che si tenevano nella capitale una volta all'anno, con una selezione durissima che promuoveva alle più alte cariche della amministrazione dello stato solo le eccellenze e i più capaci, sia che fossero rampolli nobili o figli di contadini delle più lontane province, secondo la tradizione confuciana. E' incredibile, pensate che rozzo barbaro, decidere di scegliere come ministri solo i più meritevoli e capaci, solo chi dimostrasse di essere davvero il più bravo! Cose di altri tempi, per fortuna oggi le cose sono cambiate e il progresso ha indicato altri meriti. Il Gran Khan era soltanto un capo tribù mongolo che pretendeva di far funzionare il suo impero, convinto che questo aiutasse la gente a stare meglio, della corruzione, poi non si preoccupava troppo, tanto quando ne beccava uno che faceva la cresta sugli appalti pubblici, zac, c'era sempre il supplizio delle mille morti.






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lunedì 25 ottobre 2010

Marchionne e il colore dei numeri.

Adesso voglio dire la mia. Non è che pretendo anche di essere ascoltato, ma non ho voglia di prendermi troppi pomodori marci in faccia. Il fatto è che quando voglio esprimere un' opinione, i vari centristi mi additano come un estremista, mentre chi è massimalista conclude che sono e rimarrò nell'intimo uno sporco democristiano. I miei amici di destra mi definiscono un inguaribile bolscevico, mentre quelli di sinistra mi danno del fascio a tutto spiano (che ci posso fare se ho tanti amici). Che male c'è se uno pretende di stare a sentire e poi, indipendentemente, formarsi una sua idea e tentare di mantenerla scevra di pregiudizio; perchè deve essere giudicato male, il voler pensare? E' un destino barbaro e bastardo, lo so, comunque ho voluto sentirla bene con le mie orecchie l'intervista a Marchionne, prima di sparare parole a vanvera, il guaio poi è che ho dovuto sentire tutte le uscite dei vari giornalisti (anche di quelli di cui ho stima), per non parlare dei titolatori che, pur di buttare una frase ad effetto, non leggono neppure l'articolo ma vanno a senso. Non parlo dei politici naturalmente verso i quali, il grado di disistima che ne ho, non potrebbe di certo essere peggiorato da dichiarazioni obbligate e volte ad ottenere unicamente consenso al momento dell'urna. Esaminare un problema con coerenza sarebbe di certo un inutile esercizio dialettico per costoro. Questo signore ha detto soltanto che in Italia, stando ai dati inconfutabili delle classifiche mondiali, non si riesce a lavorare in maniera efficiente e concorrenziale (e ha sottolineato, non per colpa dei lavoratori); che la Fiat quest'anno ha guadagnato globalmente, ma in Italia ha perso soldi; che se dovesse fare il conto della serva non gli converrebbe lavorare in Italia come gli consigliano gli imprenditori delle altre nazioni (ma non ha detto che lo farà); che per poter vendere un prodotto e non chiudere, bisogna essere efficienti come in Germania o negli altri paesi sviluppati (non come in Cina e in India); che a parità di efficienza, sarebbe ben giusto che i lavoratori italiani avessero gli stessi stessi stipendi dei loro colleghi tedeschi (e che a questo lui si impegna a tendere); che nessuna azienda può andare avanti se il giorno della partita sono malate il 50% delle sue maestranze; che gli girano gli zebedei quando in tutto il mondo gli stendono il tappeto rosso e lo considerano e quando propone le stesse cose nel suo paese, gli tirano i pomodori.
Questo ha detto e cosa doveva dire? Dati falsi sull'efficienza italiana, quando decine di aziende lombarde e venete si trasferiscono in Svizzera, non in Vietnam, in Svizzera, oppure che una azienda può sopravvivere facendo gli stessi prodotti a costi superiori degli altri? Così mentre da destra e da sinistra si leva un coro di commenti stizziti, offesi, a difesa dell'indifendibile, nessuno che si ricordi che il giorno prima aveva criticato l'inefficienza italiana, le panie burocratiche che non ti permettono di fare le cose in tempi ragionevoli, le strade impercorribili a sistemare le quali ci vogliono decenni e compagnia bella. Gli aiuti all'auto hanno aiutato tutti i produttori d'auto indifferentemente, ma tutti fanno finta di non capirlo. Ha difetti? Certo, quello di non comportarsi da politico, dicendo quello che il "popolo bue" vuol sentirsi dire, per poi fare i propri affari. Dice le cose come stanno, i numeri non hanno colore, poi ognuno può decidere quel che gli pare. A me sei piaciuto Sergio, anche se un po' più di astuzia melliflua, avresti dovuta impararla qui da noi, buttare lì qualche balla compiacente come fanno tutti i vari rappresentanti di partito; il problema è che tu sei abituato a posti dove se uno è bravo lo assumono e magari gli danno una responsabilità, anche se non è figlio di qualcuno o anche se non ha portato voti. Vedi un po' tu.
Comunque tanto per sdrammatizzare, posate i pomodori e concentratevi su questa :
Crittografia mnemonica (2,1'4,2,2,7,5)
MARCHIONNE IN ITALIA
P.S. Visto il grande interesse suscitato dal giochino provvedo, a gran voce richiesto a postare la soluzione:
HA L'AUTO IN UN PESSIMO STATO
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sabato 23 ottobre 2010

Cronache di Surakhis 32: Intrighi di palazzo.

Pioveva cloro anche quella mattina. L'autunno di Surakhis era sempre uguale; una nebbiolina verde e triste con le goccioline di acido che si fermavano insidiose sulle tute anticorrosive mentre la gente camminava frettolosa nei vicoli della città bassa. Tutto il pianeta sembrava roso da un male oscuro che ne corrompeva i fondamenti e le fondamenta. Da quando era crollato il grande ponte che attraversava la baia, sembrava che anche la capitale fosse profondata in una apatia senza tempo. I membri del governo organizzavano di tanto in tanto qualche stanca seduta direttamente nei postriboli governativi dove le plurisesso Vegane partecipavano direttamente alle commissioni. Qualcuna continuava lì il suo lavoro, tanto alla fine di decisioni da prendere, in effetti non ce n'erano e quando i ministri si addormentavano ebbri di droghe e dei più rari alcoolici della galassia, aggiungevano direttamente qualche postilla ai provvedimenti, per avere anche loro qualche posto di rilievo nei vari consigli di amministrazione. Della crisi ormai non si parlava neanche più, era diventata la situazione di normalità ed in fondo i problemi erano stati risolti, dando il via libera alla contestata legge sulla riduzione programmata.
Con quel sacrosanto provvedimento, a poco a poco tutti gli schiavi, mentre le miniere venivano chiuse, erano stati abbattuti evitando saggiamente ulteriori inutili costi. In questo modo si erano risolte anche le maggiori problematiche sociali ed il pianeta viveva una situazione di calma apparente. Paularius non era abituato a stare con le mani in mano. La cosca di cui aveva ottenuto la presidenza faticava a raccogliere i pizzi concordati, anche perchè gli esercizi commerciali erano quasi tutti chiusi e lui mordeva il freno arrovellandosi per cercare soluzioni utili a movimentare il mercato. Il suo quartier generale era il Lupanare Antico, uno dei più lussuosi della capitale. Al riparo da occhi indiscreti aveva riunito il consiglio allargandolo a quello che riteneva i possibili alleati più fedeli. C'erano due multipenici di Antares III, insaziabili come sempre, una maitresse vegana assurta alla vicepresidenza dopo che aveva dato ampia dimostrazione delle sue capacità e tra i nuovi ammessi, un gruppo di avvelenatori di Zort, esperti nella soluzione delle contese politiche. La seduta era aperta da molte ore ormai, interrotta di tanto in tanto dai gemiti di qualche delegato distratto dalle assistenti, molto attive sotto i tavoli, ma la decisione chiave stava maturando a poco a poco. Paularius era maestro nel condurre la danza; lasciava parlare tutti per ore, poi quando la stanchezza prendeva il sopravvento, lanciava il voto. Aveva provveduto a mettere delle specialiste, convocando appositamente alcune famose Risucchianti Lumacoidi particolarmente abili e le aveva disposte a fianco di alcuni membri della cui fedeltà diffidava col compito di scatenarsi nel momento in cui si doveva schiacciare il pulsante e la maggior parte premeva quello giusto quasi ad occhi chiusi con la bocca deformata da sorrisi ebeti.
A Subtiles di Anubis, che si era opposto fino alla fine, aveva pensato una callipigia avvelenatrice, porgendogli una coppa di succo di frutti rari. Così mentre lei si curava del suo corpo ormai eccitato con i suoi tentacoli setosi, se ne era andato con un grido strozzato nel momento culminante. Era rimasto così con gli occhi spalancati, ma felici, senza sapere che non avrebbe mai più potuto rivedere la sua casa sulla Montagna del Religioso, dove si ritirava nei momenti di ascesi mistica con i suoi fedelissimi sodali della setta dei Foctitores e Liquidantes, la maggior parte dei quali lo aveva già tradito, appena capito che stava girando il vento. Problema risolto. Paularius se ne andò in fretta lasciando i delegati a terminare i loro piaceri. Le elezioni erano ormai decise. Con l'Imperatore eliminato a sua insaputa e la Gilda al potere, i suoi affari potevano ritenersi tutelati finalmente. Il cielo si faceva sempre più scuro. Le tempeste dell'inverno erano ormai alle porte.
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venerdì 22 ottobre 2010

Recensione: Hesse - L' ultima estate di Klingsor.

Di Herman Hesse, la maggior parte dei lettori conosce unicamente Siddharta, il suo romanzo simbolo , di certo il più pregnante e significativo, una vera e propria bandiera formativa, un classico di tutti i tempi. Ma ritengo che non sia tempo perso dare un'occhiata anche a qualcosa di diverso della sua piuttosto ricca produzione. Quindi vi suggerirei di dedicare un'oretta, non di più serve a scorrere la sessantina di pagine di un'operetta molto interessante: L' ultima estate di Klingsor. Di chiara matrice autobiografica, il romanzo, pubblicato nel 1920, ripercorre gli ultimi mesi di vita di un pittore ossessionato nelle continue fasi alterne delle stesse crisi maniaco-depressive che travagliarono l'autore per tutta la vita. Naturalmente, come spesso accade, sempre sull'orlo del suicidio, il nostro buon Hesse campò fino ad 85 anni e dopo aver seppellito due mogli e quasi la terza, se ne andò per emorragia cerebrale nell'amato Canton Ticino, osannato e circondato da stuoli di ammiratori fedelissimi e blasonato da un Nobel che non si curò neppure di andare a ritirare a Stoccolma.



Soffrì di certo il tentativo peloso di appropriazione che la dittatura fece appellandosi ai suoi temi di filosofia orientale in cui il Reich cercava folli fondamenti giustificativi, da cui però non solo riuscì a distaccarsi con forza e chiarezza, ma subendo la conseguenza di un esilio forzato in Svizzera e della impossibilità di pubblicare nella sua patria. Come tutte le sue opere, anche questa è pervasa dai grandi temi dominanti della sua vita, i sentori della filosofia orientale che per motivi familiari ne avevano formato la gioventù, l'amore per la Cina e i suoi grandi poeti come Li Po, il rutilare della luce e dei colori che stordiscono la mente di questi malati nella fase di eccitazione per precipiare negli abissi oscuri del momento down di lì a poco. L'amore per le donne, gli amici e la necessità di stordirsi per nascondersi ai fantasmi della mente, ben presente nella poetica Tang o persiana da lui tanto ammirata, riempiono queste pagine dense di sensazioni, fino alla sospensione finale che lascia intendere dal titolo stesso, l'epilogo tragico. Una lettura piacevole e comunque propedeutica ad una più completa conoscenza di questo autore chiave del XX secolo.




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giovedì 21 ottobre 2010

Caviale e kognak.

L'autunno a Mosca anticipa, e di molto, le nostre consuetudini. Alla fine di ottobre generalmente, le folate gelide che arrivano da nord, fanno camminare veloci i passanti che tirano su i baveri dei cappotti in attesa della prima neve. Gli alberi dei giardini hanno già perduto quasi tutte le foglie ed i rami, all'apparenza secchi e neri, mostrano al cielo la loro nuda disperazione. Una delle mie passeggiate preferite, terminato l'ufficio, era, girato l'angolo sul Kalzò, di fronte alla massa grigia e severa del vecchio Hotel Pekin, percorrere la Tverskaija che, con una leggera discesa, quasi volesse accompagnare i viaggiatori che dopo un lungo viaggio arrivavano da occidente, ti portava, lenta,come lo scorrere del tempo in Russia, fino alle meraviglie del Kremlino. E' una strada larga e un tempo elegante che invita al passeggio sui grandi marciapiedi su cui sfila ininterrotta la serie dei palazzi della Mosca di fine ottocento, un tempo ricchi ed eleganti.

Qui anche nella Mosca disperata degli anni 90, vedevi brillare gli ultimi fuochi del regime. Quel che rimaneva disponibile delle merci ormai in via di scomparsa, da ogni angolo dell'impero, arrivava qui per essere esibita nei negozi che dovevano rappresentare un lusso nascostamente esibito, al tempo stesso dimostrazione della potenziale ricchezza del sistema e della disponibilità della medesima per il popolo che, nella realtà non aveva effettive disponibilità di accedervi. Nel Dorije morie bianco e blu, potevi vedere qualche pesce secco dal Baltico e qualche cassetta di molluschi, nei negozi Atelier, qualche manichino triste su cui erano appesi vestiti che teoricamente potevi andarti a fare su misura, nei Chasì occhieggiavano ripiani pieni di vecchi orologi che invece di essere dati a riparare come nella mission del negozio, erano esposti in cerca di un compratore. Ma, superata la piazza Pushkin, lungo la leggera discesa, ecco apparire a sinistra, al numero 14, una magia inspettata.

In un grande palazzo ridondante di stucchi, si aprivano le pesanti porte dell'Eliseev Gastronom. Nel 1901, il ricco mercante ebreo di San Pietroburgo aveva creato questo negozio che doveva rappresentare il massimo della offerta gastronomica russa in un ambientazione di sfrenato lusso imperiale. Entrare in questo enorme salone decorato in stile neo-barocco era come fare un tuffo nel passato. Sotto il colossale lampadario di cristalli italiani, si alternavano gli antichi banconi lucidi di ottoni e di legni pregiati, sui quali, a settori, potevi trovare le squisitezze più rare e particolari provenienti da tutti gli angoli dell'impero. Dalla ricca sala dei vini, dove oltre alle più classiche vodke trovavi anche il Kognak Armeno, il pregiatissimo Ararat di 25 anni, passavi alla zona dei salumi, ricca di verietà dove trovavi i più pregiati pezzi del Mijasa Kombinat. Poco più in là sui mogani tirati a specchio, vasetti di composte tradizionali, ordinati come soldatini; sotto i candelabri dorati potevi comprare un barattolo di smijetana fresca e così via, passeggiando tra i banchi per il solo piacere degli occhi, inseguito dagli sguardi delle matrone in grembiule bianco che ti mostravano, indagatrici, i prezzi, stratosferici per i residenti che si aggiravano tristi con la sensazione del guardare ma non toccare. Che bello sognare sotto il grande orologio che scandiva le ore di un passato lontano. Ti sentivi circondato da contessine ed ufficiali in abito di gala, i cui fantasmi si aggiravano ancora guardando languidamente il bancone del caviale, con le sue centinaia di scatolette, i vasetti blu del Beluga prezioso, quelle rossa di Sevruga un po' più grossolane, le gialle del mar di Azov, il caviale rosso, le scatolette di bal'ik di cui era ghiotto il caro Zhenija, che mi ci portò la prima volta.

Tra le enormi colonne in marmo colorato che si levano fino al soffitto, pesanti decorazioni in oro circondavano grandi ritratti, tra cui spiccava il suo, eccolo lì il famoso Eliseev che guarda la sua sala con occhio malizioso, come per farti capire che lui non era stupido e che ha saputo ben nascondere il suo segreto. E già, perchè la leggenda racconta che il ricco epulone, sentita l'aria che cambiava direzione, prima di far fagotto , abbia nascosto in una nicchia segreta, tra gli stucchi dorati e le colonne, tutto il suo immenso tesoro, che ahimé, non è poi riuscito a tornare a riprendere. La rivoluzione lo ha trascinato via nel gorgo della storia, lasciando soltanto lo splendido ambiente che aveva creato. Ne uscivi a malincuore, nella sera ormai scura e triste, mentre risuonavano sui larghi marciapiedi le risate dei drappelli di splendide ragazze che si avviavano verso l'Inturist ad adescarne i clienti.



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mercoledì 20 ottobre 2010

Cè suǒ.


Torniamo ad esaminare una parola formata da due caratteri e di uso comune in Cina. Leggete con attenzione il post perché vi sarà utilissimo quando vi troverete da soli in una qualunque parte della Cina in condizioni di averne bisogno. Dunque partiamo dall'ideogramma di destra Suǒ - 所 (come avrete ormai capito si comincia sempre dalla parte finale che è quella più importante per definire il senso della frase o della parola come in latino), che è molto comune e si trova in moltissime parole complesse. E' formato da due ideogrammi semplici; quello di destra è la stilizzazione di una scure, mentre l'altro significa Porta, Stipite come si immagina vedendo il segno di quella che potrebbe essere una piccola cerniera fissata alla ciambrana. Quindi definisce una zona specifica: quella davanti alla porta dove si spacca la legna per l'inverno ed ha assunto il significato generico di Luogo, Posto, Edificio. Ma è l'ideogramma di sinistra quello assolutamente più divertente e geniale: Cè - 厕.


E' infatti composto da tre parti. Quella esterna fatta da due linee grossolanamente disposte ad angolo retto che raffigurano l'idea di una sommità, con una sporgenza da cui ci si sporge nel vuoto sopra un abisso; al disotto di questa, abbiamo un gigantesco occhio su un collo teso e al fianco la stilizzazione di una lama. Dunque ci siete arrivati? Mettiamo tutto assieme. Un luogo dove da una posizione che si sporge su un buco di cui non si scorge il fondo, si sta con l'occhio sbarrato dallo sforzo mentre una lama (forse di dolore) ti trafigge. Ma benedetta gente è il Luogo del Bisogno. Più prosaicamente il Gabinetto. Qualcuno interpreta l'occhio sbarrato (che mi pare assolutamente più pittografico e pregnante), come una conchiglia, la prima forma di moneta, non il bidet, sconosciuto da quelle parti, in quanto alcuni di questi luoghi potevano essere a pagamento, ma mi pare una spiegazione più tirata per i capelli. La cosa ancora più curiosa è la sua pronuncia, appunto Cèsuo quasi identica a Cesso, cosa che vi aiuterà a ricordare il termine al momento appunto del bisogno. E non ditemi che questo non è un blog di servizio.



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martedì 19 ottobre 2010

Pugni chiusi.

Saranno gli ormoni. D'accordo che oggi la diffusione delle notizie è molto più elevata di un tempo e che la cronaca nera fa sempre premio sul bambino che fa attraversare la strada alla vecchina, però tirando le somme, mi pare che questa aggressività irrefrenabile, questo desiderio di violenza incontrollata, sia un tarlo nascosto, un male oscuro incistato senza speranza nel genoma umano. Ci sono periodi in cui sonnecchia ed è visibile solo a sprazzi, come se, pur esistendo, fosse sotto controllo attraverso un sistema automatico che lo mantiene al di sotto un dato livello di pericolosità, come il regolatore di velocità delle macchine di formula 1 nella corsia dei box. In altri casi, viene sdoganato e, partendo dalle sue forme verbali più moleste, prende corpo in manifestazioni che esprimono senza più veli tutta la ferinità dell'animo umano. Forse è un prodotto secondario che ha consentito alla specie di prevalere, una sorta di crudele autoregolazione della forza bruta, un mister Hyde sempre presente a ricordarci che la convivenza tra gli uomini funziona solo in presenza di metodi coercitivi che vanno di volta in volta dosati e quando questo meccanismo si rompe, la stabilità si riottiene soltanto quando il branco è talmente ebbro di sangue da provarne, per così dire, disgusto, ma solo fino alla volta successiva. Questo baco deve essere presente sottopelle in tutti gli esseri umani, anche quelli apparentemente più miti. Io ero un bambino vivace, ma tutto sommato non incline a cercare di prevalere con la forza, anche perché non ero affatto forte, anzi, come tutti i bambini grassocci, ero catalogabile nella categoria dei mollaccioni destinati a subire. Tuttavia è probabile che quel baco malefico alloggiasse anche nelle profondità della mia mente. Nei casi di contese tra ragazzini, tendevo a ritirarmi in buon ordine, conoscendo le mie potenzialità fisiche; al limite cercavo di metterla sulla chiacchiera, metodo da cui già si indovinava una futura predisposizione. Ma una volta, e non riesco a capirne la ragione in quanto non c'erano motivi specifici, avevo come una voglia disperata di menare le mani in una sorta di aggressività irrazionale e non rivolta verso nessuno in particolare e quindi contro tutti. Credo fosse in quinta elementare e di sicuro ci sarà stato qualche evento dimenticato a scatenare quella mia voglia di fare a botte col primo che mi capitava davanti, oppure era proprio la voglia di fare a botte a prescindere, una sorta di attività ritenuta necessaria per crescere. Fatto sta che appena fuori della scuola, già le madri non ci venivano più ad accompagnare, cercai in ogni modo di scatenare un contenzioso casuale col primo che mi capitava. Non so davvero cosa mi stesse succedendo, ricordo solo che, cosa mai accaduta prima, volevo picchiarmi con qualcuno. Il caso volle che ad attraversare la mia strada fosse un compagno decisamente robusto e tignoso e in un attimo, senza causa apparente, ci ritrovammo uno davanti all'altro, con i nostri pugnetti tesi, circondati da ragazzini che ci aizzavano per vedere la rissa (anche questo, altro comportamento interessante da studiare). Avevo una tale rabbia immotivata in corpo, che ne volevo fare polpette e mi avventai con furia sul mio avversario, il quale, probabilmente assai più aduso di me a queste situazioni, con calma e freddezza, mentre mi avvicinavo minaccioso e furibondo, forse credendo che, come in molte specie, l'esibizione rumorosa e plateale di forza e di rabbia del maschio alfa, bastasse a far battere in ritirata il sottoposto, mi assestò un tremendo pugno sullo zigomo, esperienza del tutto nuova per me, seguito immediatamente da un secondo, se possibile, ancora più forte e preciso. Dolore fortissimo e inaspettato, l'occhio che gonfiava, un fiotto vergognoso e irrefrenabile di lacrime incredule, un insieme di sensazioni sconosciute e terribili, vergogna accoppiata all'irrisione degli astanti, tutto questo mi provocò un immediato calo totale del testosterone che un attimo prima mi sembrava uscire dalle orecchie. Me ne andai, con la coda tra le gambe, pesto ed umiliato, avendo imparato a meglio valutare le forze di chi mi stava di fronte. La valutazione delle corrette strategie fu perfezionata solo anni dopo, con una attenta lettura dell'Arte della guerra, testo fondamentale di Sun Tsu di cui però parleremo un'altra volta.

lunedì 18 ottobre 2010

Granturco nella nebbia.

I campi sono quasi invisibili. La nebbia bassa, che sembra uscire dalla terra scura arata di fresco, si alza a poco a poco, la vedi espandersi mentre si dispone a coprire alla vista le distese di granturco che ondeggiano come fantasime maligne sui bordi della strada. E' l'autunno di questa terra umida e grigia che si distende pervasivo lungo i fossi mal tenuti e pieni di erbacce, pronti a riempirsi d'acqua sudicia appena pioverà per poche ore. Quel freddo umido che ti fa scricchiolare le ossa e le giunture per ricordarti, se per caso sei uscito di buon umore, che prevale il lato grigio della vita. I campi di mais sono secchi ormai, qualcuno ha già cominciato la trebbiatura, ma non è un secco sano, croccante. L'umidità ha pervaso le foglie avvizzite e le barbe ormai nere, insinuandosi nelle pannocchie gonfie a cercare i tarli della piralide per creare un ambiente ideale a sviluppare muffe che riempiranno la granella e le farine di aflatossine e fumosine cancerogene, che un buon OGM Bt aiuterebbe di molto a limitare, ma tant'è, è inutile combattere contro i mulini a vento dell'ignoranza interessata e talebana. Peggio per chi se le mangerà. Tanti anni fa questo era il momento in cui, noi esperti di sementi, si andava ad aggiornarsi nei campi sperimentali dove, tra i nuovi ibridi , potevi individuare quale strada stava prendendo il miglioramento genetico.

Ci aggiravamo, sempre nella nebbia bassa (che destino questo del mais di finire la sua vita nella lattiginosità inquietante di questo umidore padano) tra le parcelle, valutando le dimensioni delle spighe gonfie ed erette, come orgogliosi misirizzi, nella loro mostruosa produttività, o apprezzando piuttosto l'assenza di marciumi, segno di maggiore resistenza della nuova cultivar. Farsi largo tra culmi che crocchiano al tuo passaggio, cercare di evitare le fastidiose carezze maligne dei bordi fogliari taglienti, resistere al prurito causato dal polverino rinsecchito che aleggia tra le file. Ma la curiosità di valutare, di far paragoni, di scegliere quello che ti pareva un miglioramento davvero utile, era comunque stimolante e pieno di interesse. Ora tutto questo è morto, nessuno fa più ricerca in Italia, non interessa investire in tecnologia, non è considerato importante pensare al domani. Sembra un costo. Incredibile, così tutte le linee, i frutti di decenni di studi, se le sono comprate gli altri che adesso ce ne rivendono i frutti. Per tutto il comparto sementiero, siamo ormai completamente dipendenti dall'estero. D'altra parte i soldi servono per altro. I 42 miliardi di euro per i nuovi cacciabombardieri, quelli ci sono.


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sabato 16 ottobre 2010

Il milione 28: Pane e cartamoneta.


Acquaviva, con le sue focaccine cinesi di cipollotti, le famose cong you bing, mi ricorda che oggi è il 5° World Bread Day. Scommetto che non lo sapevate. Certo questo è un alimento comune nelle sue più diverse forme, in ogni parte del mondo, Focacce di tutti i tipi, piadine, pizze, chapatti, nan, pittah arabe e tutta la miriade di pani lievitati salati e dolci, come i candidi e deliziosi panini con una specie di purea dolce all'interno che trovi in tutti mercati di Pekino e che Ping mi guardava mangiare golosamente, ridendo, perché par che laggiù, li mangino solo i bambini. Che delizia lo street food!Chissà se piacevano anche a Marco Polo, mentre si aggirava negli sterminati mercati della capitale, in cerca di buone occasioni e di affari. Non dimentichiamoci che lui era soprattutto un mercante e quindi la quantità, varietà e qualità delle merci che arrivavano da ogni parte dell'impero per fare ricca e incredibile quella città, lo attiravano come un' ape sui fiori, oltre che stupirlo in continuazione.

Cap. 94


E sappiate per vero che in Cambalu viene le più care cose e di maggiore valuta del mondo, e ciò sono tutte le cose che vegnon dall'India, come pietre preziose e perle, che son recate a questa villa e ancora che son recate dal Catai e da tutte altre province. E più mercatantie qui si vendono e qui si comprano; ché voglio che sappiate che ogni die vi viene in quella terra più di mille carrette caricate di seta, perché vi si lavora molti drappi e ad oro e a seta. E bene d'intorno a 200 miglie vegnono per comprare quello che bisogna, sicché non è maraviglia se tanta mercatantia vi viene.
E di certo con un simile giro d'affari non si poteva andare al baratto come spesso in Europa. Infatti ecco come ci racconta, e fu sbeffeggiato dai Veneziani assai per questa incredibile novità, il sistema della cartamoneta , istituito proprio da Kubilai.

Cap. 95


Or vi diviserò del fatto della seque (la zecca) e della moneta che si trova in questa città. Or sappiate ch'egli fa fare una cotal moneta dalla scorza di un albore ch'à nome gelso e di quella buccia fa fare carta come di bambagia e sono tutte nere. Così egli ne fa de le piccole che vagliono una medaglia di torneselli piccioli, l'altra un tornese, l'altra un grosso d'argento di Vinegia, l'altra un bisante d'oro e l'altra 2 e l'altra 5 e così fino a 10 bisanti. E tutte queste carte son suggellate dal grande sire e egli ne fa fare tutti li pagamenti in tutte le province e regni e nessuno osa rifiutare a pena della vita. E di questa moneta si paga ogni mercatantia e di perle, d'oro, ariento e di pietre preziose. E se a qualcuno si rompe o guastasi, il grande sire, incontamente gliene cambia, ma gliene lascia 3 per 100. E se qualcuno abbisogna di ariento e oro, va alla tavola e il grande Sire gliene da quanto vuole per queste carte.


Certo un sistema rivoluzionario, con tanto di oro a garanzia nei depositi di stato e cambio con tassi di commissioni, moderati tutto sommato. Che pacchia allora come ora, passare le giornate in questi mercati, osservando, valutando, contrattando. E che nostalgia, quel passeggiare tra le bancarelle sbocconcellando un panino dolce mentre il mio amico Ping se la ride sotto i baffi che non ha.

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venerdì 15 ottobre 2010

Recensione: Allende - Ritratto in seppia.

Oggi parliamo di un libro abbastanza conosciuto di Isabel Allende. Ritratto in seppia, del 2000, è il secondo volume di una trilogia che racconta una saga familiare densa di avvenimenti, fatti estremi, sensazioni forti che percorrono tutto la prima parte del secolo scorso. Sullo sfondo, un affresco a tinte fosche della storia del Cile con tutta la sua brutalità e le sue violenze, che possono dare un metro interpretativo e, se possibile, una qualche cifra di spiegazione agli orrori del periodo di Pinochet, quasi che questo male oscuro fosse da sempre presente nella mentalità e nei modi di essere di quel paese. Forse è vero che quando un paese ha dato spazio a momenti di folle truculenza, questi strazi, dati e subiti, rimangono poi a giacere nel substrato culturale di un popolo, sopiti magari per decenni; poi quando meno te lo aspetti, basta poco, una situazione di disagio, quasi sempre economico ed ecco che dalle fogne dell'inconscio riemergono mentalità, comportamenti, posizioni politiche estreme che per anni sembravano dimenticate e ricacciate nel fondo degli animi, quasi con vergogna.



Si dà quindi spazio senza più pudore, anzi giustificandole, alle prese di posizioni più volgari ed estreme; riprende a poco a poco la violenza delle parole seguita subito dopo da quella dei fatti concreti ed il sangue ricomincia a correre, fino a che, quando la massa di carnefici e di vittime sono finalmente ebbri e quasi disgustati dal sangue e dalle sofferenze, seppelliscono per un po' mazze e bastoni in attesa che tutto ricominci. Un paese in cui sono trascorsi meno di cento anni dall'ultima guerra civile, dovrebbe rimanere sempre sotto osservazione e avrebbe il dovere di stare costantemente in campana, per avvertire i momenti in cui cominciano ad occhieggiare i segnali di pericolo, che sono sempre così evidenti e palmari. Il libro, comunque si legge volentieri e si corre alla fine con piacere, anche se non si è incalzati dal desiderio di sapere come va a finire, pur lasciandoti la voglia di leggerti il seguito. Tre orette che si possono considerare non sprecate.





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La trilogia di Adamsberg.
Alexandros.

giovedì 14 ottobre 2010

Quel treno per Yuma.


La prima volta che la vidi, lei era in cima alla scala che andava in aula magna, in via Pietro Giuria. Era il primo giorno di Università e tutti si guardavano intorno un po' incerti in cerca di qualche appiglio. Aveva un abitino pied-de-poule bianco e nero e se ne stava ferma vicino alla balaustra come se stesse aspettando qualcuno. Le chiesi se anche lei fosse una matricola e se sapesse dove era l'ingresso dell'aula, che si vedeva benissimo lì dietro. Sembrava timida, un fragile stelo dorato da guardare e proteggere con cura e io, ragazzotto ancora piuttosto grezzo e lento nel ragionare (non che poi sia migliorato un granché), non potevo ancora rendermi conto che stava passando il treno più importante della mia vita, quello che per molti, meno fortunati, non passa neanche una volta e che io stavo lì alla fermata giusta. Lei, non ho ancora ben capito cosa ci vedesse in quel ragazzo spettinato con le idee poco chiare, mi scelse e mi ci fece salire su quel treno, che ancora viaggia sicuro su un binario che spero ancora lungo e sereno come è stato per trentotto anni. Un viaggio che può sembrare lungo, ma, forse perché è stato così interessante e fortunato, è passato in un attimo. Così oggi che è il nostro anniversario (tanto per cambiare credevo fosse due giorni fa, il 12 ottobre; mi confondo sempre con la scoperta dell'America, ma non è l'età, è che sono sempre stato così) voglio dedicarle quattro versi di Li Shizheng detto Duo Duo, un poeta cinese di Pechino quasi mio coetaneo che mi piace molto e che qualcuno definisce il poeta delle nuvole.



SOGNO

Andati, passati, tanti anni se ne sono andati
Tante gioie, poche tristezze
Il passato, sembra un carro segnato dai viaggi
Noi pure stiamo per perdere di vista il nostro villaggio...



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mercoledì 13 ottobre 2010

L'Uni3 ai Ferrovieri.


Noto che questa storia di Marco Polo mi ha coinvolto decisamente. Come mi ero accorto, scorrendo il libro, che le descrizioni, puntuali ed intriganti dei luoghi da lui visti, coincidevano perfettamente con la descrizione che ne avrei potuto dare io, settecento anni dopo, vedo che più ne esamino le pagine e più mi colpisce con le sue osservazioni sulla cucina, sulle abitudini, sulla politica di quei mondi lontani. Anche dalla collaborazione così intrigante con Acquaviva, saltano fuori ogni volta spunti interessanti e curiosi. Dato che evidentemente ne parlo spesso, lunedì scorso, ho accolto con piacere l'invito dell'amico Vittorio Babolin a farne l'argomento di una chiacchierata all'Università delle Tre Età di Alessandria. Devo dirvi che è stata una esperienza davvero piacevole, in quanto i miei dubbi che il tema presentato, già fin troppo conosciuto ai più, si rivelasse troppo scontato o noioso, sono stati subito fugati di fronte ad un pubblico assolutamente attento e partecipe, oltre che numeroso, che ha mostrato di apprezzare soprattutto il confronto tra le parole del libro con la realtà odierna sia dei luoghi che delle situazioni.

Di certo salire su quel palcoscenico del Dopolavoro Ferrovieri mi ha dato una bella sensazione, ma non solo per l'occasione specifica. Erano molti anni che non entravo più in quella grande sala, oggi rinnovata completamente (adesso si chiama Ambra , ma per noi rimarrà sempre I Ferrovieri), però, varcata la soglia, non ho potuto fare a meno di tornare ad emozioni antiche ma perfettamente presenti nella mia memoria. Sono passati più di cinquanta anni, da quando ragazzino, per mano a mio papà, a piedi d'inverno, con la mia bicicletta gialla col cambio di cui ero molto orgoglioso in estate, si veniva qui tutti i giovedì sera. Nella grande sala si sospendevano le proiezioni del film e ad un quarto alle nove, dopo Carosello, cominciava, attesissimo, Lascia o Raddoppia. C'era sempre un sacco di gente, quasi nessuno aveva un vicino in possesso di un televisore e le sale si erano organizzate, diversamente nessuno sarebbe andato più al cinema. Così guardavo con attenzione ed appassionandomi, tra i commenti furibondi degli spettatori, le performances dei vari concorrenti guidati dal buon Mike, già inevitabile futura icona del nuovo mezzo di comunicazione che molti desideravano, che pochi credevano di poter possedere nel loro futuro prossimo.

Mentre ci si meravigliava per le complesse risposte che venivano snocciolate nei canonici sessanta secondi, ben attenti al fatto che -La prima risposta è quella che conta! -, c'era sempre attesa sulle decisioni dei vari personaggi, se sarebbero caduti, se avrebbero tentato o meno di raggiungere i mitici 5 milioni del premio finale. Che non era mica poco, più o meno cinque anni degli stipendi dell'epoca. Ho ancora ben vivide le uscite estrose di Mariannini, il caso del controfagotto e la signora Longari caduta sull'uccello. Poi si vedeva il film, allora ai ferrovieri si faceva la terza visione e mio papà, socio di diritto in quanto Deviatore capo, aveva lo sconto sui biglietti, che mi pare costassero 80 lire. La sala era piena zeppa, gente in piedi e nuvole di fumo azzurrognolo che aleggiavano sulle teste. Emozioni antiche. Forse gli anni mi hanno reso troppo sensibile. Il mio, ormai amico, Marco Polo, avrebbe valutato piuttosto i soldi risparmiati con lo sconto sui biglietti e i rapporti costi/benefici dell'operazione.



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martedì 12 ottobre 2010

Il milione 27: Uova e signorine.

Il giovane Marco si è ormai calato completamente nella realtà della grande capitale Cambaluc e per molti capitoli ce la descrive nei suoi angoli più segreti ed interessanti, un po' come facciamo noi, quando, al ritorno da un bel viaggio, raccontiamo agli amici, magari un po' annoiati, le cose che ci hanno colpito. Era forse allora la più grande città del mondo con quasi un milione di abitanti, cifre a cui gli europei non erano certo abituati e men che meno il nostro giovane mercante dopo avere vagato per anni lungo le polverose piste dei deserti asiatici. Quindi ecco che passa subito ad un argomento che doveva essere un po' il metro di giudizio per valutare questo immenso aggregato urbano. La città era divisa per zone; oltre a quellla che gravitava attorno al palazzo reale, c'era l'area dei mercati, immensa e la città dei mercanti dove si radunavano le genti che arrivavano dai quattro angoli dell'impero, con i loro bisogni da soddisfare. Il tutto circondato da borghi dove si situavano i diversi servizi e coloro che vi provvedevano. E veniamo dunque a uno di questi, che evidentemente lui riteneva piuttosto importante.





Cap. 94

...e dentro la città non osa istare niuna mala femina che fa male di suo corpo per danari, ma stanno tutte negli borghi. E sì vi dico che femmine che fallano per danari ve n'à ben 20.000 e tutte vi abbisognano per la grande abbondanza di mercatanti e forestieri che vi capitano tutto die. Adunque potete vedere se in Cambaluc à grande abbondanza di genti, da chè male femine v'à cotante com'io v'ò contato.


Evidentemente questo particolare mestiere forniva un benefit, per così dire, piuttosto richiesto, da questa massa di uomini soli in giro per il mondo a far denari ed il giro delle escort veniva considerato come una imprescindibile necessità. Pensate un po' che mondo c'era a quei tempi. Nella Cina postmaoista il discorso della prostituzione si è piuttosto sfumato. Ufficialmente non c'erano, ma si sa che la realtà è sempre diversa da come viene dipinta, quindi di tanto in tanto, probabilmente quando era necessario mostrare rigore, ne acchiappavano qualcuna e veniva mandata in un Lao Gai di rieducazione a coltivare la terra. I cinesi ufficialmente sono molto prude, quindi di queste cose non si parla, ma già una decina di anni fa, quando bazzicavo i grandi alberghi di Canton, di tanto in tanto venivo avvicinato da esili signorine che, senza l'aggressività che si riscontrava negli Inturist russi, la prendeva alla larga, lanciando occhiate languide con la testa leggermente reclinata da un lato.


Credo che gli interessati abbiano sempre trovato con una certa facilità il materiale che cercavano. Oggi mi dicono che la globalizzazione stia uniformando anche questo settore commerciale che non ha mai conosciuto crisi. Figuriamoci in quella che si avvia a diventare la più grande economia mondiale. Lasciamo quindi i nostri mercanti sparpagliati nella miriadi di locande e nei ristorantini della città del commercio a chiacchierare con sottili allusioni, mangiucchiando qualche stuzzichino in attesa di andare a cena, magari con una tazziona di Mao Tai caldo e un piattino di uova dei cent'anni, ben disposte a fettine sottili, con l'albume diventato di un trasparente traslucido dal colore ambrato, col tuorlo rassodato quasi nero, dal sapore intrigante e misterioso. In realtà bastano sei mesi a farle, mi pare, dopo averle conservate con cura sotto uno strato di calce. Per saperne di più date un'occhiata da Acquaviva qui. Ma questo è un altro argomento e ne parleremo un altra volta.


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lunedì 11 ottobre 2010

Recensione: Valerio Manfredi - Alexandros.

Non vorrei essere troppo spietato, anche per non essere tacciato di supponenza, ma il tempo da impiegare per leggere questa, come a questo punto credo, altre opere della sterminata produzione di questo autore, mi sembra davvero tempo che poteva essere più utilmente impiegato, ad esempio a piantare cavoli, verdure invernali dalle innumerevoli proprietà benefiche e antitumorali. Cosa che, oltretutto, contribuirebbe a migliorare la vostra efficienza fisica. Una scrittura raffazzonata e tirata via, come buttata lì per riempire velocemente le pagine, quasi una sorta di stile da romanzo rosa trasposto nel romanzo, per così dire storico, senza altre velleità se non quella di vendere delle copie, rivolgendosi ad un pubblico di bocca buona e che si è stufato di fare le parole crociate. Siccome sono ottimista per natura e voglio comunque cercare in ogni cosa almeno l'ombra di un lato positivo, posso azzardare che potrebbe avere quanto meno, la finalità, attraverso la sua facilità di lettura, di avvicinare al libro, questo oggetto semisconosciuto, qualche ragazzo uso soltanto all'utilizzo della playstation, appassionandolo magari ad affrontare in seguito cose più impegnative, oltre ad appassionarlo alla storia, che è sempre un bell'argomento. Comunque, se mi date retta, voi non perdeteci tempo.




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La trilogia di Adamsberg.
Lettera a Berlino

sabato 9 ottobre 2010

Carta di caramella.



Ho riflettuto sul post di ieri e devo dire che non c'è solo il portafoglio e la certezza della pena per rendere più civili le persone. A volte basta anche un insegnamento come si deve. Io, che ne ho vissuto uno sulla mia pelle, posso confermare che spesso funziona egregiamente. Facevo la prima elementare ed ero un graziosissimo bimbo paffuto e birichino (eheheheh), almeno così amo pensare. La maestra Fracchia era l'archetipo di tutte le maestre, rigida come un palo, sempre vestita di tutto punto e severissima. Ci teneva molto alla bella calligrafia e ancora conservo un suo biglietto di felicitazioni che mi mandò quando le mandai le mie partecipazioni di matrimonio (allora si usava così). Una scrittura perfetta e con gli svolazzi in cui immagini lo scorrere veloce di un pennino d'oro sulla carta spessa e leggermente crespata. Doveva essere davvero un piacere scrivere in quel mondo lontano.


Va beh, sto divagando, in realtà la scuola di allora, dove facevo le mie regolari pagine di puntini e di aste, nella sostanza non era poi così diversa dalla scuola di oggi, checché se ne dicano i vari anziani lamentosi e orfani del buon tempo antico. La brava maestra cercava di insegnarci a scrivere, leggere e far di conto e possibilmente anche un po' di buona educazione. Finita la mattinata, la classe smaniosa di uscire sulla piazza dove un drappello di madri aspettava ansiosa, non aveva licenza di uscire allo sbando, di corsa e con le urla furiose a cui i pargoli anelavano, ma veniva ordinatamente disposta in fila per due fuori dalla classe, giungeva al passo sulla gradinata dell'uscita e dopo un controllo finale, cartelle alla mano, per vedere se tutto era in ordine, la maestra dava l'atteso rompete le righe che preludeva la corsa verso le genitrici. Quel giorno avevo mangiucchiato all'ultimo momento una caramella alla liquerizia, di cui il vicino di banco ricco, che ne aveva sempre abbondante scorta, mi aveva, per simpatia, beneficiato.


La succhiavo così beato che mi ero trattenuto distrattamente in mano la carta appallottolata, di cui avvertii la ingombrante presenza, solo quando ormai eravamo disposti in bell'ordine sulla scala dell'uscita. Prima che la maestra, impettita, ci desse il saluto, con mossa che ritenevo di grande destrezza, lanciai la pallottola di carta verso l'esterno della mia fila. Uno sguardo di brace mi trapassò da parte a parte, tra l'incredulo e l'inorridito. Prima ancora di sentire la sentenza avevo capito il mio tragico ed irreparabile errore. Di fronte al capannello di genitrici attonite che, mi parve avessero addirittura smesso il consueto chiacchiericcio, la voce gelida e ferma mi latrò: -Raccogli subito quella cartaccia- mentre un dito indice, puntato inesorabilmente verso di me, mi condannava senza appello. Avrei voluto sprofondare per sempre nell'oblio dell'Ade. Nel terribile silenzio che ne seguì, uscii dalla fila, rosso come un peperone a cancellare la traccia della mia malefatta. Non mi ricordo, nel resto della mia vita di aver subito una umiliazione più forte. Ho cancellato dalla memoria il resto della giornata, perchè il nostro io interiore è clemente con sé stesso; le ferite guariscono, ma le cicatrici, quando ci passi sopra il dito sembrano, misteriosamente bruciare ancora. Non sono mai più riuscito a buttare un pezzo di carta per terra.






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Toccare nel portafoglio.

Grassi e zuccheri.

venerdì 8 ottobre 2010

Toccare nel portafoglio.

Hai voglia a dire che alla gente le cose bisogna insegnarle, che con la civiltà e l'istruzione viene anche la correttezza e il rispetto delle regole. Mica vero. Se vuoi ottenere qualche cosa su larga scala, c'è un solo sistema: certezza di essere acchiappati e essere toccati nel portafoglio. Si impara subito e non si sgarra più, diventa una specie di riflesso pavloviano. Siete mai stati a Singapore?. E' una magnifica città, colori e sapori esotici del sud-est asiatico, modernità assoluta ed efficienza, sensazione di tranquilla sicurezza quando giri per le strade, pulizia inusuale per l'Asia (ma le cose stanno cambiando rapidamente anche dalle altre parti), immagine di benessere abbastanza diffuso e qualità di vita occidentale. E' un melting pot di almeno quattro etnie principali che sembrano vivere assieme senza troppi attriti. Per forza, mi direte, si tratta a tutti gli effetti di una dittatura e quando c'è un tiranno che comanda, la maggior parte della gente riga diritta se no gli spaccano la testa e le insofferenze tra gruppi diversi non sono visibili, si credono inesistenti, invece, magari, sono solo assopiti in attesa di deflagrare come Yugoslavia insegna.

Certo, però in riferimento all'assunto iniziale, Singapore è una città molto indicativa. Viene chiamata anche The fine city, gioco di parole che accanto al significato La bella città, lascia trasparire anche quello di Città delle multe. Infatti la cosa che più mi colpì mentre passeggiavo per i magnifici parchi e per le eleganti strade del centro, fu la impressionante serie di divieti segnalati dappertutto da appositi cartelli con icona facilmente interpretabile, una figurina indicativa attraversata da una sbarra rossa con l'indicazione dell'entità della multa. Ad esempio Vietato fumare, multa 50$. Severamente vietato fumare, 100$. Vietato sputare, 150$. Vietato fare pipì nell'ascensore, 200$ (questo stava dentro l'ascensore). E così via con un impressionante serie di divieti da fare invidia al più fantasioso sindaco padano. Allora? Sono in fondo cose vietate dappertutto. Perché lì si rispettano? Semplice, perchè ti beccano sempre, invariabilmente e paghi senza pietà. Si era fuori da un locale e un mio amico fumava sul marciapiede, essendo ovviamente vietato farlo all'interno. Terminata l'operazione, prima di rientrare, gettò la cicca per terra, incurante del cartello barrato di rosso con la manina che gettava una cartaccia.

Tanto chi vuoi che ti veda. Non aveva ancora fatto un passo che una mano lo toccò sulla spalla e un piccolo cinese con apposita fascietta al braccio, gli disse:- Sorry sir - e intanto aveva già cominciato a scrivere su un blocchetto la ricevuta di 50 $. Mai più buttata una cicca. A parte i 50 $, è la certezza di essere beccato sempre a rendere insensato il gesto. Se tu fossi sicuro che ogni volta che dai o prendi una tangente (anche piccola, sui 100.000 €) o quando ti trovi un appartamentino senza sapere chi te lo ha regalato, ti porteranno via con le manette, avremmo i politici più onesti del mondo. Però non ho mai capito come facevano a beccarti, quando ho visto in un cesso di Sentosa Island, proprio davanti al porto di Singapore, il cartello Vietato non tirare lo sciacquone, multa di 50 $. Ho guardato con imbarazzo se ci fosse una webcam sopra il water, ma nell'incertezza ho premuto il bottone due volte.


PS Aggiungo questa che mi manda Diego e che anche io ho visto frequentemente in Cambogia.











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giovedì 7 ottobre 2010

Grandi magazzini.

Quando l'autunno si fa più fresco e la nebbiolina comincia a calare dalle colline e si avverte l'incombere dell'inverno, inevitabilmente mi prende la nostalgia di Mosca e di quegli anni di cambiamento così interessanti per uno come me, che ero solo e fortunatamente un osservatore esterno. Nostalgia del freddo e delle strade fumose, di quel buio anticipato che avvolgeva la città malamente rischiarato dalla fioca luce gialla dei lampioni, della solitudine di quelle strade larghe, malandate e prive di macchine. Quando passeggiavo lentamente sui grandi marciapiedi sconnessi, con la shapka di pelo giallo calata sulla testa e la sciarpa bene avvolta attorno alla bocca, che il gelo non penetrasse diretto a darti quella sottile fitta dolorosa che segnalava una temperatura a cui non ero abituato, finivo invariabilmente sulla Piazza Rossa, dopo aver traversato con calma il grande spiazzo dell'ippodromo.

Non c'era ancora il grande portale ricostruito qualche anno dopo a simiglianza dell'originale e, passato il severo edificio del museo Lenin, arrivavi sulla grande piazza quasi deserta, camminando sul selciato leggermente bombato, grigio e in attesa della prima neve. Sul fondo le guglie colorate di San Basilio, occhieggiavano a contrasto dei severi graniti scuri del tromboneggiante mausoleo addossato all'alto muro del Cremlino. Ti dava la sensazione di una sonnolenta attesa, di una minaccia di cambiamento, desiderato ma temuto al tempo stesso, quasi che le novità non potessero mai essere positive. L'unico movimento consistente era sul lato sinistro della piazza e nelle vie che lì convergevano. La gente intabarrata in cappotti lisi e dublionke spelacchiate, le donne ingolfate in vaporosi maglioni di angora cinese, arrivavano a frotte e si buttavano, per sfuggire alle folate del vento del nord, nel lungo edifico che si stendeva su tutto quel lato della piazza.

Erano i magazzini GUM (Gosudarstvennyi Universalnyi Magazin - Negozio generale statale), allo stesso tempo paese dei balocchi e vetrina/immagine dell'URSS di quel tempo. L'edificio della fine dell'800, chiaramente ispirato alla moda dei magazzini La Fayette, non ne aveva comunque saputo copiare la graziosa leggerezza, ma la sua voluta grandiosità ne dava una versione pesante e provinciale, tipica di chi, potente, vuole adeguarsi a mode ed eleganza che non gli sono propri. L'edificio aveva però, nel tempo, acquisito una sua dignitosa maestosità. Entravi attraverso le triple porte sgangherate, dove una corrente simile ad un uragano soffiava costantemente. Era la differenza, a volte di 50 gradi tra interno ed esterno a renderla così violenta e costante. Così superato il passo ti trovavi di colpo, dal gelo della strada, immerso in in una atmosfera di caldo umido e sudaticcio a cui presto l'olfatto si abituava. Ti aprivi i bottoni, ti allargavi la sciarpa e subito il senso di disagio si affievoliva. Come fa presto l'uomo ad abituarsi alla puzza, al marcio, al disagio fisico a cui segue con facilità quello morale. In poco tempo tutto sembra naturale, normale, visto che se lo fanno tutti sarà giusto così. Davanti a te si apriva la prospettiva delle tre grandi gallerie coperte a tre piani su cui si apriva la sfilata dei negozi che gli avevano conferito il nome originale Verchnie torgovye rjady (serie di negozi di qualità).

Era tutto un alternarsi di punti vendita del più famoso artigianato russo, inframmezzate da negozi di abiti, cappelli, scarpe ed altri beni di consumo ambitissimi dai moscoviti e nella maggior parte dei casi desolantemente semivuoti o con qualche campione polveroso, esposto malamente sugli scaffali. Eppure questa era la vetrina dell'URSS ma dei frigoriferi erano esposte solo le fotografie e tu potevi entrare e metterti in lista, dopo avere pagato naturalmente, per avere la possibilità che un giorno indefinito ti fosse consegnato il bramato elettrodomestico. Era questa, assieme alla proverbiale scortesia e scontrosità delle commesse, la sua principale caratteristica. Io me ne andavo qua e là, godendomi i punti di vista migliori, come quello dello spazio centrale, dove dalla seconda galleria dominavi la grande fontana che occupava l'incrocio con i corridoi laterali, sotto la cupola di vetro liberty. Mi godevo tutti i banchi snobbati dai russi, perdendomi tra le scatolette di Palech mirabilmente miniate, le spille di legno colorate, i grandi scialli neri ricamati a fiori, gli splendidi giocattoli di legno, i pendenti dell'ambra del Baltico, i grandi cucchiai e i contenitori in legno rossi e neri con i motivi dipinti in oro, le bambole ukraine. Mi attirava morbosamente un grande negozio dove erano ordinatamente esposte le stupende ceramiche di Djel, bianche e azzurre, dove lasciavo invariabilmente il mio obolo, andandomene col mio pacchetto avvolto in una vecchia Pravda che conteneva un piatto portauova con la tenera gallina portasale al centro o un tazza dai bordi delicati, il cui decoro era firmato da qualche sconosciuta artista.

I prezzi erano ridicoli per noi che con la forza del dollaro stupravamo quella debole e traballante economia. Adesso le cose sono cambiate, innanzitutto la G di GUM non significa più Statali ma Grandi e ogni negozio esibisce le più famose griffe mondiali della moda, dei profumi, dei gioielli, del lusso, dedicata al nuovo russo. Niente più spazio per delicate ceramiche, tazze colorate, colbacchi di volpe, piccole sculture di osso siberiane, ma solo la volgarità internazionale di scarpe sportive americane fatte in Indonesia, vestiti con scritte confezionati in Cina, profumi con nomi francesi, gioielli dalla forma italiana. Avranno certamente cambiato anche le pesanti porte a vetro cigolanti e al posto del vecchio bar che serviva solo butterbrodi secchi con burro e aringa, adesso ci sarà un bel locale con aperitivi e cocktails internazionali. Però la gente continuerà a scorrere davanti alle vetrine allora vuote, adesso colme di cose che non può comperare, lanciando le stesse occhiate tristi in attesa di un cambiamento, come sempre desiderato e temuto, anche se come è sempre stato, bisogna che tutto cambi perché tutto rimanga come prima.



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