mercoledì 31 agosto 2016

Mattoni di fango

Oasi di Kharga -  Egitto - agosto 1999

L'architettura del deserto è fascinosa ed emozionante. Dove hai a disposizione solo la terra, la tecnica del mattone crudo riesce comunque a costruire bellezza. E' proprio un insopprimibile bisogno dell'uomo. Non conta qual è il materiale a tua disposizione. Il desiderio di aggiungere all'obbligo della tecnica, anche qualche cosa apparentemente inutile e non necessario, che potrebbe essere tranquillamente trascurato, tanto la costruzione starebbe su ugualmente, alla fine prevale e aggiunge qualcosa che pur non trascurando la funzionalità, la acquisce e la arricchisce di ornamento, di grazia, di bellezza. 

Nascono così le città del deserto, capolavori di materia fangosa rappresa e seccata al sole, alla mercè di una pioggia che li scioglierebbe in meno di24 ore, ma che tanto non viene mai. I legni che servono a mantenere la struttura formano motivo estetico e il posizionamento delle mattonelle diventa trompe l'oeil. I passaggi che mantengono unite le costruzioni, danno riparo e frescura al sole torrido che vuol bruciare violento chi si ostina a voler vivere in questi luoghi. L'ingegno umano è bello a vedersi. L'homo faber dà dignità alla specie e riesce a farne dimenticare il lato oscuro, finché non arrivano i bombardieri.


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martedì 30 agosto 2016

Tormento



Quasi ora di tornare.
Partire.
Affastellare bagaglio ancor più ruvido e ingombrante che all'andata, per aggiungere sofferenza al già pesante soffio della fine della vacanza.
Che poi vacanza... ma se sei in vacanza cronica, per sempre, inadatto alla produzione, scarto di lavorazione, inutile palo da sorvegliacantieri, tragica statuetta da bar a commentare il mondo risolvendo ogni problema a tavolino, nazionale e non, satutto a vanvera, in ghingheri di sproloquio, incazzato perenne al veder il circondario che parla e mugghia sentenze che a tuo parere insensate contano assai.
Vedi rovine in arrivo, solo catastrofi in atto ed annunciate, naturali o volute, provocate, incistate nel marcio e mai senti l'odor di positivo del mezzo pieno senza bere il bicchiere.
Balle in giostra, voja d'lasmi stè, nero di seppia agli occhi ciechi al rosa, solo tramonto da lapide anonima e nascosta.
Che vita strana, scontenta senza ragione alcuna, sentendo altri che i problemi veri hanno brucianti sulla pelle, invece.
Eppure il lamentoso mugugnio non mi rilascia.
Non serve il segnale positivo, sempre solo sul nervo la lingua batte ed è fastidio.
Ma dai piantala lì che è meglio.



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lunedì 29 agosto 2016

Funerale per il TTIP



Come da dichiarazioni riportate oggi sulla stampa dal vicecancelliere tedesco Gabriel, ansioso disoffiare il posto a Frau Merkel, il TTIP è fottuto e morto per lo meno per adesso. Ogni possibilità che l'accordo, dopo anni di tentennamenti, andasse a buon fine, se ne è andata in malora. Le lobby più indecenti dei no-tutto, le legioni dei complottisti neoteobiologici, gli alfieri della decrescita felice, gli amatori delle scie chimiche e dei cip sottopelle, hanno costituito una diga invalicabile col populismo più becero, ottenendo il risultato voluto. Un'altra delle poche possibilità pensate per uscire da una crisi che si appresta a diventare decennale, viene buttata nel cesso a braccetto con la Brexit. Tutti questi utili idioti a cui non interessa affatto che si ipotizzassero circa 25 milioni di nuovi posti di lavoro sulle due sponde dell'Atlantico, una probabile aumento del PIL generale di almeno l'1% (stime per difetto), di un'enorme spinta per tutta la filiera italiana del cibo dedicata all'export, possono finalmente brindare. 

Con una serie di bufale colossali, menzogne consuete e verità fasulle, sventolando le consuete bandiere morte anti OGM e non solo, hanno istigato il popppolo a dismisura. I movimenti più indecenti, che oggi vanno per la maggiore, se ne sono fatti bandiera, tanto sono questi gli argomenti che premiano nell'urna elettorale e alla fine anche i mandanti dei negoziatori hanno ceduto. Tanto non servirà a nulla. Questo arretramento di fronte alle cose utili all'umanità, sarà comunque non pagante, vinceranno ugualmente i Trump, le Lepen, i Salvini, i Grilli, i neonazi nelle terre tedesche e via via tutti gli altri, come si è già visto nella perfida Albione. Bisogna rassegnarsi, lasciar passare qualche decennio, poi le stupidaggini fatte faranno piazza pulita di questo ciarpame dannoso a sé ed agli altri e la frittata si rivolterà per l'ennesima volta. Inutile incazzarsi, non si può andare controcorrente. Lasciate andare avanti i notutto, le rapide del fiume in questo momento sono troppo forti per mettersi di traverso.



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giovedì 25 agosto 2016

La pista sul lago

Lago Bajkal - Siberia - febbraio 1993
Faceva un freddo cane, almeno 28°C sotto zero. Lo senti subito quando scende sotto i 25°, nonostante l'atmosfera secca ed il sole pallido pallido, che sembra una stella morta lontana nel cielo, non diano questa impressione. Ogni volta che respiri senza ripararti la bocca con una sciarpa pesante, senti come una lama che ti si pianta in fondo alla gola, come un dolore acuto che ti obbliga a riparati in qualche modo. Il lago Bajkal è un mondo a sé, specialmente in inverno. Una distesa bianca con uno spessore di ghiaccio di almeno quattro metri che lo fa apparire come un'immensa pianura che si confonde col cielo, dato che non riesci a scorgere la riva opposta. L'unica cosa che ti ricorda l'acqua sono i pescherecci immobili, saldati nel ghiaccio, che aspettano il disgelo. Anche se non ci sono più quei bei freddi di una volta, i -40° o peggio, almeno così continuava a ripetere Kostantin, mentre passeggiavamo lungo uno di quei piccoli moli di legno deserti, colpa delle atomiche certamente o della nuova diga sull'Angarà, la sola cosa che ti veniva in mente era di filare dentro a qualche luogo chiuso o riparato, dove scoppiare di caldo, con la stufa accesa al massimo, a bere una vodka, in quella bella atmosfera umidiccia di sudore e di tanfo di chiuso. 

Qualche cetriolo in composta sotto sale o una mezza tazza di smietana, la panna acida che accompagna un po' tutto, magari perché no, caviale e blinì, allora il beluga te lo tiravano dietro a 5 dollari alla scatola, oppure il balik, filetti di salmone affumicato, mi sembra, che piaceva tanto a Zhenia, una ricetta speciale che facevano solo per gli zar. Lui la ordinava con la degnazione di un ufficiale zarista, con il sussiego che il cibo meritava. Adesso mi sembra si trovi soltanto più in Svizzera. Il mondo cambia e cambia in fretta, ma credo che sul Bajkal, quando tutto diventa bianco, le file di camion continuino a traversare il lago, come su un'autostrada naturale, allo stesso modo di allora, partendo di fianco al porticciolo in letargo, seguendo le strisce dei pneumatici sulla superficie ghiacciata, almeno fino a quando la primavera inoltrata non comincia ad assottigliare lo strato trasparente come vetro verde. Sotto il fondo non si vede, sono più di 1600 metri. Allora per arrivare a Chita, devi fare un lungo giro attorno al lago, tra foreste infinite di betulle bianche. Lì non vengono mai i terremoti. La gente dorme tranquilla nelle isbe di legno. E' una terra immobile ed immutabile, da milioni di anni, se non cade un meteorite. Qualche giorno fa anche qui tra le montagne la terra ha tremato forte. Un boato tremendo, sembrava una bomba, quarto grado hanno detto, quasi una sciocchezza, eppure, almeno quelli che se ne sono resi conto, sono mezzi morti dalla paura, pensa un po', basta un attimo.


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lunedì 22 agosto 2016

All'ombra tra i monti

dal web



Sarà che questo paesino di mezza montagna, che sonnecchia in una valle secondaria della Alpi Cozie, già di per se stesse minori, invita ad un sopore dei sensi assolutamente delizioso, complice anche la mia natura di pigro apprezzatore dell'ozio in generale, ma in questo mese di agosto mi sono proprio goduto l'arte di battere la fiacca, con una soddisfazione senza uguali. Una inattività degna di scelte precise, un poltrire senza cercar giustificazioni di sorta, orgoglioso della propria categoria mentale e in palese sfida concettuale con i dannati dell'attività fisica, che poi qui tra i monti trova la sua espressione più perversa e talebana. Gruppi di ciclisti inperfetta tenuta debitamente pubblicizzata, si alternano a file di camminatori che si inerpicano sui sentieri più scoscesi, più si soffre e più ci si diverte. E' il festival della pedula tecnica, della maglietta in tessuto assorbisudore, del bastoncino telescopico in fibra di carbonio per il nordic walking. E' già una fatica improba stare seduti al bar, sorbendo un marocchino, che qui chiamano Collino, e vederli partire entusiasti. Insomma diciamolo pure, una vera pacchia vacanziera di dolce far niente. La grana è che tutto questo sta per finire. Ancora qualche giorno e dovrò ridiscendere a valle dove un'orda di impegni mi attendono e peggio una serie inferocita di fornitori mi aspettano con fasci di fatture da regolare in mano. Quindi lasciatemi stare ancora un po' che poi mi rifaccio vivo con maggiore sollecitudine.


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venerdì 19 agosto 2016

Non mi toccate il Bosforo

Ponte sul Bosforo -Turchia - agosto 1980

Sembrava un abbracciarsi tra Europa ed Asia, quell'incredibile campata che con un balzo unico saltava dall'altro lato del Bosforo, in una Istambul che anelava all'occidente e che fiera dell'eredità di Ataturk voleva avvicinare quelle due rive apparentemente prossime, ma ancora così distanti. Eppure sembrava in quel 1980 carico di promesse, che tutto un futuro fosse già tracciato sulla velina della storia che doveva ancora essere scritta, ma che appariva così facile da prevedere. Certo era una terra ancora povera, ma dovunque intravedevi un cammino segnato dalle esperienze che tanti figli di questa terra si guadagnavano in Germania, portandosi a casa, oltre che i soldi per costruire profonde fondamenta in patria, anche solide convinzioni, nuovi orizzonti, certezze conquistate col sudore. Il nuovo ponte sembrava certificare tutto questo. Insomma uno poteva partirsene in macchina, ormai questo mezzo era alla portata di tutti e andarsene che so io, in India, come dire vado in ferie ad Arenzano e tutto appariva fattibile, facile. Il ponte cominciava ad omologare culture e modi di vita di una globalizzazione a venire, indefinita nella sua categorizzazione, ma già nei fatti. 

Ero salito in macchina, già carica di tutto, all'una del pomeriggio di un venerdì, appena lasciato libero dall'ufficio, in una Alessandria esausta dall'afa di un torrido agosto ed all'imbrunire del sabato avevo programmato di vedere lo skyline dei minareti di Istambul. Tutto facile, tutto calcolato. Arrivare prima di sera al confine di una Yugoslavia così tranquilla e senza tracce di confini, tracciabili solo in qualche mente di mentecatto che non aveva diritto di parola, Superare l'incrocio con la direttrice dalla Germania, dalle parti di Zagabria prima di mezzanotte e guidare guidare fino al mattino, mentre i bordi della strada erano ingombri di auto e pulmini turchi, pieni di gente che dormiva, mantre tornava a casa per le ferie, senza ingombrare la strada. Giungere prima dell'alba al bivio verso la Bulgaria e poi ancora tutto il giorno senza fermarsi fino ad Edirne. Poi le sagome nere delle moschee dell'antica Costantinopoli ti regalavano la certezza di essere arrivato alla porta dell'Asia infinita, che quel ponte finalmente ti apriva con la certezza che di lì in poi tutto sarebbe stato più facile, per chi sperava che le barriere sarebbero cadute sempre più in fretta. Come è difficile capire il futuro e l'animo degli uomini che lo condiziona.


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giovedì 18 agosto 2016

Recensione: U. Eco - Numero zero



Ecco qua l'ultimo romanzo del mio concittadino illustre, ultimo in tutti i sensi anche perché ormai il professore ci ha lasciato per sempre. Una trama semplice che guarda come di consueto ai complotti ed alla sindrome da complottismo così frequente nel moderno sentire. In un ambiente deprimente di una raccogliticcia redazione fasulla, composta di scarti del giornalismo di serie B, in quel '92 in cui stava deflagrando il fenomeno di Mani pulite, si mettono insieme una serie di numeri zero di un quotidiano che comunque non uscirà mai perché ideato solo per fare ricatti alla politica e non solo, servendo come piattaforma di lancio ad un tal Commendatore che intende forse passare dagli affari che vanno così così, alla politica. Alla luce dei fatti avvenuti prima e dopo, anni di piombo, attentati, complotti e responsabilità mai chiarite, sappiamo che la realtà è sempre andata ben oltre al romanzo che qui sembra soltanto ricalcare con sarcasmo malcelato, molto alessandrino per la verità, la sostanza di quanto c'è di peggio nelle più buie oscurità del quarto potere. Le esperienze fatte da Eco all'interno delle varie case editrici, già raccontate con raffinata cattiveria nel Pendolo, qui raspano il fondo negli aspetti più biechi di questo mestiere pericoloso. Forse non uno dei libri più belli del nostro, ma per me che amo il suo modo di scrivere e di intorcinarsi in queste contorsioni complottistiche che trovano fertile terreno nelle menti malevole dei miei concittadini, rimane comunque di piacevole e rapida lettura. Un libro che va bene da leggere d'estate, così da chiedersi alla fine se sia davvero soltanto un romanzo o non piuttosto una sorta di saggio epistemologico sulle varie vicende italiane degli ultimi decenni. Se amate il genere e l'autore, da non perdere, diversamente lasciate stare.


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martedì 16 agosto 2016

Feriae augusti





Avrete notato che da qualche giorno non mi faccio sentire. So già cosa vi state dicendo. Il solito pigrone, tra la pace dei monti, è bello battere la fiacca, sarà lì che sonnecchia su verdi prati tra i fumi delle griglie ed i fuochi delle pentole per fare i gofri, delizia locale. E invece no, nulla di tuto questo. La verità è che sto cercando di riprendermi da una durissima botta e nonostante la fortissima fibra di cui madre natura mi ha dotato, non l'ho ancora assorbita completamente, anche se tuttavia posso dire di aver portato a casa la ghirba anche questa volta come dicevano i beneamati Alpini dell'Armir. Ma andiamo con ordine, sempre tanto per tenervi aggiornati. Come ho già più volte detto, io sono un animo semplice che si fida degli amici, anche quando questi sono soliti tendere, per pura malevolenza, trappole che potrebbero rivelarsi fatali. Così capita che, benché istruito da eventi passati, almeno una volta all'anno ci ricaschi come un cavedano nella rete. Questa volta il solito gruppo di amici infaticabili percorritori di audaci sentieri alpini, l'aveva presa alla larga. E' noto che tra il 10 ed il 12 agosto di quest'anno, doveva verificarsi il più folto e numeroso passaggio mai visto delle Perseidi, lo sciame di detriti cosmici, epigoni spenti di una cometa morente sfasciatasi dalle parti di Giove, che in questi giorni dell'anno friggono gli ultimi attimi della loro esistenza trascorsa nelle infinità del gelido vuoto spaziale, in una meravigliosa fiammata nel sipario nero della nostra notte, lasciandoci quel brivido romantico che dura un attimo, il brivido di un istante che suscita tenerezze ed elenchi di desideri da appagare. 

Dunque questo gruppo di anziani dalle contorte menti ansiosamente giovaniliste, programmava una serata, anzi una nottata al cospetto delle stelle, da trascorrersi invece che in morbidi letti di piume, come si suol dire, tra selvagge montagne, à la belle étoile. Naturalmente non potevo esimermi dalla partecipazione, caldamente caldeggiata anche, come ovvio dallamia gentile consorte. Ogni difficoltà è stata accortamente minimizzata, in favore della poetica esperienza, insomma una scampagnata a cui mancava solo la chitarra dei diciottenni attorno ai falò. Dimenticando il lontano passato in cui avevo velocemente capito che quello che suonava la chitarra per tutti, benché molto ammirato dalle fanciulle, era poi l'unico che non limonava, cosa che mi aveva fatto subito abbandonare le ambizioni musicali, ancora una volta mi sono lasciato trascinare nell'avventura. Procediamo per ordine. Partenza ore 15:00 per la lontana e solitaria Valle Argentera, altrimenti detta Val Ripa, bardati di tutto punto, abbigliamento invernale, felpe, giacche a vento, plaid e coperte varie; tenda canadese montata l'ultima volta trenta anni fa, di dimensioni lillipuziane, in cui ricordavo la possibilità di introdurmi agevolmente, scordandomi invece che il mio giro vita si è nel frattempo moltiplicato in maniera esponenziale; viveri di sussistenza sufficienti a sopravvivere anche in caso dirimanere dispersi tra le montagne per una settimana o più. Insomma una spedizione fantozziana di impavidi sfidanti della natura più impervia. 

Ore 17:00, raggiunto, previo pagamento di relativa tassa di transito (un fiorino) di 3 euro a macchina, il traguardo previsto di Pian delle Milizie, pianoro di fondovalle a circa 2100 metri, avvolto da un circo di monti ricoperti da foreste di conifere via via diradantisi mentre risalgono i fianchi scoscesi verso le cime, si decide di preparare il campo nei pressi del ruscello, essendo l'area migliore, al riparo dei venti e dotata di zona per fuochi ed altre amenità, già occupata da un gruppo di Land Rover svizzere che ci avevano bruciato sul tempo. Questi extracomunitari che ci prendono i posti migliori, accidenti! Ma niente paura, bisogna fare di necessità virtù e si cominciano a montare le tende, operazione non agevole, data la disabitudine. Non vi racconterò naturalmente delle martellate sulle dita, sferrate con gioia nel tentativo spesso vano di ficcare quei maledetti picchetti in un terreno indegno che non aveva nessuna voglia di farsi trafiggere, anzi, dopo aver accolto la punta del dardo, immediatamente e infidamente petroso sotto la prima superficie tenera, la rifiutava di botto, rendendo inutili le continue e potenti percussioni che appunto colpivano a volte il chiodo, a volte il dito, seguito da una allegro coro di parole idonee al caso. Ore 19:00. Piazzato alla belle meglio il giaciglio pronto per la notte, si è passati alla preparazione del punto di ristoro, previa preparazione di idoneo falò per ottenere la necessaria brace ed anche per avere il piacere del fuoco, istinto primordiale di ogni campeggiatore selvaggio che si rispetti. 

Bisogna dire che i miei compagni di merende, consapevoli di avermi attirato nella trappola con ricattucci vari e male arti femminili, avevano provveduto a prepare un menù di una certa classe, qaunto meno per lenire le mie attese e quasi certe lamentazioni. Infatti dai capaci portabagagli, sono emersi una serie di squisitezze da far placare le ire di chi, con le dita opportunamente martellate, non aveva neppure la capacità di afferrare i piatti, a cominciare, dopo un aperitivo a base di champagne millesimato, dalle più varie torte salate, ad una caponata di melanzane deliziosa, salami vari ed una serie di paté di anatra e di fois gras annaffiato da un gewurtztraminer di qualità. Poi essendo il fuoco ormai vivo, si passati attraverso una vellutata di zucchine e patate con crostini brulé al formaggio e infine avendo ormai ampia disposizione di braci, è potuta scattare l'opzione griglia, con una serie di succulente fette di capocollo davvero delizioso e salciccie sapide e tenerelle, di cui abbiamo fatto il pieno, timorosi di futuri giorni di possibili digiuni se eventualmente dispersi tra i monti. Insomma fare scorta nei momenti di abbondanza prevenendo le vacche magre. Finale con dolci al cioccolato di Lione e proverbiale salame dolce alla piemontese. Insomma una scorpacciata epocale in attesa della notte che intanto era scesa come un sudario nero, avvolgendo le ombre dei pini e annullando i profili delle montagne nell'oscurità più fitta. 

Ore 21:00. Un vento gelido cominciava intanto a spirare da nord, mentre la temperatura percepita scendeva sui nostri ventri rigonfi con la rapidità che avvolge il pesce crudo nell'abbattitore. Il fatto, data l'inospitalità del luogo, di aver dovuto mangiare in piedi come una mandria di cavalli dispersi nella brughiera, aveva già imposto un senso di disagio poco simpatico. Unito questo al bolo gelato che lo stravizio dell'ingordigia aveva posto negli stomaci, si prospettava comunque un prosieguo della serata, piuttosto difficile. Sono passate così un paio d'ore, nel buio più gelido, col naso all'in sù, pregando solo che le unghiate sferzanti del vento malevolo si calmassero, stretti nelle coperte e nei piumini per riscaldarsi al tepore dei corpi vicini, come esploratori dell'Artico, nella inutile attesa di vedere le migliaia di stelle cadenti previste, alla danza delle quali scatenare la nostra bramosia di benessere futuro. Il risultato di qualche deludente schizzetto, non più di due o tre, ma soprattutto il timore di rimanere per sempre accartocciati nelle grinfie di nonno gelo ed essere ritrovati tra qualche millennio, debitamente mummificati come l'uomo di Similaun, ha convinto il gruppo a ritirarsi per la notte al riparo cospicuo dei teli plastificati dei ripari notturni. L'intervallo inatteso di una volpe piuttosto aggressiva che aveva assalito il campo pretendendo tutti i residui di cibo disponibile, cercando anche di arrampicarsi sul tavolo e tentando di portarsi via il sacco dell'immondizia, ci ha fatto capire che quelli son luoghi dove il pericolo è in agguato e dalla foresta può arrivare qulunque cosa, branchi di lupi inferociti o lupi mannari, ma non era notte di luna piena per fortuna. 

Ore 24:00. Lo lume era di sotto della luna poi che entrati eravam nell'alto passo quando....finalmente ci ritiravamo a ginocchioni sulle pietre aguzze, con gran fatica date le dimensioni (delle tende naturalmente), pensando finalmente di avere qualche ora di bramato riposo. Invece, a parte la temperatura polare che costringeva ad un intabarramento con ogni materiale possibile a disposizione, la scarsa consuetudite a piazzare il campo da parte mia, ha fatto sì che la tenda stessa fosse stata innalzata su na sorta di schiena d'asino al centro della quale una pietra grottoluta di dimensioni generose, era puntata direttamente al centro della mia schiena. Ogni tentativo di prendere una posizione accettabile che rendesse quel letto di Procuste,in qualche modo dormibile, è stata vana. Messo di schiena la roccia mi offendeva la spina dorsale tutta, procurandomi dolori insopportabili. La posizione sl fianco era ancora peggio, la scarsa quantità dell'adipe (ancorché generosa grazie alla mia abbondante steatopigia nella posizione sopraddetta) posta sulle ossa iliache, faceva ancor più puntuta la pietra, tale da far prevedere probabili ferite lacero contuse sui fianchi. Insomma una notte infernale, in una continua serie di giravolte tra imprecazioni, lamenti e speranza che la tortura finisse presto, anche da parte della mia povera consorte che aveva sperato almeno di chiudere occhio per qualche minuto senza rompiscatole lagnosi al fianco. Non parliamo poi dei vari problemi idraulici che come immaginerete assillano il maschio anziano. 

Ore 6:00. Alle prime luci sono riemerso dolorante e pieno di sonno, con un feroce mal di testa, causato dalla innaturale posizione del mio povero collo reso perfidamente storto dalla mancanza di un cuscino, essendo ogni materiale utilizzato per il riscaldamento dei corpi. Gli occhi cisposi e la sensazione di sudaticcio che dà quel calore notturno esagerato mentre il resto della carne esposto al gelo si raggrinzisce, è una sensazione così fastidiosa e indisponente da far quasi dimenticare le sofferenze causate dalla mancanza di sonno ed i dolori vari. Attorno garrule grida di soddisfazione degli astanti, entusiasti della situazione, per l'argentino scorrere delle acque, i primi raggi del sole che arrivano sulle tende e lo scoppiettare del fuoco per riscaldare la colazione. Si scopre finalmente cosa sono stati i rumori e i colpi uditi durante la notte. La volpe ha squarciato il fianco di una tenda divorando una parte del materassino di un dormente che è riuscito a scacciarla a fatica nel cuore della notte. Altro che lupi. Ore 8:00. Il gruppo degli arditi, felici ed allegri per la bella serata trascorsa, si arma dunque di tutto punto e partono per una gita per raggiungere una cima vicina, un migliaio di metri di dislivello, quattro o cinque ore di marcia serrata, una sciocchezza insomma, tanto per dare un senso compiuto all'avventura. Per fortuna una coppia del gruppo deve assolutamente tornare a valle per impegni precedentemente assunti e così, usufruendo di questo insperato passaggio, quello che rimane del mio corpo sfatto viene riportato alla base in attesa di cure amorevoli, nella speranza cheprima o poi si riprenda. Non è stato facile. Il recupero è stato lento e difficoltoso. Tra un giorno o due, potrei essere di nuovo in forma. Arrivederci.



mercoledì 10 agosto 2016

L'albero della vita

Mura di Timimoun - Algeria - gennaio 1978

Leggendo qualche giorno fa uno dei fantastici articoli di Quirico sulla Stampa, in cui racconta la sua traversata sahariana sopra un camion di dannati da Agadez verso nord, non ho potuto fare a meno di tornare a quel gennaio di quasi 40 anni fa, quando percorrevo quelle strade in senso inverso, sulla pista delle oasi di Tamanrasset, per poi prendere la traversa che porta fino a Timimoun sulla Bidon V. Questa città dalle mura di terra rossa, avamposto sahariano tra dune colossali, stava immobile nel deserto, conscia che sarebbero bastati tre giorni di pioggia forte per scioglierla completamente. Solo che laggiù non è mai piovuto per tre giorni. In quel tempo nessuno tentava di traversare il deserto per raggiungere le terre della speranza, nessuno scappava da guerre e miseria. 

Erano tempi sonnolenti che non facevano presagire un futuro così duro e feroce. Il sogno di allora per noi che arrivavamo da nord era di arrivare a Arbre du Teneré, una acacia contorta e solitaria in mezzo al nulla, un traguardo mitico al confine con il Niger, lo stesso che al contrario vogliono raggiungere gli uomini del sud, non per godere come noi della vittoria in una sfida ad un territorio difficile e misterioso, ma solo per arrivare a percorrere l'ennesima tappa verso altre terre, sognate a lungo e a duro prezzo, cercate a rischio della vita. 

L'albero del Teneré, l'unico ad essere segnato sulle carte 1:4.000.000, unica pianta presente nel raggio di centinaia e centinaia di chilometri di pietra, roccia e sabbia, non c'era già più nel 1978, abbattuto cinque anni prima da un camionista algerino ubriaco, ma come si fa a centrare ed abbattere l'unico albero in centinaia di chilometri! ed era stato sostituito da una sorta di monumento di metallo, che rimane anche oggi il punto spartiacque della traversata. Penso che ormai, per il resto della vita che mi rimane da percorrere, non potrò più tornare su quei sentieri. Gli uomini che allora facevano da guida ai turisti avventurosi, oggi fanno i trasportatori di carne umana, diciamo che si sono adattati alle circostanze. E il mondo che cambia bellezza.

Arbre du Teneré 1973


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sabato 6 agosto 2016

Trebbiatura in Anatolia

Trebbiatura tradizionale - Anatolia - agosto 1980


L'altopiano anatolico bruciava in quella lontana estate. Un sole a picco feroce batteva sulle teste scoperte senza filtri di nubi, in un'atmosfera secca e spietata. Le messi di una campagna fertile anche se condizionata da quel calore insopportabile e dalla mancanza d'acqua, erano state tutte raccolte e giacevano in grandi mucchi ai bordi dei campi. I covoni portati sulle aie piatte, aspettavano la loro sorte consueta. Sparsi e divisi, a terra, mentre s'apprestava la coppia di cavalli nervosi per il lavoro che li aspettava, a cui veniva legata una sorta di slitta su cui saliva una donna leggera e sottile come i pioppi che lontani tremavano al vento. Poi la ragazza dava uno strattone alle redini e cominciava il viaggio in tondo senza fine, a schiacchiare spighe, a dividere paglie dai grani, a sminuzzar le piante ormai secche ed infragilite dai raggi del sole. 

Di tanto in tanto ,se la coppia impigrita o troppo accalorata, mostrava di calar d'impeto e moderava il passo, uno schiocco di frusta quasi ad accarezzar le groppe, ma senza violenza, più il suono che altro, a mostrar l'intenzione ed a ricordare chi guidava le danze. Fatma, la ragazza, girava, girava e chissà la sua testa a quali pensieri correva intorno. Forse a quegli stessi cerchi che i giovani del villaggio facevano ballando la sera intorno al fuoco, tenedosi per le spalle fino a completare il cerchio. Forse ce n'era uno dai baffi neri e corti che le muoveva il sangue anche solo a pensarlo, quando, forte e diritto, saliva d'un balzo sul suo cavallo morello, per scendere verso la città, nei giorni di mercato. Nell'aria solo l'afa pesante ed un frinir di cicale così forte da stordire. 

Niente altro in quel paese così calmo e tranquillo, lontano da città e mare e tempi in cui si parlasse di guerre, di religioni, di fughe. Tuttalpiù erano arrivate anche lì notizie di un'Italia, paese lontano, in cui bombe esplodevano sui treni con decine e decine di morti e si pensava a che paese strano e pericoloso fosse quello in cui potevano accadere cose del genere. Lì invece c'era solo la tranquilla serenità del lavoro dei campi, la mietitura e la festa alla fine quando il frumento si raccoglieva nei sacchi, prima di essere stivato per l'inverno. E poi magari, quel giovane dai baffi corti che cavalcava così bene, l'avrebbe chiesta in sposa. Fatma diede un'altro piccolo schiocco di frusta, accompagnato daun lieve grido sottile ed allegro. I cavalli capirono subito e ripresero il passo più rapido.



venerdì 5 agosto 2016

Acciughe a Nazaré

Ritiro delle reti- Nazaré- Portogallo - gennaio 1980
Era gennaio ed anche piuttosto freddo. Il vento dall'Atlantico arrivava teso con folate rabbiose come colpi di sciabola che si infilavano nel collo lasciato troppo scoperto dall'assenza di una calda sciarpa. La spiaggia di Nazaré era immensa, lunghissima e larga, in consistente salita che l'onda lunga e violenta risale per un largo tratto con velocità spedita. A gennaio deserta di turisti e bagnanti, ma punteggiata di file infinite e numerose di piccole figure nere, piegate in avanti, tese nello sforzo di tirare, agganciate a corde spesse e forti che apparivano come impegnate allo spasimo a trascinare il mare verso terra. 

Agganciati ad ancore di ferro, uomini e donne tiravano disperatamente, risalendo la china con i piedi che si piantavano nella sabbia bagnata e pesante fino ad affondarci con gli stivali di gomma, per fare presa migliore. Le reti grandi e piene di speranza non comparivano ancora benché decine di persone unissero i loro sforzi per farle riemergere dalla onde spumose di un oceano incattivito e muscoloso. Una scena degna dei Malavoglia, con un popolo all'apparenza condannato a queste catene da cui non ci si poteva liberare, in attesa di completare l'opera, di vedere emergere quei sacchi giganteschi, macigni di un Sisifo condannato a vederli subito ributtati in mare affinché la pena si ripetesse ancora e ancora, giorno dopo giorno. La fila ingobbita continuava a tirare, un passo alla volta, gettando qualcuno uno sguardo addietro per vedere se compariva alfine la cosa cercata, felici se la fatica era maggiore perché forse questo significava maggior raccolto. 

Infine ritirata competamente la rete, rimanere lì a vederla sgonfiarsi a poco a poco, con l'acqua che scivola via in fretta rivelando l'inganno del grande volume che si riduce, si asciuga, lasciando al fondo un magro sacchetto di carne che si agita disperata mentre la vita se ne va. Poi i pescetti, misere acciughe d'argento, dall'occhio ancora implorante, presi, tagliati, ripuliti e distesi su graticci perché quello stesso vento li asciugasse per conservarli a lungo. Forse adesso non si pesca più così a Nazaré, adesso laggiù devono pensare anche loro a sistemare banche, gonfie non di sardine guizzanti, ma di titoli tossici da cartolarizzare.


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mercoledì 3 agosto 2016

Il cobra non è un serpente

Delhi - India - agosto 1978
Così per lo meno cantava la Rettore un po' di tempo fa. E'un pensiero indecente, mi pare. Ma il cobra lo sa che non deve mordere? Oppure è stregato dal suo carceriere che lo blandisce di tanto in tanto con il suo flauto di zucca secca? Oppure ancora è vittima di una sorta di sindrome di Stoccolma che glielo fa amare, il suo aguzzino, solo perché aprendogli il coperchio del cesto gli dà modo di prendere un po' d'aria e di luce, dando un'occhiata intorno o buttandogli qualche topolino da mangiare senza fargli fare neanche la fatica di ipnotizzarlo. Difficile a dirsi, anche perché la vita del cobra prigioniero è un poco una metafora della vita. 

Lavorare per vivere, fare quella serie di gesti previsti ed obbligati, quelli che vogliono i nostri burattinai e poi prendere il premio alla fine per il compito eseguito. In fondo non si sta neanche male. Solo di tanto in tanto qualcuno si incazza e approfittando di un attimo di disattenzione del pifferaio gli dà un bel mozzico, ma è un evento raro e forse già previsto dal burattinaio del pifferaio, insomma è una catena di controllo che non finisce mai, credi di essere in cima alla catena e invece ce n'è sempre un altro sopra. Quella dei pifferai, poi, laggiù è addirittura una casta apposita, con le sue regole ed i suoi obblighi religiosi ed economici, magari si spartiranno anche gli spazi sul marciapiede come i centurioni del Colosseo o le puttane in periferia. 

Ma il cobra intanto, continua a muoversi lentamente a destra e a sinistra, gonfiando il collo come se fosse davvero arrabbiato, seguendo il movimento ondulatorio del flauto per far contenti i turisti, avvita il bullone, svita la vite, salva il file, carica i dati, chiudi la porta, anche se lui neanche lo sa che quello è un piffero che suona, per lui è soltanto un bastone che si muove ritmicamente con le dita che si muovono a tempo e quel suono cantilenante che va e viene manco lo sente. Per forza, non ha neanche le orecchie.

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martedì 2 agosto 2016

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dl web

Se stai un attimo in silenzio ad ascoltare le chiacchiere dei tavoli vicini al bar o se invece ti va di passare qualche minuto a dare un'occhiata a facebook, così tanto per fare passare il tempo in questa estate costellata di notizie maleodoranti, non riesci a farti una ragione di quanto odio spiri libero intorno. L'odio dei nostri giorni è come un gas nervino venefico che ammorba ogni ambiente, ogni luogo in modo talmente intenso da rendere quasi l'aria irrespirabile. Non appena compare qualche notizia fasulla o semi vera, ma presentata e storpiata in modo che appaia come velenosa o indigesta ed ecco che i seminatori di odio subito si affrettano a condividerla per moltiplicane i più possibile gli effetti, una catena di Sant'Antonio malevola e disgustosa. Gli stessi propalatori di feccia riconoscono che la maggior parte di queste notizie sono fasulle e utili ai siti che le diffondono per far soldi alle spalle dei gonzi, ma che importa, intanto l'odio scatenato contro i presunti nemici, sia il governo o la Boldrini o i mussulmani un tanto al chilo, aumenta e chi sa che non si possa passare ad una fase che vada al di là delle semplici parole. 

Gente che invece della bambola gonfiabile, non ha neanche il cervello gonfiabile, offre soluzioni immaginifiche per risolvere i problemi migratori. Ho sentito chi diceva che certo, sarebbe un'ottima soluzione mitragliare direttamente i barconi dei profughi, solo che l'opinione pubblica non è ancora pronta, ci vuole ancora un po' di tempo, bisogna solo prepararla in modo acconcio. Non parliamo dei mussulmani nelle chiese, date un'occhiata a quello che gira sul web oggi e soprattutto da gente che si dicon cristiani. E sono gli stessi infami che il giorno prima tromboneggiavano che toccava all'Islam dare un segnale di rifiuto del terrorismo. Sono alla fine i medesimi che senza dirlo godono assai ad ogni nuovo attentato, legna da ardere per rinfocolare l'incendio, gli amici più appassionati dei terroristi in fondo, che non fanno altro che il loro gioco. Eppure così funziona il mondo e così ha sempre funzionato, Germania nazista docet. Poi non puoi nemmeno lamentarti se la gente vota i grilloidi, che tanto bene stanno facendo a Roma e a Torino. Accidenti ci son cascato anch'io, ma che volete farci, è la natura umana!

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