venerdì 31 gennaio 2014

Neve candida

La neve attenua tutto. Cala e copre. Attutisce i rumori, le voci, le scemenze. Quasi come se ci fosse una pausa, dei puntini di sospensione, un attimo di tregua nel bailamme dei muggiti inconsulti del popolo bue,  nell'urlare caciaroso della folla che capisce tutto e che dunque vuol dire la sua sui buchi neri dei politici, sull'innesto delle staminali nella sovranità alimentare, sui bilanci delle bilance e delle banche, sulla legge e su chi scrive senza leggere; poi tira le conclusioni e dà giudizi sulla fattibilità delle grandi opere, incluse quelle liriche e tante altre cose. Pessimi allievi assieme a cattivi maestri. Poi non basta più e quindi, per distruggere ogni cosa e far trionfare finalmente l'ignoranza, devi diventare eversivo e passare dalle parole pesanti ai fatti, lamentandosi certo anche se ti danno uno spintone, tutto fa brodo. Però per non sentirli più, questi fastidiosi rumori, devi spegnere l'elettrodomestico e anche tutto il resto da cui ormai siamo circondati, iphone, ipod, ipad, iminch e uscire in strada dove senti solo il rumore delle tue scarpe che fanno crunk, crunk nello strato spesso ed ovattato. 

Escono in pochi per fortuna, così non incontri neanche nessuno, meglio, nessuno che conosci, se no magari ti vuole spiegare che regalano i miliardi alle banche invece di aumentargli lo stipendio. Glielo hanno raccontato così e lui che non sa neanche che cosa sia un bilancio, forse crede che sia il maschio della basacüla come si dice da noi, ma chi glielo ha inculcato nel testone vuoto, che lo sa benissimo, invece è colpevole e sarà dannato, solo che approfitta dell'ignoranza per spargere veleno per i suoi fini. Quanto rumore e strepito senza senso. Invece così cammini quasi nel silenzio, meglio se la prendi larga e passi dai giardini della stazione, lì gli spazi sono più aperti, gli alberi carichi, accidenti se pesa la neve bagnata, quei rami sembrano quasi spezzarsi, come la pazienza di chi continua a sopportare che tanti incompetenti idioti e cattivi, sgomitino per entrare dove c'è il potere e poi invece di partecipare, aiutare a migliorare, provochino solo danni. Ma la neve è bianca sopra il prato, intonsa, così pura, meglio rimanere sul vialetto per non toccarla, non sporcarla. Tanto domani sarà tutta fanghiglia sudicia e nera e io ho già le scarpe bagnate, meglio che me ne torni a casa.

Se ti è piaciuto questo post, ti potrebbero anche interessare:

giovedì 30 gennaio 2014

Xuě

Accidenti, tanto l'abbiamo aspettata che alla fine è venuta e continua a cadere senza dar cenno di smettere, bellissima, candida e pura mentre scende, domani già putrida fanghiglia, un po' la storia della vita umana, la fine delle belle intenzioni. Anche i poeti cinesi amavano la neve e eccone il bell'ideogramma, dove dalla volta del cielo vedete chiaramente scendere i fiocchi, sotto, tenerissima la scopa con cui spazzarli via dalla soglia di casa. La pronuncia data dal terzo tono alto-basso-alto, così cantilenante ed il suono alla fin fine non troppo dissimile dall'altra parola: acqua (shui) da cui deriva fisicamente. Tantissime le parole composte con questo ideogramma, ma tutte concettualmente uguali alle nostre: Uomo di neve -雪人-xuě rén, fiocco di neve 雪片- xuě piàn, cumulo di neve 雪堆-xuě duī, bianco come la neve 雪白-xuě bái, palla di neve 雪球-xuě qiú e così  via. Molto carina l'espressione poetica comune in epoca Qing per rappresentare il mondo invernale del grande nord cinese: 冰天雪地-bīng tiān xuě dì (Ghiaccio, cielo, neve, terra) cioè Un mondo di neve e ghiaccio. Logico è 雪崩- xuě bēng (la neve che crolla) : Slavina, valanga. Invece il Cedro è il Pino della neve: 雪松- xuě sōng . Se invece mettiamo la Neve davanti al carattere di Ingiustizia 雪冤- xuě yuān otteniamo Riparare ad una ingiustizia, perché una grave ingiustizia si può riparare solo seppellendola davvero sotto un manto pesante che la nasconda per sempre agli occhi del mondo, quindi lavare un'offesa, come diciamo noi equivale in cina a Ricoprire di bianco. Curioso e di difficile spiegazione è 雪茄- xuě jiā, letteralmente La bacca con la neve che significa ....Sigaro, forse per la sua cicciosità rispetto alle sigarette e alla spessa parte di cenere bianca che si forma sulla sua punta. Invece 雪花膏- xuehuā gāo (la pasta fiore di neve) è la crema per il viso che deve avere come caratteristica principale quella di fare apparire il viso il più bianco possibile, al contrario di quanto avviene in occidente, eh, le donne! Bene, vi lascio sperando che questa sia soltanto una 小雪- xiǎo xuě - una  Piccola nevicata, diversamente vedremo di scendere in cortile a 掷雪球- zhì xuě qiú  : Lanciare palle di neve!


Se ti è piaciuto questo post, ti potrebbero anche interessare:

mercoledì 29 gennaio 2014

Una poetessa vietnamita


In questa marcia a tappe forzate che mi sta portando a passi lenti sulla strada del Vietnam, vorrei parlarvi oggi di Xuân Hương Hồ, una poetessa vietnamita vissuta alla fine del 1700 durante la dinastia , un'epoca difficile piena di disordini politici e sociali, guarda caso un periodo di rivolte contro il potere che portarono al regno di Nguyễn Ánh. Tuttavia era anche un periodo in cui la cultura era estremamente raffinata e la nostra signora è ricordata come uno dei capisaldi del pantheon della letteratura vietnamita, come ricorda il poeta moderno Xuân Diệu  che la definisce: la regina della poesia nôm. Ebbe due o tre mariti, tutti deceduti prematuramente, anche se almeno in un caso fu solo una seconda moglie, quasi una concubina, cosa che dovette darle parecchio fastidio, se scriveva a proposito di ciò: "E' come essere una serva ma senza essere pagata". Successivamente, da vedova, tenne una specie di salotto letterario dove convenivano diversi poeti e letterati e dove si facevano giochi letterari più o meno leggeri. Essendo quindi indipendente il suo comportamento non era di certo in linea secondo la morale confuciana dell'epoca e proprio per questo, successivamente molte femministe si sono ispirate alla sua opera.

Oltre al suo grande valore artistico, la nostra era evidentemente una donna di pensiero molto indipendente come si nota leggendo le poesie che sono arrivate fino a noi, caratterizzate da una grande delicatezza di immagini, ma che tuttavia non disdegnano la trattazione di argomenti azzardati. Per questo motivo, pur essendo sicuramente esistita, secondo alcuni storici, il suo nome era anche uno pseudonimo con cui scrivevano diverse poetesse che vollero rimanere anonime, proprio a causa degli argomenti trattati. Purtroppo come sempre la traduzione tarpa quasi completamente la totalità del valore letterario di una poesia. Ancora di più il farlo dalla lingua vietnamita alla nostra. La prima perdita è quella della straordinaria musicalità derivata dai sei toni in cui viene pronunciata questa lingua monosillabica; in secondo luogo diventa intraducibile la grande varietà di allusioni e doppi densi che si ottengono dal gioco di parole delle sillabe, ognuna delle quali ha forzatamente molti significati diversi. Infine si perde anche la grande bellezza dovuta alla calligrafia degli ideogrammi  che contribuiscono al piacere di leggere questi lavori. Rimane soltanto quindi la bellezza del concetto in sé, che tenterò di riportarvi in un paio di esempi, pur considerando che vi proporrò una traduzione di una traduzione. Xuân Hương Hồ scriveva in quartine di settenari rimate a,a,b,a. 


Thiếu nữ ngủ ngày



Mùa hè hây hẩy gió nồm đông
Thiếu nữ nằm chơi quá giấc nồng

Lược trúc lỏng cài trên mái tóc
Yếm đào trễ xuống dưới nương long
Ðôi gò bông đảo sương còn ngậm
Môt lạch đào nguyên suô'i chưa thông
Quân tử dùng dằng đi chẳng dứt
Ði thì cũng dở ở không xong.



Una ragazza assopita in pieno giorno.

Tra i fremiti di una brezza d'estate,
appena distesa si assopì la fanciulla.
Il fermaglio dai capelli è scivolato,
il corpetto di porpora s'è aperto ed allentato.

Non gocce di rugiada sulle due colline del paese delle fate,
e la sorgente dei fiori del peccato ancor non sboccia.
Il gentiluomo, esitante, non riesce a staccarne lo sguardo;
andarsene una pena, sconveniente restare.


Quest'altra invece più birichina.


Thân em như quả mít trên cây

Da nó xù xì, múi nó dầy.
Quân tử có yêu thì đóng cọc,
Xin đừng mân mó, nhựa ra tay.


Il jackfruit

Il mio corpo è come un frutto sull'albero del pane.
La sua scorza un po' ruvida, ma la sua polpa così soda.
Se volete gustarlo, o mio signore, infilategli il vostro picchetto
ma senza accarezzarlo troppo o il suo succo vi colerà sulle dita.

Chi fosse interessato ad altri lavori (in inglese) di questa poetessa alla quale in quasi ogni città viene dedicata una via, dia un'occhiata qui.


Se ti è piaciuto questo post, ti potrebbero anche interessare:

Una sera di fine estate.
Più caldo.
Imperatore cinese.
Xiōng,Mèi,Jiě,Tài.
Nán 

Per un amico triste.

martedì 28 gennaio 2014

Don't cry for me Argentina

Tango argentino - dal web


Voglio tornare su un argomento di cui ho già parlato, non tanto per esaminarlo nel dettaglio, ma perché, a mio parere, serve da utile dimostrazione di come l'evidenza dei fatti e il buon senso non contano nulla di fronte alle arringhe dei capipopolo, che poi travalicano invadendo il web che fa cassa di risonanza alle bufale più potenti o alle ideologie più becere, che tuttavia spesso, diventano vere e proprie correnti di pensiero e condizionano scelte importanti e a volte vitali, caso Stamina insegna. Avevo parlato della mia esperienza argentina e di come la combinazione mortale che, proprio grazie al popolo sempre illuminato nelle sue scelte, aveva alternativamente portato quel disgraziato (anche se ricchissimo) paese, ad essere governato da Grilli e Berlusconi in alternativa, quando non conglobati assieme nella stessa persona. Questo aveva condotto la nazione, attraverso anche a una terrificante dittatura (ci si passa sempre in questi casi), alla distruzione totale, culminata con un bel default che ha massacrato la quasi totalità del  popolo stesso, distruggendo completamente risparmi, pensioni e lavoro, altre alle vite umane. Una corrente interessata di pensiero ha cominciato a far circolare l'idea balzana che questa soluzione (quella di non pagare i debiti) fosse una idea brillante e risolutiva per chi la fa. Un sistema economicamente percorribile per far ripartire la giostra, fottendo chi si è fidato (e uno potrebbe dire chi se ne frega) e salvando invece i cittadini del paese stesso. Una strada quindi da consigliare e da seguire. Quindi se vi volete districare tra le tante castronerie del web, facendo lo slalom tra le scie chimiche, le porcherie mortali dei poteri dei banchieri e delle multinazionali, le sirene e i cancri provocati dai cibi acidi e OGM, trovate pagine e pagine di incitamento all'uscita dall'Euro e dal conseguente default come brillante soluzione della crisi italiana, condito e giustificato dalle scemenza varie catalogate come sovranità economica, fiscale, politica, alimentare, misura delle zucchine e chi più ne ha più ne metta. 

Ora, prescindendo naturalmente dal lato morale, ma lì ognuno si trova facilmente le sue giustificazioni, anche le SS si sentivano a postissimo moralmente, e non considerando che l'Argentina è un paese il cui debito ammontava a poco più di un centinaio di miliardi (nulla in confronto coi nostri 2 mln di mld), che il debito era nel confronto di soli prestatori esteri e che in teoria non avrebbe riguardato risparmiatori argentini (mentre in Italia oltre il 50% del debito è verso i cittadini stessi, spesso i pochi risparmi di una vita che consentono al sistema di andare ancora avanti nonostante la crisi) e che l'Argentina è un paese molto ricco di materie prime su cui fare conto appena tirata la riga sul debito pregresso e su cui basarsi per ripartire, mentre l'Italia al contrario, si può basare solo sulle parole e sulla sua capacità di convincere il resto del mondo della propria credibilità, quello che è accaduto ed accade in quel paese dovrebbe essere così lampante ed evidente da spazzare via tutte le infami campagne antieuro condotte solo da quei partitelli che non sapendo più dove parare per raschiare qualche voto, oltre a quello dei razzisti più beceri o alle estreme più rigorose, battendo la grancassa del vento antieuropeista che spinge in questo momento. Naturalmente il Masaniello gran cacciatore di voti, si aggancia a questo vento promettente, pronto a mollarlo non appena ci sia qualche altro argomento arruffapopolo da accogliere. Un suo carissimo estimatore anonimo che aveva la bontà di commentare le mie posizioni, con un certa simpatica decisione, come sempre in questi casi, certo delle sue verità, (per fortuna che qualcuno ha voglia e tempo di mettere un po' di pepe in questo blog, diversamente piuttosto insipido) mi aveva duramente caricato, portando a dimostrazione il fatto che suoi conoscenti argentini, stavano benissimo e che il paese andava alla grande, proprio grazie al default risolutivo. 

Aveva anche allegato interessanti grafici a dimostrazione di come l'Argentina sta andando economicamente benissimo adesso. Quello che ho visto io laggiù una decina di anni fa, il disastro economico, il totale disfacimento morale e materiale di una nazione con i morti di fame e la gente che dormiva nei cartoni per le strade, la nascita delle nuove favelas, erano solo mie fantasie, adesso tutto va benissimo. Purtroppo i nodi vengono sempre al pettine ed i numeri presentano il conto prima o poi. Non è passato neanche un decennio e ci siamo di nuovo. Nonostante la crescita ottenuta grazie all'export delle immense possibilità del loro agroalimentare, tutto si è presto esaurito, l'Argentina è di nuovo sull'orlo di un'altro default. L'altro giorno il peso è stato svalutato del 120% e avanti col tango. Io faccio i migliori auguri ai suoi parenti di laggiù e prego ogni giorno che qui da noi non si cada mai, grazie alla follia dei votanti, nelle mani di questi personaggi nefasti come pochi che si aggirano in questo periodo per l'Europa. Se un paese è caduto nelle difficoltà economiche questo è dovuto al fatto che la stragrande maggioranza dei suoi cittadini ha vissuto al di sopra delle proprie possibilità, sperperando, corrompendo e mal comportandosi verso lo stato anche nelle piccole cose e mandando al governo le persone che queste cose consentivano (facendole loro stessi più in grande) perché facevano comodo a tutti ed alla fine nessuno ti viene a togliere le castagne dal fuoco, nessuno può dar la colpa agli altri, da queste stesse difficoltà se ne può uscire solo con le proprie forse, con un ritorno alla realtà senza scorciatoie alle spalle di altri. 

Se ti è piaciuto questo post, ti potrebbero anche interessare:

lunedì 27 gennaio 2014

Il Tai Ji e la respirazione

Abbiamo visto come il Tai Ji, i suoi esercizi preliminari di riscaldamento o di distensione, lo studio delle tecniche ed infine lo sviluppo delle diverse forme, sono sempre molto lontani dall’approccio comune agli sport ed agli esercizi salutistici delle ginnastiche Occidentali, tesi generalmente a forzare posture, muscolatura e legamenti del corpo, nell’intenzione di spingersi sempre un poco al di là della propria possibilità, nel tentativo di raggiungere e superare se possibile il proprio limite. Questo approccio, molto comune nelle nostre palestre dove, attraverso stretching e macchine varie, si tende sempre ad esagerare un poco la nostra prestazione, forzando ogni parte del nostro corpo e che vorrebbe avere come fine il desiderio di migliorare le proprie capacità fisiche è, secondo la filosofia del Tai Ji e del Qi Gong una fonte di stress che danneggia l’equilibrio psicofisico finale dell’individuo, quando non, in alcuni casi, diventa fonte di usura e traumatismi inutili o peggio dannosi al corpo stesso. Questo fatto è ben noto ai praticanti di ogni sport che voglia essere fatto a livelli agonistici, dove gli allenamenti sono spinti al massimo. Nella pratica del Tai Ji, invece, si deve seguire un concetto completamente diverso. Ogni movimento che si studia e l’esecuzione delle diverse forme, non devono mai andare oltre i limiti che impone il proprio stato fisico, anche in rapporto all’età. L’esecuzione ad esempio di un calcio non è “giusta” solo se la gamba viene alzata fino ad una determinata altezza, ma lo è per il modo e l’atteggiamento con cui questo viene eseguito. 

Così un ottantenne può alzare una gamba solo di pochi centimetri, mentre al contrario  un giovane atleta la solleverà fino all’altezza del capo e oltre. In entrambi i casi la tecnica può essere stata eseguita alla perfezione o meno. Quello su cui deve essere portata l’attenzione non è il modo, ma il come i movimenti vengono eseguiti. E’ fondamentale soprattutto la circolarità dei movimenti ed il loro fluire; tutti devono partire da un impulso che nasce all’interno del corpo e dalla loro coordinazione con la respirazione. La respirazione profonda, diaframmatica, anche se leggera e non forzata è la chiave dell’esercizio, il suo “valore interno” (Nei King).  Ogni qualvolta le braccia od il corpo si protendono in avanti si attuerà una fase espiratoria. Al contrario si avrà inspirazione nei movimenti in cui il corpo e le braccia si ritirano all’indietro. Difficilmente il neofita potrà dedicarsi a questo aspetto se non superficialmente all’inizio dello studio, tutto preso come ovvio, dalla necessità di imparare le singole tecniche e di memorizzare la sequenza della forma, ma quando sarà padrone della fase mnemonica, dovrà dedicarsi decisamente ad eseguirla con la corretta respirazione. Diversamente il suo, rimarrà un semplice esercizio fisico fine a se stesso e privo di tutti i benefici accessori di equilibrio psicofisico  che il Tai Ji promette ai suoi praticanti, fino a quel momento non avrà seguito altro che una qualunque forma di banale ginnastica. La respirazione, in particolare nello stile Yang, deve avere un suo ritmo fisso, proprio di ogni individuo, deve accoppiarsi ad ogni tecnica, la quale necessiterà di uno o due cicli respiratori. 

Deve essere allo stesso tempo descrivibile e senza forma, concentrata e raccolta, circolare ed elastica. Quando l’esecuzione è corretta, ad una apparenza fisica di estrema morbidezza, deve accoppiarsi la sensazione interna della durezza dell’acciaio. Tutto questo deve produrre, al termine dell’esercizio, una sensazione di riposo e tranquillità fisica e mentale come se ogni cellula del nostro corpo avesse acquistato nuova energia. La mente è armonica e lo spirito sollevato; ci si sentirà gioiosi e con un senso di tranquillità e di forza serena dentro di noi. L’esercizio eseguito con costanza ed in modo corretto, non stanca e quando termina, non ci si deve sentire sudati o provati.  Ecco perché una pratica costante può aumentare la nostra attenzione e la nostra efficienza nella vita e nelle attività quotidiane. Questo sistema di respirazione era ampiamente studiato ed applicato sia dal taotismo che dal buddhismo nelle meditazioni e anche a fini salutistici, richiedendo lo sviluppo di una sorta di energia interna, forse quella che noi occidentali avvertiamo quando ci sentiamo particolarmente tonici. Nessuna meraviglia, quindi, se l’applicazione costante di questo modello respiratorio nell’esercizio del Tai Ji, che se praticato correttamente può arrivare ad un volontario rallentamento del battito cardiaco e del metabolismo generale, con positive ricadute sul benessere psicofisico, si possa considerare come uno dei metodi più efficaci di allenamento, abbracciando allo stesso tempo i principi della moderna psicologia, fisiologia, igiene mentale assieme alle diverse dinamiche salutistiche.

Refoli spiranti da: Fundamental of Tai Ji Quan - Wen Shan Huang - Hong Kong -1973

Se ti è piaciuto questo post, ti potrebbero anche interessare:

domenica 26 gennaio 2014

Recensioni: T. Terzani - Pelle di leopardo

Un libro che si legge bene dopo 40 anni dal momento in cui si sono svolti gli avvenimenti descritti. Già giovanissimo, Terzani si dimostra un grande giornalista, attento e preciso nei racconti e soprattutto a controllare le sue fonti, un ottimo scrittore. I fatti riportati per sentito dire sono sempre circondati dal dubbio e pur essendo al tempo affascinato da questa avventura rivoluzionaria, continua sempre a porsi domande e a tentare giudizi obbiettivi e soprattutto si sente disposto a cambiare idea nel momento in cui la realtà si disveli diversa da quanto creduto. Un libro fondamentale e documentatissimo per chi vuole conoscere la guerra del Vietnam in tutti i suoi risvolti precedenti e in quelli precursori  degli avvenimenti futuri. Terzani fu uno dei pochi giornalisti presenti alla caduta di Saigon, che racconta in maniera coinvolgente. 

La concitazione incredibile di quel momento tragico, con la fuga finale degli ultimi americani, le miserie e le disperate furbizie dell’ultimo momento quando le sorti del conflitto sono ormai segnate, la disperazione di chi non può scegliere e quella che deve scegliere se andarsene o rimanere a subire chissà cosa,  il sollevarsi nel cielo dell’ultimo elicottero, sono descritti attraverso le voci dei protagonisti che lui ha conosciuto personalmente. Fu anche uno dei pochissimi che rimase nei tre mesi successivi a raccontare quello che stava avvenendo ad un mondo esterno che guardava al Vietnam col fiato sospeso in attesa del bagno di sangue temuto e poi, fortunatamente mai avvenuto. Davvero un libro fondamentale per chi, giovane, di questa guerra ha solo sentito parlare e per quanti invece, quel momento hanno vissuto con tutte le esaltazioni, i significati reconditi, le speranze coltivate e deluse che hanno condizionato il pensiero e la geopolitica di quasi mezzo secolo. Per capire quell’epoca dall’interno da parte di chi quegli avvenimenti ha vissuto da protagonista, utili per cominciare un esame storico ma anche per decrittare il Vietnam moderno. Indispensabile per chi vuole programmare una visita del paese avendo ben presenti i fatti trascorsi.

Se ti è piaciuto questo post, ti potrebbero anche interessare:



venerdì 24 gennaio 2014

Di coda in coda

Accidenti, avevo deciso di rimandare la banca a domani, essendo oggi l'ultimo giorno per la miniIMU e la coda sta ancora fuori dalla porta, ma anche da Equitalia ne avevo almeno dieci davanti e tutti con grane lunghe da sbrogliare, facce con ghigni amari e inferociti di chi ritiene di subire grosse ingiustizie, come la parrucchiera che sibilava contro quei bastardi che le tasse non le pagano e so io quanti e poi fa gli scontrino con segnato solo la metà dell'esborso e potendo anche un po' meno, tipo solo la piega. Alla posta uguale, in più, almeno un paio avevano un pacco di raccomandate che ci hanno messo da soli una mezz'oretta e un'altra ora se ne è andata. Anche qui tutti incarogniti, ma più aggressivi, mentre alle tasse erano decisamente più sottomessi, come quei cagnoni ben legati per il collo, che ringhiano a bassa voce, accucciati vicino alle gambe di un padrone severo. Qui la schiena era più diritta, come se, in questo caso fossero loro i padroni, pronti a sindacare come questi maledetti statali non sappiano fare il proprio lavoro, quanto siano menefreghisti ed indolenti e so ben io cosa farei se comandassi. Indignazione pura e sacrosanta di chi ha passato e passa vite intere a stare in coda a far commissioni, essendo usciti solo un attimo dal posto di lavoro, che tanto il capo è in malattia o chiude un occhio. Sta di fatto che questo rumoreggiare sordo si frange contro il vetro degli sportelli come una piccola onda inoffensiva e scivola giù come olio sulla pelle dei lottatori mongoli o come gli insulti all'amministratore di condomino. 

Ci devono essere talmente abituati, quei disgraziati di là dal vetro, presi più a badare ai moduli che sono finiti, al computer antidiluviano che si blocca ed alla stampante senza toner, che neanche più li sentono o forse fanno finta, avendo un po' più di sale in zucca. Per fortuna che dal dottore ce n'erano solo otto e come si sa il medico della mutua non visita e non perde tempo, così anche lì prevedevo al massimo un'oretta. Poi casualmente, tra le varie lamentele e dettagliata descrizione di malattie che formavano il brusio della sala d'attesa, è venuto fuori che il mio non c'era neanche, era lui stesso in malattia, così ho saltato la terza coda, sarà per un altro giorno, quasi come diceva Rossella O'Hara. La signorina mi ha segnato ugualmente i farmaci ripetibili e mi sono addirittura attardato alla chiacchiera con un vecchio collega che aspettava il suo turno, delirando un po' sui bei tempi andati e di come le cose andavano meglio e dei disastri che ci attendono inevitabilmente, adesso che tra poco ci sospenderanno le pensioni. Spero che la sua dottoressa gli abbia prescritto i farmaci giusti, soprattutto antidepressivi potenti. Non mi è rimasta che una codina in farmacia, dove per fortuna, hanno ormai il buon senso di separare il banco dove spacciano l'acqua fresca, gremito di donnine in attesa che lanciavano gridolini eccitati alla distribuzione di nuove boccettine miracolose a base di oscillococchi, pappe reali e principesche, pomate antiemorroidali alla carta vetrata e detergenti intimi all'acido muriatico. 

Lì facevano veramente a pugni per assicurarsi il privilegio di lasciare biglietti da 50 euro in cambio di deliziosi pacchetti regalo per i farmacisti medesimi, che pur essendo più di sei non riescono a far fronte alla ressa. Le clienti invece, guaiscono di piacere aprendo il portafoglio, certe dei risultati che darà loro l'effetto placebo. Una che aveva appena sborsato 120 euri di fiale per nutrire in maniera definitiva la sua pellaccia incartapecorita, si lamentava di aver dovuto pagare un ticket oneroso per un medicinale del marito cardiopatico, che vergogna dopo tutto quello che ci fanno pagare di tasse. Meno gente invece al bancone dei farmaci dove, dopo aver ritirato un bel pacco di scatolette naturalmente non griffate, ho lasciato sul tavolo un bel 50 centesimi. Per forza che il sistema sanitario nazionale va in malora. E' la vita, per fortuna dal benzinaio di coda non ce n'era e il GPL è pure diminuito. Quasi quasi vado in montagna un paio di giorni a cercare di far funzionare il mio nuovo minitablet, che non sono capace.


Se ti è piaciuto questo post, ti potrebbero anche interessare:

giovedì 23 gennaio 2014

Anguria o melone?


Taskent - Uzbekistan - giugno 2002

Un bel dubbio, non vi pare? Quasi sempre uno di quei turbamenti che impongono una scelta. In qualunque modo tu decida, stai tranquillo che ci saranno i pro  e i contro, con i loro partigiani e cultori che vorranno spiegarti come non è da prendere neanche in considerazione l'altra sponda, anzi ci si meraviglierebbe che tu non propendessi senza titubanze per quella giusta, corretta, leale, etica ed inevitabile. Questa dicotomia la si incontra continuamente dappertutto, sia se si consideri un luogo reale o geografico, che invece se ne faccia una questione teorica. Nell'immagine di qualche anno fa, il "fido" Misha, la proponeva in una polverosa notte di Taskent, il paese che già di default si proclamava orgogliosamente come produttore dei meloni più dolci e delle angurie più succulente del mondo. Lo erano davvero? Chissà, Certo si titubava ad assaggiarle, consci del passato prossimo vissuto dalla lama di coltello che le aveva tagliate e quindi delle conseguenze gastrointestinali che il paese, brodo di cultura di quanto ancora rimane della peste bubbonica, prometteva e puntualmente regalava a turno ai componenti della truppa presente in loco a fare lo start up di una fabbrica e per firmare futuri lucrosi contratti. Notti già calde di un giugno secco di nuvole di polvere all'orizzonte che ti seccavano la gola e promettevano di essere l'avanguardia del torrido caldo estivo, che le stesse cucurbite avrebbe gonfiato a dismisura per farle poi marcire in un attimo e riportarle alla terra; da dolci delizie, a liquami immondi, specchio della vita umana.

Anch'esse però promesse di affari. Del progetto lungamente studiato di un gigantesco essiccatoio per produrre appunto le banane di melone, fette di gialla dolcezza da decorticare e ridurre a frutto secco e confezionato che garantisse una conservabilità sconosciuta a quel paese lontano. Vento di modernità, di cui l'amatore fasullo della naturalità mendace, del c'era una volta e com'era bello, non vuole considerare gli immensi vantaggi di disponibilità nel tempo, sanità, possibilità di distribuzione e tanto altro ancora, a favore di un falso mito che promette è vero freschezza e anche bellezza a fronte, di deperibilità, deterioramento rapidissimo, spreco. Non se ne fece nulla naturalmente, mancavano i dollari. Ma quante volte ancora ho trovato questi due compari, vecchio e nuovo in lotta, anguria e melone a contrasto. In Cina te li trovi sempre assieme in tavola, così insipidi entrambi, divisi insieme sui grandi carri spinti a mano o su camion dai cassoni sbilenchi che devono aspettare fuori della città per entrare, attendere che calino le ombre della notte più fonda, per non intasare il traffico già caotico. Rosso e bianco; il primo, che ormai è diventato un rosa pallido, che ha perso nel tempo la sua severità etica, esiziale per un verso come tutti gli estremi, per piegarsi alla forza irresistibile del mercato, diventando addirittura senza semi per maggiore comodità, perdendo un poco la sua anima che allietava i poemi antichi, quando metteva a confronto gli amici, seduti a sera davanti alla capanna, mentre si beveva vino caldo e sputando i piccoli grumi neri a terra, insieme a parlare di canapa e sorgo.

Il secondo poi, così giallo pallido da parere bianco, la cui dolcezza stucchevole opprime un poco, quasi un simbolo del corrotto che avanza, che però, si porta dietro inevitabilmente la diffusione di un benessere cercato e auspicato. Oppure in quell'East Africa che appare così ricco e povero al tempo stesso, dalle angurie inspiegabilmente piccole e dai meloni troppo grandi. Anche qui tante promesse dall' esterno, verde cupo delle une, giallo vivo degli altri. Tanta ricchezza reale e disponibile, tanta incapacità di trarne un utile giusto per tutti, certo incapacità accresciuta, sfruttata e mantenuta da chi invece incapace non è, anzi abile a sfruttare le debolezze insite nella tribù umana. Così quando li apri, entrambi non rispettano le promesse, diventano subito fiacchi al gusto, acqua insipida l'una, polpa senza nerbo l'altro, simboli inoppugnabili di promesse mancate. Dall'altra parte dell'Africa, i ricordi sereni di Marocco d'antan, dove un truffatore di piccolo cabotaggio cercava di gabbare i turisti cercando di sfruttare la loro ingordigia, il loro essere troppo furbi davanti all'ingenuo nativo. Propinava perle di saggezza da uomo blu sepolto tra le sabbie di un deserto antico, magnificando le bellezze bibliche del melone, brutto di fuori e dolce di dentro, come l'animo umano, intanto rifilava agli ingenui, un pugnale antico di secoli della sua famiglia, in cambio del valore di sacchi d'orzo per i propri cammelli, almeno cento dollari però, lui che diceva non conoscere il valore del denaro, pugnali che trovavi poi al mercato a un dollaro a pezzo.

Anche da noi in fondo la stessa cosa. Anche qui è difficile scegliere, tra la rugosità grigia che promette un profumo ineguagliabile, del Chanteloup e l'enormità dal verde screziato della bassa padana, così gonfia che pare stia per scoppiare, una esibizione di salute esagerata, forse falsa e subito pronta per mandare avanti la diatriba. Scelta al'Uzbeca o alla Cinese, alla Tanzaniana o alla Marocchina  o infine più nostrana. Ma no! Come si può togliere il diritto di scegliere al cittadino, privarlo della libertà di preferenza, diritto inalienabile, dimenticando magari che questa possibilità di scelta era fonte esagerata di spesa e di corruzione senza pari e passando sotto silenzio il fatto inoppugnabile che la gente si era già espressa anni fa con un voto certo e plateale, cancellando questo sconcio, appunto della preferenza e sperava di averlo fatto per sempre. Ma si sa, chi ha un interesse, lo maschera facilmente dietro le scuse più varie, le grida di viva la libertà, lo hanno sempre fatto tutti, comici, puttanieri e grigi protettori del popolo, anche se magari fino al giorno prima, avevano sostenuto l'esatto contrario. Così ci rimarrà sempre il dubbio se sia meglio l'anguria o il melone, nella speranza che non arrivi qualcuno, tranquilli, di certo grande amico e protettore del popolo, a toglierceli entrambi.

Se ti è piaciuto questo post, ti potrebbero anche interessare:

mercoledì 22 gennaio 2014

Ozio e politica

Zhang Chao (da wikip.)
I Cinesi hanno sempre inteso l'ozio in senso lato, in sostanza come quella porzione di tempo che non si impiega a fare cose necessarie o doverose, compiti obbligati e lavoro retribuito e comunque eseguito per necessità. Tutto il resto delle attività eseguibili nelle altre porzioni di tempio e fatte quindi per il puro piacere e per la propria soddisfazione, sono assimilabili all'ozio e sono considerate come uno dei più grandi privilegi che possa avere l'uomo. Viaggiare, leggere, parlare con gli amici, bere una coppa di vino, scrivere poesie, tutto è otium alla maniera latina, quello che distingue l'uomo dallo schiavo. Una bella disamina di questo argomento si ritrova nell'opera Yu meng ying (幽梦影  - Ombre di un dolce sogno), una raccolte di massime letterarie su questo argomento, scritte da Zhang Chao (张潮), un epigrammatico della dinastia Qing, nella metà del XVII secolo. In linea con la sua filosofia, il nostro Zhang (che si potrebbe tradurre Immensa marea) oltre che poeta fu anche pittore, calligrafo, scultore, naturalista e grande giocatore di scacchi. Come tanti, tentò la carriera del funzionario imperiale, ma fallì il terribile esame per accedere all'amministrazione ben quattro volte. La cosa deve essergli andata un po' per traverso, tanto che in uno dei suoi pensieri scrisse: "Meglio essere bocciati all'esame di stato che essere ignoto ad un letterato famoso". 

Comunque deluso, viaggiò a lungo per il paese, sempre solo ma con l'amicizia di molti artisti e letterati. Dice il nostro filosofo sull'ozio: "Solo chi prende con calma quello per cui tutti si affannano, può permettersi di preoccuparsi per ciò che tutti prendono alla leggera. Così l'ozio permette di leggere, di visitare luoghi bellissimi, di godere degli amici, di bere vino e scrivere libri. Quali piaceri esistono al mondo maggiori di questi? Parlare con amici colti è come leggere un libro raro, accompagnarsi ad un poeta è come ascoltare poesie e brani di diversi scrittori, avere la compagnia di amici che hanno opportuna condotta è come leggere una bella novella. I migliori amici sono quelli che sanno scrivere poesie, poi quelli che san parlare e quelli che dipingono paesaggi delicati; poi quelli che sanno cantare e infine quelli che conoscono i giochi dei bevitori. Così come un grande libro è quello che ti dice cose mai dette prima, un grande amico è chi ti confida i suoi intimi segreti. E' più facile trovare i grandi amici tra gli uomini che tra mogli e concubine, ancor più difficile è trovare un vero amico tra i politici". Il fatto che abbia vissuto sempre solo e la sua latente misoginia, frutto anche di una osservanza della morale confuciana o forse la sua delusione per la mancata carriera che non gli faceva evidentemente apprezzare la politica e l'intrigo di palazzo, non gli portò però grande fortuna, tanto che, vittima di una cospirazione, finì la sua vita in prigione. Come sempre apprezzato postumo.


Se ti è piaciuto questo post, ti potrebbero anche interessare:

martedì 21 gennaio 2014

Il Bar Baleta: I biliardi

Il Pool - (gentile concessione Gino "Baleta" Gemme)

le boccette
Il Bar Baleta poteva certo essere considerato un club o un circolo culturale, ma essenzialmente la sua natura primigenia che lo caratterizzava e per cui era nato, era quella di essere un bar con biliardo. La sala biliardi, in effetti era la più vasta e specifica che si potesse immaginare, un vero e proprio tempio di questo gioco, anche perché il locale era dotato di colonne, mi par di ricordare, ma qui chiedo l'aiuto dei frequentatori di un tempo, enormi e in pietra, con ampie volte, tali da ricordare la cripta romanica di una cattedrale, il ché dava all'ambiente la giusta sacralità. I biliardi erano cinque, ben disposti, tre per il lungo e due per il largo e correttamente distanziati in modo che i giocatori non si intralciassero tra di loro. Lontana dai rumori della strada, che d'altronde dava nel vicolo, ci si poteva accedere solo attraversando le altre sale del bar e quindi risultava il punto finale di arrivo per coloro che erano dediti all'arte del panno verde.

Qui gli appassionati si dividevano subito in due categorie senza punti di contatto tra di loro, in pratica due specie diverse che parlavano lingue non comunicanti. I cultori delle boccette e quelli della stecca. Mentre per le boccette il clan era decisamente più chiuso, essendo praticato una sola tipologia di gioco, con i maestri che si annoveravano tra i senatori del bar ed i dilettanti che quando i tavoli erano lasciati liberi si cimentavano negli appoggi o nei tiri più difficili che avevano appena ammirato, i giocatori di stecca invece erano una fauna più varia e in generale più giovane.  Ma altre erano le categorie kantiane della fauna locale. Dice Gino: come in ogni termitaio organizzato, esistevano due tipi di matricole: i "mandibolati" e i "nasati". Mentre i grandi giocatori erano racchiusi nella seconda, nella prima categoria viveva anche la sottospecie dei "convinti". Scarsi nel gioco, usavano l'apparato boccale per magnificare illustrandole le loro presunte giocate magistrali (me chi..., me là...); erano chiamati anche i "baccagliatori".

I "nasati" invece, il cui identificativo di categoria viene dall'Alessandrino "nasa", badate bene e non naso, come ingenuamente si sarebbe portati a pensare, che identifica attività eseguite più propriamente con altre parti del corpo, erano quelli che a detta dei perdenti, erano costantemente baciati dal favore della sorte, che correggeva per loro le più tremende svirgole, dotati quindi, come bene illustra il disegno, di un fondo schiena esagerato, un sedere gonfio fino all'inverosimile di ingiusta fortuna e perdi più ...rotto, secondo la vulgata. Erano i cosiddetti re della cacciata! Ricordo invece un grande giocatore, un vero artista, di cui mi sfugge il nome, maestro nell'arte della candela, che affermava essere la vera chiave del gioco delle boccette, un tiro che se usato con perizia assoluta era da solo capace di essere decisivo in ogni partita.



Un altro, grande conoscitore delle due sponde, accarezzava a lungo la palla tra le mani, soppesandola con noncuranza tra una mano e l'altra, poi si allargava portando il busto al di fuori del bordo del biliardo e con un movimento morbidissimo e sempre uguale lanciava delicatamente e con la giusta forza. La boccia cadeva sul panno quasi senza rumore poi, pur sembrando il lancio troppo debole all'inizio, correva fluida colpendo le due sponde all'angolo alto per poi arrivare implacabile nel gruppo di bocce sulla sponda bassa, si faceva appena largo tra di esse e come per magia si attaccava al pallino blu, sempre uguale, sempre perfetta, un miracolo. C'erano poi i bocciatori professionisti. Il socio puntatore vinceva invariabilmente l'acchito e loro prendevano il pallino, lo appoggiavano lentamente appena al di là della linea oltre gli ometti, un attimo per concentrare la mira e poi il lancio secco e implacabile, ogni colpo un filotto.

Il bruciatore
Nella stecca invece, il gioco subì nel tempo diverse mode, alcune passeggere, altre più durature, anche se la variante più correntemente praticata era quella classica all'italiana, con alcuni cultori specifici della goriziana. Uno invece, caduto col tempo in disuso era la cosiddetta "Pula", in cui ogni giocatore pescava una carta che rimaneva nota solo a lui, da cui partiva il conteggio dei suoi punti per arrivare a 21, cifra che doveva essere fatta esattamente, con gli ometti che valevano dall'1 al 5. Un gioco interessante che aumentava le possibilità dei giocatori di precisione includendo anche una variabile psicologica per capire quanti punti mancavano all'avversario per concludere la partita e giocare quindi con una conseguente difesa. Mi sembra che Capra lo praticasse con profitto, anche se era tecnicamente un gioco compreso nella tabella dei giochi proibiti, forse perché la carta pescata era considerata, ingiustamente, parte di un azzardo. Pochi cultori ebbe invece la Carolina, variante con i birilli sparsi sul tavolo. La carambola francese ebbe anch'essa breve spazio, ma Gino, sempre attento alle tendenze e in cerca di nuova offerta per incrementare gli affari, subito dotò la sala di un marchingegno che inserito sopra il tavolo da biliardo tradizionale, lo restringeva riducendolo alle misure corrette. Poi arrivò anche sugli schermi alessandrini il film Lo spaccone, con uno spettacolare Paul Newman che subito destò l'interesse sul Pool, battezzato da noi come Carambola americana. Prontamente Gino dotò la sala di due o tre set delle ben note 15 piccole bocce, colorate e numerate, che appassionavano le discussioni del bar, dove come al solito tutti si autoproclamarono immediatamente esperti in grado non solo di giocare, ma di ripetere i colpi clamorosi del film.

I risultati erano ovviamente modesti anche perché il tavolo e la dimensione delle buche non erano quelli regolamentari e il gioco era comunque un adattamento che, tuttavia, ebbe per parecchio tempo un grande successo. In ogni categoria di gioco comunque i perdenti erano costretti a subire sfottò di diversa pesantezza a seconda della pomposità dei soggetti medesimi, che generalmente non la prendevano bene ed erano classificati come "Bruciatori". La sala biliardi, comunque, rimase per molto tempo un locale riservato agli appassionati ed ai senatori del bar; i ragazzini chiassosi, al di fuori di quelli che bigiavano la scuola o delle prime ore del pomeriggio, non erano ben visti, anche per gli eventuali danni che potevano provocare con la loro imperizia. Angelo, in versione Cerbero, per mantenere un certo controllo sullo schiamazzare inutile e lo stesso Gino di tanto in tanto buttavano un occhio indagatore con la scusa di servire qualche consumazione, per controllare che non sopravvenisse, improvvido e temutissimo, il famigerato "strappo" del panno causato dall'imperizia nel maneggio della stecca, che l'incapace, volendo eseguire qualche colpo troppo fine per le sue possibilità, invece di dare il giusto "zembo" alla bilia, finisse con la punta della stecca a squarciare il delicato panno, facendo poi finta di nulla, come se il disastro fosse già presente sul tavolo e altri il colpevole. La minaccia: primo strappo Lire 5000, era una spada di Damocle in agguato, anche se non mi risulta sia mai stata applicata.  

Lo strappo al panno verde -  (gentile concessione Gino "Baleta" Gemme)

Se ti è piaciuto questo post, ti potrebbero anche interessare:

lunedì 20 gennaio 2014

Elogio del letargo

Ci sono animali che, durante questo periodo, si prendono una pausa. Si cercano un posto tranquillo, un buco bello caldo, protetto e riparato nel terreno o sul fondo di una grotta, si raggomitolano, rallentano i battiti del cuore e beatamente chiudono gli occhi sprofondando in un sonno talmente pesante che non li svegliano neanche le cannonate. Che beatitudine deve essere il prendersi una pausa di questo genere. Rigeneratrice e rasserenate, un distacco che rimanda i problemi, i compiti e le scelte ad un periodo di là da venire, pospone decisioni e dispute, calma gli affanni. Intanto ti consente di smaltire il lardo accumulato nella stagione dell'abbuffata contuinua, che non sarebbe una cosa da sottovalutare anche ai fini salutistici. Che bellezza deve essere, lo svegliarsi a poco a poco, da questo lungo intorpidimento, sentire il sangue che a poco a poco ricomincia a fluire alla velocità normale, stirare pigramente le zampe, stropicciarsi gli occhi incispositi che non riescono a mettere a fuoco ancora mentre i ricordi che risalgono dal pozzo oscuro in cui sono stati riposti e stupirsi dell'aria frizzante che sta preparando chissà quali sorprese. Metti il naso fuori e riscopri un mondo nuovo, forse ti viene la voglia di fare e di muoverti naturalmente, non senti più stanchezza e fastidio, quello che ti oberava prima, tutte quelle cose da fare, da concludere, da decidere, da non sbagliare e forse prendi spunto per ripartire con lena. Chissà, deve essere una bella sensazione. 

Invece, anche se avresti voglia di stare lì pigramente raggomitolato a non pensare, devi comunque muoverti perché bisogna farlo e il vedere tutto intorno a te che si agita vorticosamente come una immensa colonia di formiche che si incrociano apparentemente senza costrutto in ogni direzione, che sembrano affannarsi inutilmente perdendo il loro tempo e la loro breve vita in una futile iperattività, ti mette ansia perché devi attivarti anche tu e in fretta che il tempo passa, tutto scorre, chi si ferma è perduto e non puoi stare lì fermo a guardare felice una foglia che cresce. Forse è il grigiore assoluto del cielo, che riduce tutto lo spazio attorno ad un colore unico e intristito, forse è il senso di depressione che ti dà una stanza dove non entri mai, con le superfici coperte da un leggero strato di polvere, dove vorresti non toccare nulla, non respirare neanche per non turbarne l'immobilità assoluta, lasciare dove stanno a riposare, quelle pile di fogli di carta tra cui si potrebbe nascondere quello che cerchi; bisogna fermarsi, non turbare l'ordine, tutto ne verrebbe sconvolto, offeso e poi forse non troveresti ugualmente quello che cerchi, che se ne sta bene lì senza turbamento alcuno. Come quando si scoperchia un grande sarcofago in una antica necropoli e getti uno sguardo dentro smuovendo una immobilità che dura da millenni, dove anche un solo respiro solleva indecentemente polvere e tranquillità, infrange una pace che ha rallentato lo scorrere del tempo fino a bloccarlo. Su, è inutile che continui ad allungare il brodo e la faccia tanto lunga, rimandare non serve a nulla; bisogna che mi dia una mossa e vada a spulciare 'sto maledetto sito per fare i calcoli della miniIMU.


Se ti è piaciuto questo post, ti potrebbero anche interessare:

sabato 18 gennaio 2014

Giuseppino in America

Nella baracca di Amarillo - Nord Texas - 1945

Eccoci di nuovo in Africa con il nostro Giuseppino, prigioniero due giorni prima della resa definitiva di Enfidaville, a percorrere il Maghreb verso Occidente fino all'estremo lembo marocchino. Qui, un colpo di fortuna. Con altri ufficiali, viene preso in carico dagli Americani, preparandosi così ad una lunga prigionia, che se pur dolorosa fu ben diversa da quanti finirono nei campi inglesi in India, per non parlare di quanti, militari italiani, ebbero la triste sorte della deportazione in Germania, lasciandoci la vita, tra fame e malattie, come mio zio.Comincia quindi l'avventura di Giuseppino al di là dell'Atlantico, attraversato su una nave trasporto nell'autunno del '43, proprio mentre in Italia, spaccata in due, la guerra prendeva un'altra piega. La meta, certo non immaginata, fu il campo di prigionia di Amarillo nel Texas più profondo, un deserto ricoperto di sassi polverosi e di rade file di pioppi agonizzanti per la sete, ricordate Los Alamos, appunto I Pioppi. Noia, inedia e lunghissime giornate da fare passare. Gli americani non avevano neanche la fantasia perversa di altri vincitori che ti facevano scavare una buca un giorno per riempirla il giorno dopo in modo da tenere impegnate le braccia, così bisognava pensare a come passare la giornata, con l'unica preoccupazione di evitare i serpenti a sonagli e le tarantole, che pare allignassero in quantità tra le baracche. Non c'erano neanche reticolati o muri, tanto come in Siberia nessuno, anche scappando, poteva arrivare vivo da nessuna parte, considerate le distanze. 

Los alamos - 1945
I carcerieri, facevano un lavoro, disinteressati in linea di massima al rapporto con i prigionieri e applicavano alla lettera le convenzioni internazionali, fornendo derrate che contenessero esattamente le quantità di calorie previste dai trattati, anche se per esempio consegnavano sacchi di farina invece che pane, che come computo calorico era la stessa cosa. Almeno c'era qualche cosa da fare, costruire dei rudimentali forni, raccogliere i cespugli secchi rotolanti che il vento teso del deserto ti portava direttamente nel campo e con l'acqua fornita come da regolamento, fare grandi pani poco lievitati e duri come il cemento, ma il tempo passava. Finita la farina, rimanevano i sacchi vuoti che venivano accantonati in fondo alla baracca. Tuttavia il tempo non passava mai. I responsabili degli ufficiali prigionieri, per vincere la noia, chiesero ai responsabili del campo che fosse loro fornita qualche cosa, qualunque cosa, per passare le giornate caldissime.  Non si sa come, forse per una casualità, arrivarono al campo uno stock di casse contenenti pennelli e colori ad olio, così di botto, tutti cominciarono una poco convinta attività artistica. Tra gli altri ufficiali c'era un pittore amatoriale, che insegnò le tecniche della pittura ad olio a tutti e le centinaia di tele di iuta dei sacchi della farina, trovarono un utilizzo insperato. Ogni giorno all'ombra delle baracche, gruppetti di artisti improvvisati ritraevano la povera natura che li circondava, in particolare le file di pioppi e la poca vegetazione che circondava il campo. Tra i prigionieri c'era anche il poeta Sereni che sarà poi conosciuto come uno dei maggiori poeti italiani del dopoguerra, ma c'era anche, guarda un po', un certo Alberto Burri, ufficiale medico, che anche lui, per la prima volta si avvicinò all'arte del pennello. 

Pare che non fosse particolarmente portato per uno stile naturalistico, ma di certo qualche cosa scattò, forse la vicinanza di tutti quei sacchi di juta vuoti e ammonticchiati, perché anche lui cominciò a lavorare di gran lena, tanto che per anni i sacchi sono stati il suo materiale prediletto, quando decise di abbandonare la medicina e dedicarsi all'arte. Il 6 ottobre del '45, Giuseppino riattraversò l'Atlantico ed arrivò a casa, finalmente uomo libero, dove lo aspettava la moglie (anche se non c'erano più i famosi Cavallini) ed esattamente 9 mesi e 10 giorni dopo venne alla luce la mia futura moglie, così anche io ho avuto il mio immeritato colpo di fortuna. Tra le poche cose che aveva potuto portare con sé, qualcuna di quelle tele di juta con quei pioppi scarni ed annoiati, che ancora oggi fanno mostra di sé sulle pareti di casa. La passione è durata e Giuseppino continuò a dipingere per tutta la vita, ritratti, case, fiori, persone. Mai più alberi però. In tutta la storia c'è però ancora lo spazio per un poco di rincrescimento. Quasi sempre i pittori che lavorano insieme all'inizio della loro attività, si scambiano qualche opera, così per stima od amicizia. Giuseppino portò con sé, oltre ad una lastrina di vetro con una sua foto nella baracca, soltanto i suoi alberi, quindi non sappiamo se non ebbe mai l'occasione di scambiare una delle sue opere con un'altra di Burri. Lui  è sempre stato un artista con scarso interesse per gli aspetti pratici della vita e forse quei sacchi di juta bruciacchiati e incollati malamente tra di loro, non gli saranno apparsi meritevoli di essere messi nella valigia del reduce, né avrebbe mai pensato di appenderli alla parete della sua futura casa al posto dei suoi pioppi. 

Uno dei "sacchi" di Burri, valutato oggi attorno ai 3 milioni di Euro

Se ti è piaciuto questo post, ti potrebbero anche interessare:

Where I've been - Ancora troppi spazi bianchi!!! Siamo a 119 (a seconda dei calcoli) su 250!