venerdì 31 agosto 2012

Recensione: Lu Hsun - Fuga sulla luna.

Volume molto interessante per coloro che vogliono approfondire la conoscenza del Paese di Mezzo. In questo caso il nostro autore, che ha scritto molto nei primi anni del secolo scorso, ha vissuto uno dei periodi più travagliati ed interessanti della Cina, quello della caduta dell'impero e della nascita dei fremiti socialisti e prerivoluzionari che attraversavano il paese, sull'onda dello sconvolgimento russo. E' una raccolta di racconti scritti negli anni 20, che ci raccontano di una Cina di paese, dove arrivano ovattati gli stimoli delle novità occidentali a turbare la stabilità confuciana radicata da millenni. Le figure tratteggiate, il pazzo, il mendicante, lo scemo del villaggio, il ricco prepotente e il giovane rivoluzionario, raccontano le loro vicende personali, ma sullo sfondo dominano le etichette cinesi di sempre: il terribile esame per diventare funzionario imperiale, il detto non detto a cui si deve fare riferimento per non turbare l'armonia, gli scoppi di violenza che di tanto in tanto percorrono la società cinese nelle rivolte contro il potere e la sopraffazione dei piccoli potentati locali, la crudeltà assoluta che spesso appare a noi gratuita e priva di sentimento, l'importanza del non turbare l'armonico andamento delle cose, anche a scapito della giustizia; tutte costanti ben riconoscibili anche nella Cina di oggi e molto utili per capire la mentalità di un paese. 

Il tutto è sempre condito dalla poetica tipica orientale, dove si deve immaginare e dove la natura colora e rappresenta i sentimenti. Certamente qua e là traspaiono anche le vicende personali dell'autore, figura discussa durante il periodo, in cui i letterati partecipavano prepotentemente alla discussione politica che andava formandosi, con la forte influenza russa e che condusse infine alla rivoluzione maoista. Non mancano i riferimenti alla cultura giapponese che al pari di quella russa influenzava in quel periodo l'intellighenzia cinese. L'attenzione dell'autore viene sempre riposta sull'aspetto popolare, dando rilevanza all'uomo e alle sue sfaccettature, alla tradizione, ma anche alle idee nuove che vorrebbero, come in tutti i movimenti dell'epoca, portare alla costruzione di un uomo nuovo, cosa ancora più difficile in un paese dove è totalmente sconosciuto il concetto di democrazia, ma ben radicato invece quello di dovere, di rispetto verso l'autorità. Lasciatevi tentare da questo raccontare piano, che si sofferma sui piccoli particolari all'apparenza insignificanti, conditi sempre da un finale delicato, mentre le storie si formano nei cortili degli hutong di Pechino o nelle vie polverose della campagna povera dove breve è il confine tra l'agiatezza, fatta del possedere quanto serve alla vita quotidiana e la povertà, che significa disperazione e spesso morte. Per chi vuole cercare di capire la Cina.


Se ti è piaciuto questo post, ti potrebbero anche interessare:

giovedì 30 agosto 2012

Ritorno in città.

Rattazzi indica la strada agli ex-amministratori - dal web


Certo quando si ritorna in città c'è come un senso di finito, come di aver perso qualcosa. Le vacanze (non certo le mie) si sono concluse e il riprendere la vita normale porta sempre con sé un senso di deprivazione, di perdita, di negativo. Sarà tutta quella montagna di roba da mettere a posto, ma come è stato possibile caricarla tutta in macchina? Sarà che ritornando all'ovile ritrovi anche cose che non ricordavi più o che pensavi di esserti lasciato ormai alle spalle. Invece non è così. L'aria è stranamente pesante in città e non è la solita cappa di umido estivo dell'Alessandria tipo. Già perché proprio la mia città, oggi è sulla prima pagina del giornale. Che onore. Saremo la prima città fallita d'Italia. Non che quelle che sono state via via salvate fossero meglio, si sa quando metti la città nelle mani di giunte di un certo tipo, bisogna avere il coraggio di dirlo una buona volta, la destra è davvero negata quando si parla di economia, il risultato è sempre più o meno lo stesso. Il fatto è che adesso si è deciso che basta, si tira la riga e d'ora in poi chi fallisce, fallisce sul serio. Si comincia a non pagare più gli stipendi, l'immondizia rimarrà in mezzo alla strada (come a Napoli? no a Napoli poi la portano via) e così via. Chi ha fatto il puffo invece (100 milioni di euro o più, perché i bilanci pare che siano per così dire, di fantasia) va in giro liberamente a pontificare. Chi è appena arrivato è inseguito dai creditori, le care e vecchie amiche banche e sta cominciando a spremerci come rape e lo farà per i prossimi cinque anni. Siamo messi un po' come la Grecia per fare un paragone che potete capire facilmente. 

La gente per la strada, abituata alle nebbie, che sia umidità che sia calore, non grida neanche, non va a incatenarsi davanti a chi ha così bene amministrato la città. Forse non ne ha neanche la forza, qui l'età media è attorno ai 70, i giovani emigrano e quelli che sono qui, per contrappasso, sono tutti immigrati che non hanno ancora capito l'aria che tira e che presto si troveranno una concorrenza agguerrita. Si borbotta sulle panchine. ma con poca convinzione. L'alessandrino è fatto così, non crede molto a quanto si sente dire in giro, è abituato alle chiacchiere da bar, alza un po' le spalle, fa un ghigno traverso con la bocca e chiosa le questioni con un definitivo "tüti bali" e cambia argomento, anzi è leggermente infastidito da questa attenzione che si comincia a rivolgere alla città. Chissà, se lo viene a sapere la Merkel, va a finire che non si fida più neanche del resto dell'Italia, d'altra parte noi, glielo avevamo già fatto una volta il pacco a quel tedescaccio del Barbarossa che era venuto da queste parti con uno spread micidiale di lanzichenecchi a pretendere che lo si stesse a sentire. La Lega si era messa di traverso già allora (e a quei tempi mica prendeva lauree a Tirana, né mandava soldi in Tanzania) e teneva ancora per le palle la maggioranza dei comuni, quindi il Barba, muto, gira la mula e torna a casa con la coda tra le gambe. Chissà se è andata così o se anche allora l'hanno fatta poi raccontare da qualche giornalista penna fina. Mah, certo che la città è proprio pervasa da una sottile vena di malinconia. Quasi quasi me ne vado al mare.


Se ti è piaciuto questo post, ti potrebbero anche interessare:


mercoledì 29 agosto 2012

Recensione: A. Pérez-Reverte - Il giocatore occulto.

Ancora letture estive. Questa volta un buon noir, con il pregio di avere, per chi lo gradisce, le classiche connotazioni del romanzo storico, documentato e preciso. Aggiungi che Pérez-Reverte è un discreto scrittore e ecco bello e pronto un 600 pagine di avventura, intrigo, violenza, cadaveri spolpati, dame tremebonde, corsari e via discorrendo. La vicenda si svolge durante l'assedio di Cadice che le truppe napoleoniche hanno posto nel 1811, poco prima che la stella del Corso cominciasse a decadere. Da un lato un capitano preoccupato solo di riuscire a far combaciare la scienza balistica con il risultato che le bombe che tira sulla città abbiano l'efficacia ricercata, dall'altro un cupo commissario di polizia pronto a tutto pur di risolvere un intricato caso, un serial killer che trucida ragazzine sedicenni. C'è un rapporto misterioso, morboso tra bombe e cadaveri. Sullo sfondo, la città e i suoi abitanti per cui la guerra procura fastidi sopportabili, ma anche occasioni di affari, perché tra la vita e la morte solo questo conta, gli affari. 

Affari importanti che si intrecciano nella società gaditana tra navi che arrivano dalle Americhe in rivolta e navi da corsa che cercano di intercettarle e l'arrivo o meno di una di queste può distruggere una famiglia o darle ricchezza. La guerra rimbomba sulla sfondo, una guerra fatta di fango, di pidocchi, fame e cancrena. La città guarda la baia in attesa che tutto finisca e si riannodino le fila della vicenda e ogni cosa torni al posto che le spetta per diritto di nascita. Inglesi e spagnoli contro francesi, due mondi a confronto. Repubblica, libertà e occasioni per tutti contro nobiltà, certezza dello status, importanza della posizione, in cui le idee liberali si fanno strada a fatica cambiando qualcosa per far rimanere tutto come prima. I poveracci a far la fame nelle bettole del porto, le prostitute a vendere quel poco che hanno da vendere, le nobildonne a nascondersi dietro i ventagli e le mantiglie, lanciando occhiate infuocate a marinai dai capelli lunghi e dagli sguardi sognanti. Diciamo che ti fa proprio venir voglia di andarla a vedere, questa città circondata dalle mura che hanno resistito a Napoleone.


Se ti è piaciuto questo post, ti potrebbero anche interessare:

martedì 28 agosto 2012

Château Queyras.



La barriera delle Alpi, separa o congiunge, a seconda da che parte la si guardi, due mondi simili e vicini, che sono stati nella storia, di volta in volta, amici, parenti o nemici feroci. Di qui ecco il Bertola a rafforzare e innalzare forti e linee difensive, barriere invalicabili che, come in tutti i luoghi e tutti i tempi non sono serviti a nulla (forse anche allora bisognava fare decollare l’economia con le grandi opere), dall’altra, ecco il Vauban e innalzar piazzaforti, bastioni e cittadelle invincibili per parare il colpo. Così oggi per la gioia di tutti, si può saltabeccare da una parte all’altra della frontiera e godere di queste opere superbe, della loro architettura pensata e potente e compiacersi delle vedute che le opere stesse, per loro natura posizionate in luoghi splendidi, sono offerte al nostro piacere di uomini del nuovo millennio, non più adusi all’attenzione del nemico confinante, da contenere coi cannoni, bastando invece oggi massacrarlo in borsa con l’assalto allo spread. Lasciata dunque la parte italiana della barricata, oggi venite al mio seguito, là dove il Delfinato ha dato prova di saper lavorare quanto meno alla pari. Superata la deliziosa piazzaforte di Briançon di cui vi ho già parlato, si sale verso i contrafforti del Col dell’Isoard, dalle nobili memorie sportive che il Tour rinnova ad ogni passaggio, oppure dall’altra più via più facile ma altrettanto bella, prendendo verso Gap, e attraverso splendide viste, sarete precipitati dopo pochi chilometri in una valle stretta, un cañon oscuro con le pareti che quasi in alto si toccano. 

Ma non appena la visuale si allarga leggermente ecco levarsi in mezzo alla valle, uno sperone acuto che quasi sbarra la strada al torrente che a fatica si è scavata la strada tra la roccia. In cima al ronchione, evidenziato dai labari colorati che sventolano dall’alto della torre, ben mimetizzato e quasi tutt’uno con il grigio della pietra, intravedi la sagoma netta di Château Queyras. Castello medioevale del XV secolo, elevato qui e rafforzato durante le guerre di religione, che sfrutta la sua posizione chiave a guardia della valle. Successivamente sempre grazie alle condizioni del sito, il Vauban sceglie di rafforzarlo con una ulteriore cinta poderosa che ne raddoppia l’estensione, con il ruolo di formare una prima barriera di rallentamento a difesa del briançonnese. Fortezza raccolta e contorta, subito ti addentri attraverso i ponti levatoi, superando i fossati su camminatoi stretti, tra scarpe e controscarpe, scalinate ripide, sotto i muraglioni dalle sottili feritoie sulla valle, polveriere e casematte; ti muovi nei piccoli cortili circondati dagli alti muri, penetrando via via sempre più all’interno dei segreti della costruzione. 

Come sempre i francesi valorizzano assai bene quello che hanno; la visita è dunque ben congeniata tra materiali antichi esposti nelle varie stanze del castello, alternate a ricostruzioni delle situazione dell’epoca o ad esposizioni di splendide fotografie della zona. Quando stanco discendi dalla ripidissima discesa (oh quanto ha saputo di sale il risalir l’erta all’arrivo!) per raggiungere il parcheggio sul torrente, converrà fermarsi per un breve ristoro nel localino del paesello, dove con una decina di Euro, potrai gustare una classica Tartiflette al Reblochon o qualche altrettanto tipico tourton briançonnese ai formaggi o alle prugne, quantomeno per riprendere le forze. Se mai al ritorno puoi fermarti prima del confine a fare il pieno di benzina e dal farmacista ad acquistare tutti quei generici che chissà perché in Francia costano circa un terzo che da noi e senza che i farmacisti abbiano minacciato lo sciopero.

Se ti è piaciuto questo post, ti potrebbero anche interessare:


domenica 26 agosto 2012

La festa del paese.



La festa del paese.Un archetipo di ogni tempo ed ogni luogo. Pure rimane un momento carico di sensazioni ed aspettative. Tutto il borgo è già da qualche giorno percorso da uno strano fremito di attesa, un senso di eccitazione che percorre tutti gli abitanti e per contagio anche chi ci sta pochi giorni in vacanza o che è passato per caso. Annunci in bacheca, qualche manifesto, il passaparola preludono agli appuntamenti della giornata clou. Fenestrelle é da qualche giorno in attesa dell'avvenimento, ogni anno uguale, eppure sempre diverso. La mattina è splendida, un bel sole su un cielo blu cobalto, le montagne che disegnano nette il confine tra cielo e terra, il forte immobile sul crinale a disegnare la quinta del palcoscenico. Un sacco di gente in giro per il paese, già dalle prime ore, poi la campana che chiama alla messa grande, dove sarà benedetto il pane che le ragazze in costume hanno portato nelle grandi ceste fino in chiesa, dopo averne ornato ogni pezzo con un fiore e che sarà distribuito a tutti perchè lo conservino per un anno intero a simbolo di protezione e buona fortuna, per essere poi bruciato nel camino quando sarà sostituito da quello nuovo. C'è un'aria di festa che non si può spiegare, la gente è allegra e circonda le ragazze con le cuffie di pizzo bianche o nere, le lunghe gonne e gli scialli colorati.

Ognuna ha sul petto la croce d'oro antica, avuta dalla nonna. I turisti scattano foto, gli abitué guardano con occhio smagato lo spettacolo tante volte visto, ma rimangono comunque lì, avvinti da una strana malìa inspiegabile, che ti porta in giro per il paese a goderne il momento di eccitazione collettiva. Nel pomeriggio lo spettacolo del bal da Sabre, rievocazione di origini antiche che affonda il suo senso nella cultura rurale precristiana, arricchitasi via via nel tempo di simboli che la storia ha codificato, il temuto nemico saraceno di cui forse si temeva l'arrivo fin nelle Alte Valli, gli Spadonari col loro ballo ritmato a formare complesse figure incatenate, l'Arlecchino che va continuamente a disturbare la danza, figura di libertà e di rifiuto delle convenzioni, sempre rincorso dai gendarmi, alla fine vittorioso e levato al cielo sulle sciabole a salutare il pubblico. Come mai, dopo averlo visto tante volte, in fondo sempre uguale, rimango ancora qui a guardare lo snodarsi delle figure, le spade che si incrociano, i costumi che si alternano in una costante di spirali e volute? Forse è l'ipnotico taratàn, taratàn, taratàn tan tan dei tamburini che ti fa rimanere avvinto davanti ai costumi turcheschi del Bal da Sabre, seguiti dalla courenta e la mazurka occitana delle ragazze. E' un'atmosfera particolare, che non puoi spiegare a parole, la festa di San Luigi dei Francesi, che come tutte le altre feste del paese manda a casa tutti sereni, contenti di appartenere ad una piccola comunità, con un arrivederci al prossimo anno, per un altro 25 di agosto, fatto di cose semplici e solide di cui forse molti sentono la mancanza.
 



Se ti è piaciuto questo post, ti potrebbero anche interessare:

Tarda primavera.


lunedì 20 agosto 2012

Usseaux. Un paese su cui meditare.


Altro post di servizio per chi risale la Val Chisone alla ricerca delle tracce di Re Cozio, che fermò i Romani (trattando si intende), lasciando via libera invece (così si dice) a quel vu' cumprà extracomunitario di Annibale, che allora facevano il giro di qua, che pare fosse più facile che venire in barcone dalla Tunisia. Se avete già visto il forte di Fenestrelle e volete salire fino a Sestrière, che peraltro d'estate non è 'sto gran ché, dovreste fare una piccola deviazione sulla destra, qualche chilometro dopo Fenestrelle, per risalire il fianco della montagna fino al piccolo borgo di Usseaux (date un'occhiata al sito). Una breve visita che oltre al piacere di trascorrere qualche ora in un luogo incantevole, può lasciare spazio anche a qualche piccolo ragionamento. Il paesino, Auxellum per i latini, sorge in una posizione magica a mezza costa, come su una balconata naturale che guarda la valle nelle due direzioni, complice l'ansa che il Chisone compie nel suo cammino verso il piano e gode di un soleggiamento perfetto durante tutto il giorno, anche quando le altre parti del monte e la serie dei piccoli abitati che fiancheggiano la strada, sono a poco a poco avvolti dall'ombra indotta dalle quinte naturali delle montagne circostanti. Lasciata la macchina nel parcheggio all'inizio del paese, vi inoltrerete per le stradine contorte e qui comincerà la vostra meraviglia al vedere l'esplosione di gerani rossi che traboccano da ogni finestra, da ogni davanzale e al limitare dei gradini di ogni porticina. 
Appena alzerete gli occhi ai vostri lati subito noterete che ogni casa ha la facciata ornata di uno o più, piccoli murales che raccontano la vita di questa valle; persino gli armadietti di metallo del gas sono occultati da disegni trompe-l'oeil che simulano finestrelle dietro le quali fa capolino un gattino o in cui si intravede una vecchia stalla popolata di caprette. Insegne di legno, balconi dai bordi intagliati con cura, case dipinte e tetti di lose antiche e pavimentazione ordinata. Davvero un piacere per gli occhi e nonostante si tratti di un paesino di piccole dimensioni, potrete trovare biblioteca, esposizioni, piccolo museo di vecchi strumenti, piccoli artigiani, per non parlare dell'antico forno in cui è ancora possibile per chi si mette in nota, cuocere il pane o in fondo al paese il vecchio mulino con la grande ruota di legno e le ciclopiche macine di pietra, all'inizio del sentiero "del pensiero" che vi consente un paio di ore di solitaria meditazione nel fitto bosco che circonda l'abitato. Certo, perché su certe cose bisogna anche meditarci un po' su, per capire che basta voler fare le cose, con un  intento comune, magari guidati da qualcuno che tira avanti il carretto e poi non è così difficile fare delle belle cose. Certamente qui si sono alternati un paio di sindaci lungimiranti che hanno dato il via per trasformare un vecchio abitato composto di casupole dal tetto sfondato e semiabbandonate in un piacere degli occhi che invita alla visita e anche a trascorrere qualche giorno in pace e tranquillità. 

Perché tra le cose belle si sta bene, si ragiona meglio e si producono anche cose migliori. Naturalmente c'è voluta anche la collaborazione completa di tutti gli abitanti, che a poco a poco, perché il bello trascina anche lo svogliato e la volontà ammazza o trasforma il brutto, hanno messo a posto ognuno la propria casa; magari non erano tutti d'accordo ma si sono convinti a fare una cosa assieme che ha valorizzato il tutto. Qualcuno è passato, ha visto e si è innamorato e a sua volta ha rilevato un rudere e lo ha rimesso a posto in sintonia con gli altri fino ad arrivare al risultato attuale. Roba d'altri tempi direte voi. Mica tanto. Basta andare sulla piazzetta davanti al municipio dove vedete il cartello WiFi free e magari sulla panchina, ecco un ragazzo biondo, che forse arriva di lontano, col suo laptop sulle ginocchia che magari sta dicendo a qualcuno distante migliaia di chilometri quanto è bello questo posto e come è piacevole stare qui. Stai a vedere che magari un'altro anno ci viene anche quell'altro e porta qualche amico. Vedete, certe cose le possono fare tutti, non soltanto in Tirolo o in Austria o in Svizzera. Basta averne voglia e mettersi d'accordo, non vi sembra?




Se ti è piaciuto questo post, ti potrebbero anche interessare:

Tarda primavera.
Vena poetica.

domenica 19 agosto 2012

Karma automobilistico.

Quando tutto gira storto ci deve essere un motivo, una sorta di contrappasso, una punizione che devi esserti meritato per le nefandezze che combini e, se come me non ne combini affatto, devi averlo fatto in una vita precedente. Dunque, ho per le mani un caro amico a cui volevo far godere almeno in parte le bellezze della valle che mi ospita e ho provveduto con avveduta attenzione ad organizzare nei dettagli una visitina dei dintorni. Dopo aver visto un paio di paesini che rasserenano anche i più incupiti, aver goduto della vista del panorama dall'alto di una strada mirabilmente panoramica che si snoda tra forti antichi e picchi solitari (essendo sabato abbiamo incrociato solo alcune centinaia di gitanti ansiosi di sfuggire all'afa della pianura e un raduno di appassionati del quad, macchina infernale che è stata creata per sollevare nuvole impenetrabili di polvere appena si avvia su strade sterrate), abbiamo cominciato la discesa verso il fondovalle proprio in prossimità di un ristorantino di cui vi ho già fatto cenno alcuni giorni fa e che mi sembrava giusto adatto alla bisogna di appagare i bisogni nutrizionistici e anche goderecci, che non di soli doveri deve essere assillato l'uomo. La frescura del pergolato ha consentito l'introduzione scaglionata correttamente delle diverse portate, ma devo dire, che giunti alla fine ci siamo trovati leggermente appesantiti, sia per la gustosità dei piatti che per  la proporzionale componente alcoolica delle bevande. Ma qui stava il mio asso nella manica. 

Tutto previsto; per trovare rimedio alla pesantezza postprandiale e alla relativa necessità di raccogliersi in sé stessi per quelle opportune meditazioni che il primo pomeriggio invita a prendersi, avevo pensato di condurre l'amico, abituato oltretutto a prendersi quasi ogni giorno una piccola pausa REM dopo le fatiche della tavola, sulle rive di un delizioso laghetto, circondato da un fitto bosco di pini, dove, dopo aver gustato in un solitario localino il caffè e, a richiesta  l'eventuale pussacaffè, avrebbe (avremmo) potuto, distesi sul verde prato, su apposita stuoia, cadere tra le braccia di Morfeo, per il tempo necessario a far transitare attraverso il duodeno quanto ingurgitato. Avevamo appena lasciato la frasca, quando la mia incompetenza guidatoria mi ha condotto a sfiorare appena, come volessi fare una gentile carezza riconoscente, un affilato cordolo pedatorio che stava al lato della carreggiata, con conseguente foratura del pneumatico. Cosa da nulla, direte voi, che ci vuole a cambiare una gomma, d'accordo che sei un inetto in ogni cosa pratica, ma questa è cosa da nulla, sei mica una signorina. Infatti, pur lanciando altisonanti invettive, mi sono apprestato con letizia alla bisogna, ricordando però solo in quel momento che le moderne macchine, non sono più dotate, causa risparmi dovuti alla crisi, di quell'utile strumento detto ruota di scorta, anzi, per merito probabile di acuti tagliatori di costi, è stato abolito anche il cosiddetto ruotino. 

Niente di male, il mezzo è stato però datato di un apposito microcompressore per iniettare nella malcapitata gomma materiale schiumoso, di certo mortale o almeno altamente pericoloso, visto la serie di cautele suggerite dall'apposito bugiardino allegato e attentamente letto. Peccato che dopo aver capito l'uso del mezzo e infilata la cannula nell'apposito pertugio, insufflate i primi fiotti di schiumogeno, lo stesso ha preso ad uscire copiosamente e contemporaneamente dal taglio della gomma, troppo importante evidentemente per essere contenuto con la schiuma gommosa che invece ha dato ottima prova della sua efficacia, su mani ed altre cose circostanti. Si può dire che eravamo quindi nella m... più completa. Per fortuna esistono gli amici (e i telefonini, cosa non secondaria). Il primo a cui ho telefonato mi ha dato il numero dell'unico fornitore di gomme della valle, ma il suddetto essendo ad una trentina di chilometri di distanza mi ha subito detto che se la gomma gliela portavo, magari me la cambiava anche di sabato pomeriggio, ma di certo dovevo raggiungerlo con mezzi propri. Il secondo amico chiamato in soccorso, è subito venuto in aiuto con la sua macchina per portare, visto che l'assenza della gomma di scorta rende inutile la presenza di crick e chiave svitabulloni, la sua attrezzatura. Purtroppo si è perduta quella abitudine antica di fare tutti i bulloni della stessa misura, sarebbe troppo facile, quindo come ovvio, la chiave dell'amico non fungeva per i miei bulloni. Niente paura, inserito il crick (inadatto naturalmente, essendo pensato per altra vettura), mediante sollevamento manuale (che forza smisurata!) della vettura stessa (ma in caso di bisogno, l'amico attrezzatissimo disponeva di apposita zappetta per fare un buco più profondo sotto l'auto), la sua vettura è servita quantomeno per trasportare il mio primo amico, che aveva ormai l'occhio a mezz'asta, pensando al caffè promesso e al praticello erboso, a prendere la sua macchina, più simile alla mia, su cui si sperava di poter trovare la chiave idonea. 

Intanto le ore passavano e il sole crudele martoriava le teste sul ciglio polveroso della carreggiata, mentre stuoli di gitanti felici sfrecciavano accanto al cadaverone azzoppato. Tornati finalmente gli amici, si è provveduto con non poca fatica, ma con grande perizia allo smontaggio della ruota trafitta. L'ormai inutile oggetto è stato quindi caricato sulla macchina per essere portato all'ospedale delle gomme, lasciando a bordo strada la vettura abbandonata e paurosamente in bilico, col rischio di ritrovarla al nostro ritorno rovesciata nel fosso. Il gommista, ci attendeva sereno e disponeva addirittura di gomma simile, che dietro a piccolo esborso è stata montata sul cerchione con perizia e ricaricata . Eccoci dunque di ritorno per la messa in opera finale. Totale operazione: circa quattro ore. Il sole ormai  era sceso definitivamente dietro il crinale della montagna. Il mio amico, con l'occhio leggermente cotto, alla mia profferta di recuperare almeno il caffè, si è lasciato sfuggire un sibilante: magari un'altra volta. Questa mattina ha detto che aveva molto da fare in città ed è partito di buon mattino incurante, della coda dei gitanti che avevano già cominciato l'assalto domenicale alla valle. Devo essere stato molto cattivo nella mia vita precedente, ma chi progetta le macchine avrà un karma da difendere?


Se ti è piaciuto questo post, ti potrebbero anche interessare:

Gofri.

martedì 14 agosto 2012

Il forte di Fenestrelle.

Vista del forte di Fenestrelle dall'Andour.


Triste muraglia.
Distesa sul crinale,
vano baluardo.




Se ti è piaciuto questo post, ti potrebbero anche interessare:

Tarda primavera.

lunedì 13 agosto 2012

Compleanni.






Metti un gruppo di ultrasessantenni vintage, biliosi e brontoloni, di quelli che così non si va avanti, con una gioventù di questo tipo, cosa potranno mai combinare, eh ai nostri tempi, ecc. ecc.; metti che uno di questi compia gli anni; che fa il gruppo dei borbottoni? Gli organizza immantinente, con la meticolosa perversione dell'anziano, una classica festa a sorpresa. Con astuzie ed artifizi, un amico lo depista e lo convince a trascorrere l'intera giornata perduto tra i boschi in cerca di una vecchia miniera abbandonata, da andare ad esplorare con pila e anfibi, dopo arditi passaggi su cenge da brivido (in compagnia di una guida settantacinquenne e guardate che non scherzo). Intanto il gruppo delle femmine prepara il festeggiamento a casa dell'amico depistatore, preparandola a dovere. Un terzo amico prepara un'ode pindarica da recitare al momento, munito di regolamentare serto di alloro; gli altri portano cibarie e razioni di sussistenza e buone provviste di vini per rendere la serata più vivace. Al ritorno degli esploratori, gli amici, invece del consueto ritrovo serotino, scompaiono con varie scuse e il festeggiando si ritira a casa, forse deluso che neanche uno gli abbia fatto gli auguri, nonostante facebook, mentre la moglie comincia a preparare mestamente e fintamente la tavola, dopo aver sostituito per precauzione le due bottiglie di champagne di cui non sa separarsi e che dovevano forzosamente partecipare alla festa, con due bottiglie vuote correttamente esposte per la parte inferiore, casomai avessero attirato l'attenzione.

Poi una telefonata astuta, lo chiama, come per non parere, a casa dell'amico per risolvere un piccolo problema prima di cominciare la cena; ed eccolo, accompagnato dalla moglie complice, fare capolino nel luogo del delitto, dove tutto il gruppo al buio, come una banda di adolescenti rincretiniti, lo attendeva per far partire i primi botti. Nella commozione generale, qualcuno, più serio, ha richiamato la compagnia a cose più concrete, che sarà pur vero che non di solo pane vive l'uomo, ma si sa che non si può vivere digiunando. Quindi arriviamo alla parte che, già so, più specificamente vi interessa. Le danze sono state aperte con le operazioni di affettatura di una coppa speciale appena arrivata dal piacentino, ma solo per provare le doti di un particolare coltello americano affilatissimo che ha dato prova di grande efficacia. Subito è partita poi la sequenza degli antipasti senza i quali noi piemontesi non giudichiamo possibile classificare un pasto, come cena vera. Ecco procedere in ordine sparso gli involtini di salmone saggiamente riempiti di tomino profumato alle erbe, un tocco di nord per giustificare lo champagne che ha continuato a scorrere a fiumi per fermare le lacrime di commozione, seguiti a breve da una salade à la mode del Circassie, la cui ricetta è stata da me importata durante le mie peregrinazioni sovietiche. Va che vi metto la semplice ricetta, per spirito di servizio. (85% di carote crude sminuzzate con cura à la julienne, ma molto sottili e corte, 15% di gherigli di noci finemente tritati, maionese q.b. fino ad amalgamare completamente il tutto, guarnire con gherigli interi). Quindi in lieta processione, ecco susseguirsi una teoria di frittatine miste dai multiformi sapori, alle biete, agli zucchini, alle cipolle e così via, in lieta compagnia di un piattone di fiori di zucchini impanati. 

Allo stappare di uno Shiraz-Cabernet, si procede con l'antipasto caldo che non può mancare, più strutturato e nobile, un delicatissimo flan di zucchini ricoperto di una colata generosa di fondue al parmigiano. Una breve sosta? No ecco che incalzano i tajarin piemontesi, che delicate e sapienti mani avevano prodotto nel pomeriggio, rigorosamente sul tavolo di marmo, come richiede la qualità di una sfoglia non troppo sottile, corposa e morbida al tempo stesso. Ma i tajarin sono piatto femmina, yin direbbero i miei amici cinesi e vanno accoppiati d'obbligo, per rispettare l'armonia con una sugo yang, maschio, deciso, sapido. Nulla è quindi più indicato di un denso civet in cui, da ore immemorabili, si insaporivano a fuoco lentissimo degli strepitosi bocconcini di cinghiale, in coppia indecente con un non meno imperiale filettone di cerva tagliato a tocchetti, che in abbinata davvero strepitosa, hanno ceduto con generosa umanità i loro umori, il loro selvatico senso di libertà, la loro imperiosa e superba forza al denso sugo nero che li avvolgeva in abbraccio amoroso, ubriachi di vino generoso che li penetrava per renderli, se possibile, ancor più teneri e gentili. Che squisito piacere addentare i mordidi bocconi che, come da proverbio, si scioglievano in bocca, accompagnati dalla apertura di una magnum di Barolo 2001, annata tuttavia discreta, che con la sua assenza di spigolosità, il suo morbido velluto, il suo goudron non invasivo rappresenta, a mio modesto parere, il massimo compagno per siffatta carne, sposo ideale di un matrimonio destinato a durare nella calda sinfonia di un piacere atteso e completo. 

Vi assicuro che è stata una esperienza vivificante e densa di significati, che ha messo in sottordine le consuete considerazioni sui massimi sistemi della vita che aleggiano di norma, nei nostri convivi. Rimaneva spazio, ridotto certo, solo più per la parte dolce del fine pasto. Pertanto, oltre alla più classica e dovuta torta di buon compleanno, abbiamo dovuto fare onore ad un piacevole semifreddo alle mandorle, macchiato da abbondanti lacrime di caramello, per concludere la serata (per alcuni disgustosi crapuloni, doppia razione, perché il gelato fa digerire meglio). Il cielo ingiustamente coperto, ha impedito alla compagnia di andare, per un comportamento infantile certo, ma a cui ormai è adusa, almeno fino alla terrazza del forte per osservare qualche stella cadente a cui indirizzare il desiderio che alla faccia dello spread, la faccia durare almeno ancora un po', almeno fino a quando Alzy non ci renderà ogni giornata, un momento nuovo e sconosciuto. Infine a letto che, questa mattina per i più assatanati del gruppo era giornata dura, con salita in vetta all'Albergian (m. 3041), la cima più alta della valle, mantre gli altri, più inclini alla fase meditativa si sono posizionati ad un tavolino della Rosa Rossa a proseguire la discussione sugli importanti problemi lasciati in sospeso, o meglio trascurati, la sera precedente.




Se ti è piaciuto questo post, ti potrebbero anche interessare:

Gofri.

domenica 12 agosto 2012

Recensione: E. Salerno - Fantasmi sul Nilo.

Un volumetto molto interessante per tutti gli amanti delle relazioni di viaggio, credo ormai introvabile se non sulle bancarelle dei mercatini, essendo stato edito nel lontano 79. Questo Fantasmi sul Nilo, racconta un viaggio di esplorazione che, risalito il corso del Nilo per tutto l'Egitto, penetra il Sudan alla ricerca delle misteriose civiltà Meroitiche con le sue piramidi di basalto nero, in un territorio che è sempre stato di difficilissimo accesso. L'interesse del lavoro di Salerno, giornalista esperto di Africa, sta però nel continuo accostamento della sua esperienza a quelle del passato, a partire dalla relazione di viaggio della nave Fedeltà che nel 1841, risalì il Nilo fino al Sudan, primo naviglio italiano a compiere l'impresa e ai racconti rigorosamente documentati dei tanti esploratori del nostro paese che percorsero quella terra difficile alla ricerca delle sorgenti del Nilo, di tesori perduti o inesistenti, di scoperte archeologiche mirabolanti. 

Salerno li fa parlare in prima persona, facendoci percorrere piste difficili e pericolose, popolate di mercanti di schiavi, avventurieri, tribù bellicose e combattive con coloro che stavano invadendo i propri territori. Sembrava davvero difficile viaggiare in queste parti del mondo trenta anni fa, quasi come lo era nell'antichità a sentire le relazioni di Erodoto e Strabone, eppure i centurioni romani vi arrivarono per commerciare e tentare di espandere l'impero oltre le terre denominate hic sunt leones e sono chiare le testimonianze di questi contatti, come la testa bronzea di Augusto ritrovata tra le sabbie di Meroe. 

Ebbene, un viaggio come questo, oggi non è più praticamente possibile. Queste aree sono oggi sotto il controllo di bande e signori della guerra vari, i gruppi di guerriglieri islamici possono oggi quanto non sono mai riusciti a fare in passato, nemmeno nel contrastato periodo del Mahdi, quando l'alfiere dell'islam sconfisse Gordon nella battaglia di Kartum. Il libro è inoltre arricchito da foto e disegni di epoca, le immagini che gli esploratori del tempo e i cercatori di tesori,  portavano a casa con sé essendo muniti solo di taccuino e matita. Tanti sogni da fare su un viaggio per ora impossibile per tutti e, per chi come me, sta sparando gli ultimi colpi forse precluso per sempre.


Se ti è piaciuto questo post, ti potrebbero anche interessare:

sabato 11 agosto 2012

Poesia del gofri.

Bagnèt rùs e anciùe.
Serata occitana, ieri sera. Io, in veste di maestro goffriere, dedicato, davanti al magico attrezzo avuto in eredità, capolavoro dell'arte di fonditore di un artigiano della valle e debitamente firmato. Perchè il goffrier è strumento di perfezione fin dalla sua tormentata nascita, come le katane giapponesi. Non so, in verità, se il Pio, il vecchio fabbro del paese al tempo dei miei suoceri, facesse abluzioni sacrali per purificarsi, prima di mettersi alla forgia, come i maestri di lama dell'oriente; qui nella valle si facevano altri tipi di uso di liquidi per prepararsi alle varie attività, fatto sta che la fusione di questo particolare strumento non è cosa da tutti, in quanto si rischia di avere un oggetto dal quale la ghiotta produzione che ci si aspetta, viene fuori difettosa e priva della necessaria qualità. Infatti non solo la lega utilizzata deve essere ben conosciuta, ovviamente segreto di famiglia, al fine che il calore a cui verrà sottoposta si diffonda con costanza e proporzione e venga mantenuta sempre uguale nel tempo per fornire la perfetta cottura, ma il goffrier deve essere, come si dire "fatto" o "preparato", attraverso una adeguata preparazione, pena l'impossibilità successiva di ottenere i deliziosi gofri o turtej come vengono anche chiamati da queste parti, che finirebbero per non staccarsi in maniera adeguata dalla valva, rimanendo anche malamente bruciacchiati qua e crudi là. 

Detto questo viene seconda la preparazione della pastella fatta come da ricetta di famiglia che ho già provveduto a darvi in altra data. Quindi terzo ma certo non ultimo, un gruppo affiatato di amici, meglio se buoni mangiatori, che spartiscano la serata con la loro piacevole presenza, affiancando il mastro goffriere, mentre la di lui signora provvede a distribuire bevande e a controllare a coordinare la tavola e le relative farciture in attesa d'uso. La serata di gofri, proprio per la sua lentezza misurata dalla scansione perfetta dell'uscita dei gofri dal fuoco, è ideale per la convivialità e per la chiacchiera libera che spazia dalla soluzione dei problemi del mondo, alla rievocazione delle avventure giovanili più curiose, anche se ormai ascoltate mille volte, a partire dalla discesa in(f)vernale in seggiovia in compagnia del morto, dell'amico Gerolamo, intanto c'è sempre qualcuno che non l'ha ancora sentita e poi ogni volta si arricchisce di nuovi particolari. Quindi solo gofri ieri sera dalle otto a mezzanotte. Lo strumento è stato riscaldato con cura e senza fretta fino alla giusta temperatura, poi le valve sono state unte a lungo con il forchettone che brandiva in punta un bel blocco di bianco lardo sugnoso, infine la mestolata standard ricolma della giusta quantità di pastella, gettava al centro la sua bianca colata gioiosa che, schiacciata tra i ferri, si spargeva a riempire i quadrettini regolari; quattro giravolte in tre minuti e la golosità è pronta per essere sfornata e farcita, lasciando il posto alla successiva e così fino allo sfinimento della compagnia, all'inizio impaziente, poi alla fine come logico, sazia e provata, che lascia spazio ai più pazienti, i mangiatori di gran fondo, come si usa dire, tra cui ovviamente il mastro cuocitore. Ma attenzione che il gofri perfetto, deve essere davvero perfetto. 

Non bruciacchiato ma neppure troppo crudo, deliziosamente croccante fuori, ma abbastanza spessino da avere una sua sottilissima parte interna tenerella e morbida che si sposi mirabilmente in bocca con la giusta farcitura. Si è iniziato con una non classica, a base di bagnetto rosso di acciughe, poi con prosciutti, pancette e lardo delicatissimo, dalla sottile e poetica vena, rosea e profumata, infine è stata la volta di una stepitosa gorgonzola morbida, profumatissima e quasi liquida a spandersi con gioia nella trama del tortello, invadendone tutte le pieghe nascoste, occupandone ogni meandro possibile come una colata sensuale che invita a saziarsene. Che straordinario connubio, la fragranza del tortello che si sbriciola in bocca mentre il gusto delizioso del principe dei formaggi, reso ancora più intenso dal calore del suo contenitore, si espande riempiendo di appagamento chi lo mangia, mai sazio e pronto a riprendere l'esperimento sempre nuovo, sempre diverso e unico. Ma è l'ora della parte dolce, ecco dunque presentarsi all'appello i barattoli della mai troppo lodata Nutella, seguita da mieli di monte e marmellate preparate dalle sapienti mani delle convenute, di mirtilli e albicocche. Se ne sono andati nella notte gli amici, in triste anche se appagata fila indiana, mentre il campanile suonava la mezzanotte, lenti e meditativi, non molto più pesanti di come erano arrivati, perché i gofri sono in fondo leggeri ed aerei e la buona compagnia aiuta la digestione.

L'estrazione del gofri dal gofrier.

Se ti è piaciuto questo post, ti potrebbero anche interessare:

Gofri.

venerdì 10 agosto 2012

Escursionismo da bar.

Il Monviso.
E' una cosa inspiegabile, forse una falla nel meccanismo evolutivo. Ditemi voi che siete spettatori neutrali. Non c'è posto più gradevole di un tavolino della Rosa Rossa, sotto la morbida ombra di un grande ombrellone che filtra ed attenua il morso feroce del sole agostano, dove sorbire un delizioso aperitivo o un'orzata condita di ricordi di gioventù, godendosi il passaggio e filosofando sui grandi problemi dell'umanità oppure dibattendo i differenti punti di vista sull'economia politica o altre piacevolezze del genere. Invece no. Un drappello, che possiamo definire come parte consistente del gruppo, forse per qualcuno lo zoccolo duro, incurante delle manchevolezze che l'aggiungersi delle primavere rendono ogni anno più insidiose, come a voler proclamare una impossibilità ad arrendersi, sceglie a giorni alterni di autopunirsi con sgambatelle, tanto per tenersi in allenamento, un giorno sì e l'altro magari anche, che li conduce su e giù per tutte le cime circostanti. 

A nulla vale la preghiera di darsi una calmata, di rimanere un attimo in meditazione al tavolino di cui sopra. Niente da fare, scarpe rotte (ma anche no) eppur bisogna andar. Ieri alle 6:00, svegli, pronti, con gli zaini affardellati diretti verso pian del Re, alle sorgenti del Po, non per caricare di contumelie qualche ampolloforo del caso, che però, pare siano in via di estinzione, ma per salire con passo deciso verso il passo di Traverselle a raggiungere i contrafforti del Monviso e come giunta a ficcarsi fino in fondo al Buco del Viso, propriamente detto. Certo non è privo di fascino questo traforo ante litteram che, uomini della montagna duri e antichi, per crearsi una via comoda al trasporto del sale ed altre derrate, hanno scavato nella montagna per evitare il passo, più o meno seicento anni fa a forza di piccone e pala, scaldando la roccia coi roghi di legna per frantumarla con meno difficoltà. 

D'accordo che allora non avevano tra i piedi schiere di No Tav assatanati, ma non deve essere stata facile l'impresa. Oggi il finale del tunnel è un po' rovinato, ma i nostri camminatori l'hanno superato senza difficoltà, anzi con un certo gaudio. Son tornati a valle stanchi, distrutti, coi piedi fumanti ma, come si dice, felici per la bella giornata trascorsa, mentre chi, sereno li attendeva, li ha accolti con affetto, come si confà a chi non riesce a capire, ma accetta comunque benevolmente il furore marciatorio-escursionistico dei sodali un po' matti. Gli aperitivi ambrati continuano a fluire, i piedi riposano, i muscoli provati di cosce e polpacci smaltiscono con lentezza progressiva il cumulo di acido lattico, domani sarà un'altro giorno. Altre cime, altri sentieri scoscesi, altre fatiche. Se son contenti loro... 

Emergere dal Buco del Viso



Se ti è piaciuto questo post, ti potrebbero anche interessare:



Febbre suina
Rosso anguria.

giovedì 9 agosto 2012

Olimpiade triste.


Troppo pesante
cercare la medaglia.
Pena infinita.





Se ti è piaciuto questo post, ti potrebbero anche interessare:

Tarda primavera.

mercoledì 8 agosto 2012

Doping o sconfitta?

Oggi ho ascoltato la conferenza stampa di Schwazer e vorrei fare anch'io alcune considerazioni, per quello che possono valere. Dato per scontato che non ci sia stata sceneggiata, che sarebbe davvero troppo, la tremenda prova a cui si è sottoposto il ragazzo può insegnare molto su cosa è, e probabilmente è sempre stato, l'inestricabile connubbio, tra sport, soldi e voglia disperata di affermazione. Chi non è mai salito su un gradino, meglio se il più alto, sentendo pronunciare il suo nome di fronte alla folla forse può solo immaginare l'insieme di sconvolgimento di sentimenti che questo può provocare in chi sa di non potercela mai fare ad arrivarci con le proprie forze ed anche in chi ci è arrivato, ma poi per mille motivi ha capito che non ce la può più fare e viene preso da uno sgomento ed una deprivazione insopportabile che lo porta di conseguenza ad accettare qualunque cosa pur di riprovare quelle sensazioni perdute, non solo mettendo in gioco tutto quello che ha fatto fino a quel momento, ma spesso anche a rischiare la vita per riaverlo. 

Qualche sportivo ha detto che se avesse saputo che le sostanze usate lo avessero portato infine anche alla morte, per essere per una volta il primo del mondo, le avrebbe assunte ugualmente e per qualcuno è stato davvero così. Non è soltanto una questione di soldi, almeno non sempre; è quella necessità di competizione assoluta che forse abbiamo nel genoma da sempre e che forse è responsabile del successo della nostra specie; quel bisogno indiscutibile di vincere, di arrivare primi che regala sempre e solo disperazione e dolore, ai vinti sempre ed al vincitore di quella volta anche, perché il destino lo ha già comunque designato come lo sconfitto di domani. Così l'uomo non ce la fa a resistere e se non ci riesce o se non ci riesce più, cerca il modo artificale per riavere l'illusione che ha perduto. Questo è sempre accaduto, oggi molto più di un tempo, perché la nostra società ti spinge ad essere sempre più competitivo, perché emargina il "perdente", perché gli interssi che gravitano attorno sono fortissimi, perchè uno stuolo di personaggi, lenoni senza scrupoli, mestatori della peggiore specie, strisciano all'interno dell'ambiente, tollerati da tutti, perché tutti sanno, pronti a prendere le distanze appena viene alla luce il marcio, per blandire, convincere, attirare nel baratro chi, debole, è per primo pronto a cedere. 

Perché in fondo tutti lo fanno, perché se non lo fai non si può vincere, perché vedrai che non ti prendono, è facile credere e cedere alle sirene, specialmente se sei giovane e se hai già assaggiato il miele del successo. A questo si aggiunge la pressione mediatica che vuole sempre il mito, il mostro, il cannibale, lo osanna, lo innalza per poi gettarlo via appena iene avanti il prossimo, gettarlo nel pattume in cui finisce il foglio spiegazzato del giornale di ieri. Poi quando si alza la pietra e compare il verminaio, eccoli tutti a scostarsi dal lebbroso, a chiamarsi fuori per non subire il contagio dell'appestato che subito nega, grida al complotto, grida disperato la sua innocenza ferita. In questo caso almeno non si è ceduto a questo aspetto della farsa, esponendo tutta la disperazione della vicenda, della presa di coscienza, credo sincera, di chi è caduto, dopo aver capito di non potercela più fare con le sue forze, ma che in fondo non ha potuto sopportare comunque questa situazione per lui innaturale, in un crescendo di disperazione di chi ha ormai ben chiaro, di aver perduto tutto, di aver sprecato tutti quegli anni di fatiche disumane, di ore e ore di allenamenti infiniti, tutto gettato via in un attimo, compreso la stima e l'affetto di chi gli ha voluto bene. 

E tutto intorno le insopportabili iene pronte a nuitrirsi del dolore e della disperazione, ieri striscianti per incensare e portare sugli altari l'italiano vero che sudava per il suo paese, vero alfiere della bandiera patria, oggi pronte ad azzannare sbocconcellandone malamente il nome, come altoatesino, anzi diciamo pure tedesco, tanto per distinguersi, per chiamarsi fuori, luridi monatti in cerca di cadaveri da gettare nella fossa comune. Caro Alex, provo pena per te, ma ti auguro che il sipario scenda in fretta su questo primo atto della tua vita e che riesca a trovare dentro di te la forza che ti è mancata, la determinazione che ti è venuta meno e che dovrebbe invece essere la caratteristica principale dell'uomo vero. Per l'uomo vero, la vita non finisce per queste cose, anzi forse è proprio qui che si può ripartire non più per "vincere" ma per essere utili a sé stessi e agli altri.




Se ti è piaciuto questo post, ti potrebbero anche interessare:

Jun Shi.
Tai Ji.

Where I've been - Ancora troppi spazi bianchi!!! Siamo a 114 (a seconda dei calcoli) su 250!