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Nemrut Dagi - Turchia orientale - agosto 1981 |
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Il sentiero che sale |
Partimmo che era notte piena, tra le tre e le quattro, accompagnati da un ragazzo, che come da accordi presi il giorno prima, ci venne a svegliare verso le tre, stupendosi di trovarci già pronti di tutto punto. Quando bisogna andare si va, poche chiacchiere. Arrancando su una pista ciottolosa e torta, sostenuti da quella 127 indistruttibile con alle spalle 110.000 km, arrivammo fino ai piedi della montagna o per lo meno del grande cono che saliva ancora per almeno tre o quattrocento metri. Lasciammo l'auto e prendemmo il sentiero che montava sul fianco alla luce delle pile. Avevo trentacinque anni, ma ho sempre fatto fatica a camminare in salita, non ci ho proprio l'attitudine, né mentale né fisica e tutte queste performances, necessarie, per carità, fatte per raggiungere certi luoghi a cui è impossibile arrivare diversamente, incidono pesantemente nel mio umore, condendole di litanie di mantra poco urbani, direbbe qualcuno e che durano per tutto il tempo della onerosa salita. Fatto sta che mentre il cammino proseguiva erto e faticoso, eravamo comunque a più di 2000 metri, con gli occhi sempre a terra per evitare di inciampare in qualche pietra sporgente o di scivolare sull'acciottolato mobile, piano piano ci avvicinavamo alla cima. Dopo un'ultima curva, il terreno si spianò un poco e in fondo all'ultimo orizzonte, completamente aperto, dato che il Nemrut Dagi è l'altura più rilevante della zona, stava comparendo il lucore rosso scuro che preannuncia i primo barbaglìo dell'alba.
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Tra le teste |
Eravamo su una specie di terrazza naturale rivolta ad est ed in quella penombra che precede il comparir del giorno comparvero una serie di ombre nere alte tre o quattro metri, immobili giganti, muti spettatori che ad ogni ripresentarsi del giorno, stavano evidentemente lì in silenziosa attesa. Fu uno degli spettacoli che più segnarono la mia memoria in quegli anni. Avevo ancora il fiato mozzo per la salita, ma seduto sul quel masso, mentre il cielo si ammantava di rosa carico, quelli che parevano massi informi caduti dal cielo con casualità capricciosa, rivelarono la loro natura, opere dell'uomo rivolte in eterno ad ammirare lo spettacolo del sorgere del sole, tenendo compagnia al viandante che non a caso era salito fin lì in cerca di emozioni forti. Erano intorno a me una serie di teste colossali, di uomini, di animali, di aquile, che sembravano posizionate a caso da una regia di titani scesi dal cielo a sacralizzare una montagna incantata. La cima della stessa era ancora qualche metro più in su dove, riuscivi ormai a scorgere nitidamente, mentre la luce cresceva nel cielo, una piattaforma di pietra, un altare mistico, un cenotafio di statue sedute, dai torsi megalitici, tutte ormai prive della testa e di altre parti, che qualche demone dispettoso, evidentemente invidioso di tanta grandezza, aveva spezzato, rotto, schiantato con violenza malvagia, facendole capitombolare sul terrazzo sottostante dove rimanevano così mute testimoni di tanta violenza.
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L'altare principale |
Vi assicuro che questo luogo è assolutamente indimenticabile. Questa è la più incredibile tomba che qualcuno abbia mai potuto progettare ed immaginare, per protrarre nel tempo il proprio ricordo terreno, vuoi per la posizione lontana dal sentire terreno, vuoi per la solitaria bellezza, vuoi per le dimensioni ciclopiche dell'opera che tuttavia si confonde talmente con la montagna stessa da mostrarsene parte come quelle figure che credi di immaginare in quei luoghi naturali, dalle sembianze antropomorfiche e che invece sono soltanto opere della natura che l'uomo, incredulo di fronte a tanta bellezza vuole, ingannando ancora se stesso, credere opera di suoi simili, per quanto straordinari e non del casuale lavorio degli elementi naturali. Nel primo secolo avanti Cristo, Antioco I Commagene, re di questo minuscolo territorio sopravvissuto alla spartizione dei generali di Alessandro alla frantumazione del suo impero, volle misurarsi con l'eternità e si fece costruire in cima a questa montagna sperduta nella Tauride orientale, lontana da ogni centro abitato, un ulteriore tumulo, innalzandola ancora di una cinquantina di metri, sopra il quale sorse questo santuario popolato di statue colossali che raffigurano lui stesso circondato di dei, ai quali evidentemente si sentiva di appartenere, semidei ed altri animali fatati. Ma forse gli dei si sono considerati offesi da tanta superbia e hanno percosso questo luogo perduto nel tempo e nello spazio con una serie infinita di terremoti rovinosi che hanno fiaccato anche la dura resistenza della pietra.
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La terrazza est |
Ne hanno quindi abbattuto parte delle statue, facendone rovinare al suolo, sulle tre terrazze che circondano la cima, le teste orgogliose, lasciano solo i torsi decapitati o quel che ne è rimasto a mantenere la posizione sulla vetta. Se arrivi lassù, specialmente nel cuore della notte o prima del tramonto, non riesci a distaccarti da queste pietre mentre la luce del sole che nasce, le accarezza colorandole, via via di rosa, poi di ocra pallido che diventa sempre di più giallo vivo, fino a splendere come oro, mentre guardano con orgoglio sulla valle quando il giorno di dispiega in tutta la sua potenza, in quell'aria fina, circondato da un silenzio assoluto, rotto solo dallo scalpiccio fastidioso dei tuoi passi in cerca di altre prospettive, ansiosi di scoprire altri volti immobili, protetti dai becchi adunchi delle aquile e dalle fauci dei leoni. Un volto apollineo alto almeno due metri leva un cappello frigio volgendo lo sguardo sulle creste lontane alla terrazza sud; altri volti, dallo sguardo sereno, ma dall'epidermide corrugata, rosa dalle intemperie, dal gelo della notte e dal sole rovente del giorno, che crepa anche la roccia più dura, rendendole un poco simili a mummie incartapecorite e appena private delle loro bende protettive, forse generali o semidei al servizio del re, consci di essere rimasti cristallizzati nel tempo. Antioco forse non ha trovato l'eternità bramata, con questa sua opera colossale, ma di certo qualche cosa è riuscito ad ottenerla. Nessuno, né i leggendari ladri di tesori, profanatori di tombe fin dall'antichità, fino ai più moderni archeologi, una spedizione di una fondazione italiana, arrivò qui munita dei più moderni strumenti elettronici e scanner magnetici, è riuscita a scoprire il corridoio di accesso alla tomba, ammesso che ci sia, che è rimasta tuttora inviolata. Ora questo territorio è nel cuore di problemi politici più grandi e non so neppure se sia concesso arrivarci. Le grandi teste misteriose, sono rimaste lì, mute per altri secoli a conservare il loro millenario segreto.
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Terrazza ovest |
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Una testa |
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Terrazza est |