mercoledì 27 febbraio 2013

Un giorno tra i Datoga. Fenomenologia dei mercati.



Una donna Datoga
Vi chiedo scusa, ma fatemi tornare in Africa, almeno per ancora qualche giorno. Non so, ma mi sento un po' meglio. Dunque eravamo rimasti in una zona un poco remota attorno al lago Eyase, uno dei grandi specchi d'acqua della Rift Valley, che si allargano e si restringono ciclicamente di molti chilometri secondo le piogge. La vista, possibile solo dall'alto, durante il momento della diminuzione della superficie è piuttosto deludente e non molto significativa, ma la parte interessante deriva appunto dal fatto che tutto attorno ad essi vivono molte popolazioni ancora poco toccate dallo sviluppo moderno e che persistono nei loro costumi tribali. Di certo non appena ti fermi sulla cima di qualche collinetta per vedere qualche scorcio del lago da lontano, vieni subito avvicinato da qualche gruppetto di bambini, che escono dal bush arrivando dai gruppi di capanne più vicine, deve essere davvero come un tamtam di richiamo, il rumore di avvicinamento di una macchina. Fai una distribuzione di arance per placarne le richieste, i più furbacchioni se le mettono subito in tasca e si riposizionano nella fila, ma fa parte del gioco come in ogni parte del mondo. 

Fuori dal bosco i campi cominciano ad essere coltivati; spazi di terra rossa tra gli alberi delimitati e suddivisi tra diversi i gruppi etnici della zona. I Datoga sono tra i più numerosi e, pare uno dei gruppi a più rapido incremento della zona. Forse perché si sono dimostrati i più adattabili. Poligami accaniti, appartenenti alla grande famiglia Masai, di cui mostrano con chiarezza i tratti somatici e l'abbigliamento, sono ormai completamente stanziali. Allevatori come tradizione, sono però anche buoni agricoltori e vicino ai gruppi di case di fango, noti subito orti rigogliosi e campetti di mais e arachidi. Ma accanto a queste attività ne curano un'altra specifica, quella di fabbri  e lavoratori di metalli per produrre manufatti di diverso genere, molto richiesti dagli altri gruppi circostanti di cultura più primitiva, che alimenta i loro traffici. Lame di coltello, punte di frecce piuttosto complesse, recipienti di vario tipo e naturalmente ornamenti di ogni genere che vanno a coprire un bisogno molto presente in queste popolazioni, che fanno della estetica del corpo un punto essenziale nella vita di relazione. 

Gli Hadza che abbiamo visto precedentemente, ad esempio, entrano in contatto solo con queste tribù e scambiano carni e pelli, frutto della loro attività di cacciatori, appunto con la produzione dei Datoga durante i mercati settimanali che si svolgono all'incrocio delle piste principali. Se ti fermi vicino ad un gruppo di case dalle pareti fatte di rami e di fango, le puoi distinguere immediatamente dalla forma, rettangolare, più regolare e complessa di altri insediamenti. All'interno ci sono almeno due ambienti, uno dei quali funge da cucina e preparazione degli alimenti, con una grande macina concava, su cui viene fatta passare una grossa e pesante pietra ovoidale per ridurre in farina i chicchi di mais bianco, che produce l'ugali, una sorta di polentina, contorno alla base di tutta l'alimentazione dei popoli della Tanzania. Subito dietro la casa, nascosto da un recinto di frasche attorno ad un grande albero, il fuoco della forgia. Qui si alternano i maschi del gruppo, muovendo un grande mantice di pelli di animali a ravvivare un fuoco su cui vengono fatte fondere piccole quantità di rottami di ferro, in minuscoli crogioli per produrre lingottini di metallo, che a loro volta vengono trasformati in lame o punte di freccia, attraverso un gran batti e ribatti dei giovanissimi fabbri che li martellano fino a ridurne i bordi in superfici taglienti e punte acuminate. 

Le donne hanno vesti ornatissime di perline, casacche di pelli di capretto ben conciate e sottilissime dalla morbidezza della stoffa, avvolte poi dai grandi mantelli rossi o blu. Ricchissimi e sovrabbondanti le collane, i braccialetti e soprattutto i barocchi orecchini pendenti dai lobi sformati e grandissimi. Spesso la forma artistica si estende alla geometria dei tatuaggi e delle scarificazioni del viso, in grandi cerchi attorno agli occhi. Alla fine sei un turista e rimani volentieri a vederli ballare, quando ripropongono i movimenti tipici e i grandi salti degli incontri di corteggiamento dei gruppi Masai e naturalmente indugi a comprare i loro prodotti offerti alla vista, cosa che, anche questa è ormai diventata ormai parte obbligata del loro mercato e buona integrazione economica, senza alla fin fine incidere troppo sul loro stile di vita. Le guide locali portano i turisti che arrivano fin qui, alternando le visite nei diversi villaggi per dare a tutti quanti questo reddito accessorio e non gravare troppo su punti specifici che potrebbero snaturare l'andamento quotidiano. 
Certo è molto curioso il fatto che fino al secolo scorso chi andava ad esplorare terre lontane e lo faceva chiaramente per conoscere, ma anche per trovare e sfruttare, depredando spesso, prodotti ritenuti rari e preziosi, portasse con sé quantità di perline e specchietti da scambiare appunto con oro e pietre. Adesso le parti si sono invertite ed è il viaggiatore ad essere riempito di perline colorate, mentre lascia in cambio rettangoli verdi di carta, piuttosto graditi in verità, sebbene assai più sporchi e sgualciti dei monili dati come  scambio. Sono i corsi e ricorsi della storia, non ci si può opporre o criticarli. Alla base di ogni transazione, c'è sempre la soddisfazione reciproca dei due contraenti dello scambio stesso; ognuno se ne deve andare convinto di aver guadagnato qualcosa dal baratto avvenuto. 

E' appunto il mercato bellezza, si è sempre partiti così per arrivare ai derivati obbligazionari, ma il meccanismo è immutabilmente lo stesso. Sarà questo che ti attrae così irresistibilmente nei mercati, al di là dei colori, degli odori, del senso di essere davvero dentro la vita reale dei luoghi che attraversi, che ti spinge ad inoltrarti negli stretti spazi tra i banchi. Eccoci di nuovo a Mto wa Mbu (il fiume delle zanzare); come non lasciarsi trascinare allora dal dedalo di offerte, tra verdure e banane rosse, ananas, papaye e radici, spezie colorate e ancora oggetti, ornamenti, quadri, maschere. Andiamo a fare il nostro dovere di turisti. Ci aspettano, fin da quando il motore della Toyota si spegne al lato della strada, sarà difficile venire via a mani vuote anche questa volta.





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martedì 26 febbraio 2013

Sociofilosofia da bar.

Poiché nella realtà, dall'Africa sono già tornato, permettetemi un attimo di sosta per una minima considerazione filosofica. Ogni giorno i fatti dimostrano che le chiacchiere sono una cosa, ma che causa ed effetto sono invece meccanismi inevitabilmente collegati. Alla fine ogni paese raccoglie niente altro che quello che si merita. Suae quisque fortunae faber est, lo dicevano già i latini, è inutile dare la responsabilità agli altri. Ci sono paesi dove invece la colpa è sempre di qualcun altro, dove tutti sanno bene cosa bisogna fare a patto che siano gli altri a farlo, dove nessuno accetta di compiere il pur minimo sacrificio per il bene comune. Ci sono paesi dove per comprare i voti bastano pochi spiccioli o un chilo di pasta o una scarpa sola con l'altra da consegnare a cose fatte. Ci sono paesi dove sei apprezzato se sei una persona ignobile, se corrompi o sei corrotto, se menti così platealmente che lo stesso destinatario ride delle tue menzogne, perché è il paese stesso a essere corrotto, corruttore ed ignobile. Ci sono paesi dove chi è affetto da malattie gravissime, siano fisiche che economiche, non ascolta il medico che prescrive una medicina amara e una riabilitazione lunga e dolorosa, ma nega per principio la malattia stessa oppure peggio va dal santone che ti cura imponendoti le mani e ti promette una salvifica guarigione con le polverine magiche. Ci sono paesi dove sei deriso e accantonato se dimostri di essere una persona seria e competente e trionfi se sei un ignobile buffone, perché è il paese stesso ad essere nell'anima ignobile e incapace, ignorante e fiero di esserlo allo stesso tempo. Ci sono paesi dove molti pensano che se va tutto in malora, magari per loro salta fuori qualche occasione. Ci sono paesi che premiano chi strizza l'occhio all'abuso, all'evasore, al ladro, perché fondamentalmente è un paese costituito di abusivi, di evasori e di ladri. Anche se sembra incredibile, ce ne sono di questi paesi. Sono paesi popolati da persone, che di queste poi si tratta, che meritano completamente  il loro destino, perché se lo sono scelto, lo hanno auspicato e festeggiato, lo hanno costruito con le loro mani, che corrono felici dietro il loro pifferaio verso l'ultimo negato e definitivo burrone. Alla fine è giusto così. Adesso lasciatemi stare un attimo, in Africa ci torno domani.

lunedì 25 febbraio 2013

A caccia con gli Hadzabe.



Tribù Hadzabe.


 
Sono le quattro del mattino. E' notte fonda a Karatu. Una manciata di stelle spunta tra le nubi, l'Orsa maggiore è al contrario e bassa sull'orizzonte, la Croce del sud è quasi nascosta dalla collina. Non c'è luna stanotte e con la mia pila cinese, faccio fatica a trovare il sentiero per arrivare alla Toyota che aspetta col motore già acceso. Venite con me, stamane e non rimarrete delusi. Ernest sa che la strada di oggi è difficile e non vuole perdere troppo tempo. Si è avvolto nel mantello rosso, c'è ancora umidità e fresco nell'aria notturna e il giorno è ancora lontano. La pista si inerpica subito verso nord attraverso un bosco sempre più fitto. I fari illuminano appena i bordi dove qualche coniglio selvatico rimane fermo come istupidito da quella luce improvvisa. Dietro una curva una genetta si ritira tra i cespugli mostrando solo per un attimo il suo mantello maculato che la luce diretta fa apparire ancora più gialla. La pista diventa più difficile e tribolata, guadi secchi da superare, avvallamenti di terra e carrarecce lasciate da qualche camion nel fango delle ultime piogge. Due ore interminabili prima di arrivare ad un gruppo di case di fango, apparentemente deserto. Sono quasi le sei e rimaniamo fermi poco lontano a motore spento. Nel cielo appena un chiarore diffuso, ma attorno a te distingui solo quinte scure non catalogabili. Ad un tratto una grande ombra nera si materializza dietro l'auto. E' Julius, un omone gigantesco che fatica ad entrare e a sedersi di fianco a Ernest. Gli fa qualche cenno, poi ripartiamo per un sentiero nel bosco fitto. Ancora una mezz'ora, poi, mentre le ombre cominciano a mostrare colore, si arriva ad una grande radura ai piedi di una collinetta. Tra gli alberi, un cerchio di basse capanne di rami e foglie. 

Un piccolo gruppo di ombre è seduto sotto una grande acacia. Julius li aveva cercati nei giorni precedenti avvisandoli del nostro arrivo. Un'ombra si alza e viene verso di noi, parlotta un po' con Julius, poi si volta e mi tende la mano. Slakwa è molto piccolo e ha una età indefinita, pur essendo evidentemente un anziano. Porta solo un paio di pantaloncini sdruciti e qualche collanina di perline colorate. Mi porta vicino al gruppo degli uomini seduti. Uno di loro sta accendendo il fuoco. Sfregando le mani vorticosamente, gira un lungo bastoncino sottile su un legnetto incavato che dopo un attimo comincia a fumare, un po' di erba secca ed è subito una fiammella viva a rischiarare il cerchio che osserva. Sono sei uomini, tutti giovani a parte Slakwa e mi invitano a sedere con loro. Sono Hadzabe , uno dei pochi gruppi rimasti al mondo di cacciatori raccoglitori. Non più di trecento, vivono una esistenza nomade in una dozzina di piccoli agglomerati di capanne e si spostano continuamente a seconda delle stagioni,  in un'area remota della Rift Valley, attorno al lago Eyase, loro territorio di caccia, da almeno 10.000 anni, tempo in cui sono arrivati migrando dal'Africa del sud. Riconosci subito la piccola statura e la pelle più chiara tipica dei Boscimani, anche se non sentissi i continui click della loro parlata piena di schiocchi, come solo hanno gli idiomi dei gruppi San. Non hanno riti o particolari credenze religiose, salvo un timore/rispetto per il cielo, visto come una sorta di protettore universale. I morti vengono lasciati nel bosco agli animali. Raccolgono miele e bacche nel bush e cacciano animali di ogni taglia, scambiano carne e pelli quando incontrano gli altri popoli stanziali della valle, con farina di mais, sale e attrezzi di metallo come coltelli, punte di frecce, recipienti. 

Le donne con i bambini sono accoccolate dietro le altre capanne tra gli alberi e ci osservano da lontano commentando tra di loro. Slakwa vuol dire Nato tra i cespugli; sua madre lo partorì mentre il gruppo si trasferiva verso nord durante le piccole piogge, ma non sa dire quanti anni fa. Non c'è concetto di anni o di mesi presso gli Hadzabe. Nella loro lingua non ci sono altri numeri dopo il tre, poi viene il concetto di "molti". Comincia ad albeggiare, la luce si fa strada tra gli alberi e tre giovani si riscuotono dal torpore. E' l'ora di andare a caccia. Ognuno di loro prende il proprio arco e qualche freccia; lasciano però al villaggio quelle con la punta di metallo grande coperta di veleno ricavato da una grande pianta grassa che essuda un latice denso, che serve solo per gli animali di grossa taglia, grandi antilopi o bufali. Oggi sarà una caccia breve di due o tre ore e non si prevede di incontrarne. Se vi va possiamo andare con loro, ma cercate di non rimanere indietro, nel bosco non c'è sentiero e dopo qualche passo perdi ogni riferimento. Seguo i tre ragazzi che si sono preparati e un bambino di non più di dieci anni. Ha lo sguardo duro e compreso del suo compito e regge in mano un piccolo arco ornato di striscioline di pelle di impala e un paio di frecce. Bordesha (Nato in un albero) è decisamente il capo. Ha una corta tunica di pelle di gazzella bordata di perline bianche attraverso le spalle e un fascio di collanine intrecciate arancio attorno al collo. Si incammina deciso e fa la strada tra gli alberi con decisione. La luce è ancora fioca e fatichi a vedere dove metti i piedi, mentre cerchi di evitare i rami spinosi che cercano di strapparti i vestiti al passaggio. 
I quattro marciano decisi, guardandosi continuamente attorno, Bordesha sembra fiutare l'aria sottovento prima di decidere la direzione, gli altri si accodano. Ogni tanto, per fortuna, rallentano la marcia; siamo nel fitto del bosco, attorno solo alberi bassi e colline lontane. Non senti rumore, i passi procedono nell'erba, solo un leggero fruscio, nessun ramo spezzato, nessun richiamo, solo sguardi di intesa. D'improvviso Bagatha, quello con la fascia colorata attorno alla fronte si ferma e guarda tra i rami di un albero. Gli scivoliamo  attorno silenziosi, tutti guardano in su, poi di scatto Bordesha tende l'arco e scocca. Un fruscio di fronde e un tonfo tra i cespugli. Il bambino sposta i rami spinosi e si china; ecco la freccia recuperata che ha trapassato la massa grigia di un colombaccio che ancora scuote le ali. Lo prende tra le mani, lo porta alla bocca e con un morso gli stacca il collo. Poi lo consegna al cacciatore che se lo appende alla cintura. Il sole ormai si è alzato e i rami disegnano ombre al fianco degli spazi aperti. Si marcia spediti quasi di corsa, sempre senza una parola, un rumore. Eccoci attorno ad una serie di cespugli spinati e apparentemente impenetrabili. Di certo c'è qualche cosa che si nasconde là sotto. I ragazzi si spostano adagio, curvi in avanti, gli archi tesi, pronti a scoccare. Poi, dopo un tempo interminabile, una, due, tre frecce. Un grande topo dalla pelliccia grigia si dibatte, colpito inesorabilmente. Anche lui finisce appeso alla cintura. Di tanto in tanto, tra gli altri, un albero diverso, ricoperto di piccole bacche gialle, numerosissime. I ragazzi si fermano attorno, archi e frecce stretti tra le gambe incrociate e le mani veloci che staccano le più grandi e morbide, mangiandosele velocemente. La sosta ti dà tempo di rifiatare, ma è subito tempo di andare. 

Ancora si rallenta il passo, il tempo di lasciar partire un altro colpo verso un albero alto, lontano una ventina di metri. La freccia rimane tra i rami, sembra perduta. Subito si prendono da terra rami secchi e pesanti smozzicati e si cominciano a lanciare tra le fronde dell'albero. Dopo qualche tentativo a vuoto, ecco che qualcosa viene giù. E' la freccia perduta che ha trafitto però un piccolo uccellino giallo. Un tiro davvero eccezionale a quella distanza. Sul volto di Bordesha spunta l'ombra di un sorriso. Non è il capo per caso. Forse pensa a quando andrà a scegliersi una donna da qualche gruppo vicino, ma in questo caso dovrà portare in dono una preda davvero importante, un bufalo o un grande kudu dalle corna ritorte, per convincere la famiglia. Si arriva ad un avvallamento. Sono le rive di un torrente quasi in secca. Scendiamo lungo la balza che le acque hanno scavato nel periodo della grandi piogge, quando il corso d'acqua doveva essere davvero impetuoso e largo; adesso è solo un rivolo contorto che ancora scava nella terra rossa. Dopo l'ansa, una pozza fangosa di acqua marrone. Sul bordo i ragazzi, posati gli archi, si inginocchiano e bevono come gazzelle. Hai perso ormai la dimensione temporale. Come centomila anni fa, ti stai muovendo nella foresta in cerca di cibo, pensando solo a quanto potrai fare nella giornata. Il resto non conta nulla, non esiste, solo la speranza che questa sia una buona giornata di caccia, niente altro. Il sole adesso è già alto e la temperatura comincia a riscaldarsi. Anche il passo veloce a poco a poco rallenta. Ancora soste, agguati, frecce lanciate ed altri piccoli trofei da appendere alla cintura. La sete comincia a farsi sentire. Un altro piccolo corso d'acqua in cui il rivolo scorre scarso e contorto nella sabbia. Bagatha si inginocchia e scava una buca a lato. Dopo un poco l'acqua filtra sul fondo. Uno dopo l'altro i ragazzi si chinano e coi palmi a conca ne raccolgono un poco, bevendola in fretta prima che se scorra via tra le dita magre. 

Risaliamo l'arginello e siamo di nuovo tra i cespugli. Ormai hai il respiro corto e ansimi in continuazione, cercando di tener dietro al gruppo che fila veloce sull'erba bassa. Il bosco è sempre uguale e sempre diverso, non ce la faremo più a trovare la strada, le capanne dovevano essere a sud, dietro quella collina ormai lontanissima, irraggiungibile certo. Adesso bisogna deviare tenendosi lontani da quel gruppo alto di rocce bianche. Di solito lì ci stanno i leopardi ed è meglio cercare di mantenere lo status di cacciatore piuttosto che quello di preda. Io credo che ci siamo perduti. Ancora qualche passo, oltrepassiamo una serie di siepi spinose e di cespugli fitti, poi laggiù, del tutto inaspettate, le capanne con al centro il fuoco acceso che scoppietta. Gli uomini si fanno incontro, i ragazzi mostrano il risultato della caccia, sei o sette tra uccelli e topi di diverse taglie, che vengono subito aperti e gettati sul fuoco ad abbrustolirsi. Mi siedo stanco sotto un albero dove sono appese pelli di dikdik e di altri piccoli animali, sotto si scorge quella maculata di una genetta o di un gatto selvatico. La carne cuoce in fretta,  mi offrono il topo più grasso, ma rifiuto con cortesia, non ho molta fame in verità e forse la stessa offerta è solo un atto di obbligo verso l'ospite. Ai ragazzi viene subito preparata una pipa da fumare. E' una ganja che cresce sulle pendici dei crateri. Per gli uomini la giornata è finita. Il bambino che evidentemente, a pieno titolo fa parte del gruppo dei cacciatori, ripone il suo arco con cura. Vado a fare un giro tra le capanne, sono alte al massimo un metro e venti, tondeggianti, la base formata da cespi di piante verdi che proseguono in alto con rami curvi ricoperti di foglie secche e null'altro. All'interno ci si sta a fatica raggomitolati in una o due persone. 

Le donne ti guardano in silenzio come a misurare con gli occhi la tua immensa pancia. Due, più anziane, sono in piedi, devono essere appena arrivate dal bosco, forse a raccogliere erbe medicinali, in una piccola sacca di pelle, ce n'è anche una specifica che abbassa la febbre della malaria. Anche i pochi bambini stanno muti, quasi senza muoversi, seri e imbronciati a valutare, forse con paura, la tua estraneità a questo luogo, quel tuo essere diverso non soltanto fisicamente, ma nella tua espressione mentale. Bagatha e Bordesha, hanno fumato, sembrano più di buon umore e con l'occhio liquido, vogliono insegnarmi i segreti dell'arco. E' durissimo da tendere e le braccia tremano prima che la freccia scocchi via. Grandi feste quando dopo un buon numero di tentativi riesco finalmente a colpire il tronco bersaglio a una ventina di metri. Anche se la caccia non è stata eccezionale, dopo un po', tutto il gruppo comincia a ballare in circolo seguendo il ritmo segnato dalla voce della donna più anziana. Quando ce ne andiamo tutti gli uomini vogliono salutarti stringendoti la mano. Questo rimane l'unico punto di contatto con un mondo così antico e lontano da sembrare appartenente ad un altra specie; hai vissuto qualche cosa di completamente alieno eppure, non dimenticare, da qui siamo venuti. Qui si vive in questo modo da sempre, anche se non c'è memoria del passato, anche se c'è conoscenza di un altro vivere, in fondo non lontano, ma rifiutato e forse temuto. Julius mi racconta che a questi gruppi era stata offerta la possibilità di stanziarsi in un'area vicina ai territori di caccia in piccole case di mattoni stabili. Gli anziani si sono riuniti, hanno discusso, poi hanno rifiutato. I nostri bambini - ha detto uno di loro al rappresentante dell'amministrazione - vogliono dormire sotto le stelle, altrimenti muoiono. Bisogna rielaborare questa esperienza con calma, d'altra parte la strada verso sud è ancora molto lunga. Vi assicuro però, che difficilmente riuscirete a dimenticare questa giornata. 



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sabato 23 febbraio 2013

Nel cratere di Ngoro Ngoro.


 
Ho ridato un'occhiata ai post di questi ultimi giorni e mi accorgo che continuo a essudare un seguito di sentimenti di esaltazione che potrebbero apparire un tantino esagerati. D'accordo che è il mio stile, questo sbrodolamento continuo di melassa, ma anche se cerco di trattenermi, mi sembra di debordare continuamente, dando una sensazione di coinvolgimento forzato e fuori dalle righe. E' più forte di me, ma che volete che vi dica; forse l'anziano, invece di essere più scafato e cinico, si lascia coinvolgere più facilmente, oppure sarà soltanto il fatto di voler riempire la pagina, decidete voi. Intanto oggi vi tocca la discesa nel cratere e qui dovrei davvero esagerare, ma voglio tentare di porre una qualche misura all'entusiasmo. Sono le sei del mattino e la nostra deve essere la prima macchina che si presenta al gate di ingresso della principale pista che scende lungo i ripidi fianchi della immensa caldera. La strada per arrivarci percorre tutto il crinale, ma il buio della notte che stenta a dissolversi  ti impedisce di apprezzarne la vastità e le dimensioni del catino quasi perfetto. Poi, come accade vicino all'equatore, la luce arriva quasi di colpo a illuminare la foresta e la grande conca appare dal basso, come se un velo nero che nasconde un'opera d'arte, fosse tolto con un gesto secco per svelare la meraviglia al pubblico che non riesce a trattenere un oh, scontato ma obbligatorio. 

Probabilmente questo è lo spettacolo più eccezionale che la Tanzania offre nei suoi pur straordinari scenari naturali. Ben conosciuto e raccontato, rimane tuttavia il sito imperdibile che chi avvicina questo paese per la prima volta, non può assolutamente lasciare da parte. La macchina scende adagio lungo la discesa resa scivolosa dalla fanghiglia rossa di una breve pioggia caduta durante la notte, che aumenta la visibilità e rende più brillanti contorni e particolari. I colori stessi, pur omogenei alla prima luce, si saturano maggiormente ed aumentano la gamma delle differenze. Questi primi momenti attraverso la foresta pluviale del bordo, sono una immersione all'interno di un Pantone di sfumature di grigi azzurrati, che si affannano a mutarsi in verde pallido, in attesa dei primi raggi del sole che forano la nuvolaglia. Poi la pista si fa più piana, gli alberi si diradano lasciando spazio ai cespugli, alle radure sempre più aperte fino al mare di erba che ricopre il piano. Dietro, la parete che da quaggiù appare ancor più diritta, quasi un muro che, nascosta alla vista la stradina, si mostra come apparentemente invalicabile. E subito alle ultime balze, nel lucore del mattino, i punti neri che scorgevi dall'alto, mostrano il loro essere invece mandrie di animali che si muovono alla ricerca dell'erba più fresca, più tenera, più verde che è sempre un pochino più in là, cosa che fa sì che tutto appaia continuamente come un lento muoversi disordinato in ogni direzione. Dopo un breve falsopiano ecco subito l'animale forse più raro del parco, ma che grazie alla sua mole, si fa individuare senza fatica. 

Una coppia di rinoceronti neri pascola in un grande prato cosparso di piccoli fiori bianchi. Ti avvicini lentamente, cercando di disturbare il meno possibile, ma i due, senza parere, si spostano adagio, alla tua stessa velocità, mantenendo la famosa distanza, il criterio etologico fondamentale che domina i rapporti tra gli esseri viventi. Di tanto in tanto alzano il muso dal labbro superiore appuntito e i due lunghi corni per controllare, poi ricominciano a brucare spostandosi diagonalmente. Vogliono attraversare la strada, evidentemente dall'altra parte l'erba è molto più saporita, ma la nostra presenza non li fa decidere. Poi, forse consci della loro possanza fisica, caracollano decisi, trotterellando sulle corte gambotte e passano al di là, tenendoci d'occhio. Che animale antico! La sua corazza abnorme con le pieghe nette, gli assurdi corni, i piccoli occhietti mal funzionanti, te lo mostrano davvero come un residuo di un'era lontana popolata di mostri giganti ormai scomparsi per sempre. Li lasciamo mentre si spostano dietro una collinetta, sempre vigili e timorosi, nonostante la loro stazza. Più lontano, gruppetti di elefanti sparsi approfittano dalla temperatura del mattino ancora fresca per strappare le erbe alte che crescono più vicine ai piccoli corsi d'acqua che serpeggiano verso la superficie del lago centrale, la cui superficie è quasi tutta ricoperta di flamingos, che hanno relegato ai suoi bordi tutte le altre varietà di uccelli. 

Alcune iene spaiate trotterellano a testa bassa, di fianco alla strada in cerca di cibo mentre gru, zebre e gazzelle si tengono prudentemente al largo. Centinaia di bufali invece stazionano lungo i ruscelli pronti a sguazzare nel fango prima che arrivino gli elefanti a cacciar via tutti quanti, non appena farà più caldo. E' un brulicare di vita che si alterna in scenari sempre uguali e sempre diversi e che la luce ancora radente, evidenzia e scandisce magnificando i colori, evidenziando i particolari. Distingui nitidamente la fitta peluria delle barbe bianche degli gnu, la rugosità nella scala di grigi della proboscide dei pachidermi, le piume d'oro delle gru coronate, le froge tremanti dei piccoli di zebra ansiosi di latte che danno leggeri ma insistenti  colpi al ventre materno, i nodi delle corna ritorte dei maschi di impala dominanti, immobili a tutelare il loro gruppo di femmine, l'intensità dello sguardo scuro di un babbuino seduto nell'erba. E' davvero il momento ideale per catturare immagini, operazione obbligatoria, un affannato agitarsi nel mettere a fuoco, zoommare, cambiar di obiettivi che ti toglie parte di quel piacere impagabile che avresti nel rimanere immobile ad osservare e basta; ad assorbire con gli occhi o con le orecchie un quadro perfetto; a generare quella sindrome di Stendhal che abbisogna di tempi e modi ormai inusuali alla nostra cultura. 

Quasi non sai più dove guardare, ad ogni tratto, un quadro nuovo e meritevole di attenzione: due facoceri che si spingono cercando di conquistare territorio; un gruppetto di alcefali quasi immobili in posa, con quei musi così stretti ed innaturali all'apparenza; quei grossi eland laggiù, le più grandi tra le antilopi che si muovono lentamente e poco più in là, un maschio di otarda maggiore che si gonfia d'improvviso, distende il piumaggio della coda, lancia uno strido e compie la sua danza di corteggiamento a nostro beneficio, visto che non ci sono femmine nelle vicinanze. Ti fermi un po' vicino ad una grande pozza ad ammirare decine di aironi bianchi in volo e quasi non ti accorgi che il sole è ormai alto e che le sei ore di permanenza consentita all'interno del cratere sono già passate. E' ora di risalire la ripida erta, poi, compiendo la strada che sorre lungo l'orlo superiore, continuare a guardare in basso, senza riuscire a staccare gli occhi, prima di prendere, quasi con dispiacere, la lunga via diritta che porta fino a Karatu, una piccola cittadina, sorta, come di solito avviene, lungo la strada e sviluppatasi con la consueta virulenza e confusione di piccoli commerci e baracche che impone l'aumento dei passaggi. Qui mi aspetta, inattesa, l'esperienza più forte del viaggio. Ma non voglio anticiparvi nulla, se ne parla la prossima volta.


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venerdì 22 febbraio 2013

Traversando la Rift Valley.




Lasciare Serengeti ti dà una stretta al cuore; vorresti rimanere ancora a lungo. Non ti rassegni ad abbandonare la grande pianura verdeggiante che si perde in colline lontane, gli ammassi di pietre , i cespugli bassi tra i quali vorresti aggirarti a lungo e poi stare fermo per ore ad osservare quel brulicare di vita. Ma ancora una volta i tempi del viaggiatore sono molto diversi dalle scadenze del turista, che ha un triste programma da rispettare. Mentre scorre la pista e la nuvola di polvere si alza dietro di te come la scia di una imbarcazione, cerchi di fermarti almeno ancora un poco tra le mandrie di animali che continuano a spostarsi verso nord. Poi la strada risale verso la zona dei crateri per attraversare la spaccatura della Rift Valley, la grande ferita inferta al continente milioni di anni fa, dove si è generata la nostra specie. Accoppiare la storia dell'uomo ad una terra così antica è inusuale per chi è abituato a considerare la storia in migliaia di anni invece che in milioni. Tu pensi a chi ti ha preceduto e subito vedi daghe romane alla conquista del mondo, epiche guerre al centro del Mediterraneo, imperi orientali e amerindi che si perdono nella notte dei tempi erigendo templi di pietra; al più risali ad antichi cacciatori che riconoscono la possibilità di piantare un seme nella terra o di migrare per conquistare nuovi spazi non popolati.

Ma qui è diverso, sotto i tuoi piedi un mondo così antico da non riuscire ad immaginarlo. Lungo queste valli corrose dal tempo, devi riportare la mente al momento in cui questa terra si spaccava per centinaia di chilometri e le montagne crescevano dal basso tra fuoco e lava. Crateri enormi che cambiavano lo spazio e sotto, tra nubi di polvere e la cenere dei vulcani, piccoli gruppi di esseri in fuga, come quelli le cui impronte vedi ancora scolpite nel fango diventato roccia della gola di Olduvai, quando una famiglia di cacciatori cercava riparo verso nord agli sconvolgimenti che accadevano intorno a loro quasi due milioni di anni fa.  E ancora trovi resti di ominidi che già camminavano in piedi, che maneggiavano bastoni, che si organizzavano in gruppi per sopravvivere e trovare riparo nelle spaccature delle rocce. Proprio qui è scoccata la scintilla primigenia che ha imposto una specie sulle altre e le sue tracce antiche sono sparse in questo spazio in cui perdi i riferimenti del tempo. Non puoi rimanere indifferente a questo senso di infinitamente antico che ti circonda, mentre la strada continua a salire tra i pascoli presidiati da armenti e da greggi. Una donna avvolta in un grande mantello rosso a righe si gira al bordo della strada per ripararsi dalla polvere; le ripe intorno hanno radure sempre più strette e la vegetazione si muta in foresta mentre stai per raggiungere il bordo superiore del cratere di NgoroNgoro. I pochi animali che vedi si nascondono subito nel folto, intimiditi dal rumore dell'auto, solo qualche giraffa non riesce a celare il lungo collo tra gli alberi. 

Poi dopo un'ultima curva, in fondo ad una salitella, sbuchi di colpo su una piccola radura aperta e lo spazio si squarcia al di là del crinale in una vista attesa, ma che ti lascia comunque senza fiato. Sei ad oltre duemila metri, l'aria è solo leggermente frizzante e quasi non ti accorgi di avere il fiato corto mentre ti affacci alla balconata naturale. Davanti, l'immensa bocca del cratere si spalanca come un inghiottitoio colossale, uno spazio chiuso ermeticamente da erte pareti, una prigione naturale in cui si entra e si esce a fatica per conquistarsi la libertà. La grande distanza, il crinale opposto è lontano quasi venti chilometri, ottunde i particolari. Le pareti vicine che scorgi calare ripidissime e coperte di fitta foresta pluviale si addolciscono asindoticamente verso il fondo in una sequenza di variazioni di verde che culminano, mutandosi in azzurro nello specchio centrale del lago Magadi. Al centro di questo, pur così lontano, indovini la grande macchia biancorosata  di migliaia di flamingos con le zampe appena coperte dall'acqua. Solo aguzzando di molto la vista riesci a scorgere l'infinità di puntini neri che ricoprono gli spazi aperti, le grandi mandrie di animali, gnu, zebre, gazzelle, antilopi, bufali, che lo popolano. Qualcuno potrebbe immaginare questa come una raffigurazione del giardino dell'Eden, un sogno da raccontare, mentre invece sta lì, incredibilmente reale, lì davanti agli occhi per essere guardato a lungo, nel tentativo di fissare questa immagine unica e cercare di portarla con te per sempre. 

Ecco perché è bene, se si ha la possibilità di pernottare in uno dei vari siti posti sull'orlo del cratere, arrivare un paio d'ore prima che cali la sera. Gettati frettolosamente i bagagli nella stanza, non devi perdere neppure un minuto e correre alla grande balconata, sederti su una comoda poltrona e rimanere lì a guardare in silenzio, a vedere la luce che cambia a poco a poco, mutando le intensità di verde che man mano ingrigiscono, la superficie del lago che brilla sempre di più, la foresta che diventa verde cupo, poi viola, poi infine nera, mentre il cielo abbassa le luci, il chiarore diffuso si spegne e d'improvviso compaiono le prime stelle fino a quando ogni cosa diventa velluto nero in attesa dell'uncino argentato dalla curvatura inusuale, verso il basso, che sale oltre il crinale opposto. Finisci appena la tua birra schiumosa e corri a nutrirti in fretta, che il digiuno è dannoso alla lucidità della mente, ma sbrighi rapidamente la pratica senza fare gran feste alle sapide carni croccanti di un delizioso maialino arrosto, perché hai una premura indiavolata di non arrivare tardi ad un altro appuntamento imperdibile. Corri in camera, spalanca le grandi tende della vetrata affacciata sul grande giardino e spegni la luce, siedi sul letto e aspetta, non rimarrai deluso. 

Ecco che sotto le luci fioche dell'esterno del lodge, dopo un poco qualcosa si muove. Una piccola femmina di bushbuck zampetta incerta tra i cespugli ma si perde subito nel nero delle fronde basse; poi un enorme bufalo, seguito da un altro maschio, passo dopo passo bruca l'erba a pochi centimetri dal tuo vetro. Si sono appena allontanati, quando la sagoma preistorica di un rinoceronte nero, segue la stessa via. Trattieni il fiato, di certo non riescono, almeno così dovrebbe essere, ad avvertire la tua presenza, ma che emozione. Poi un movimento veloce, qualcosa passa quasi di corsa sul davanzale, strusciando lungo il vetro, due occhi gialli, mezzo metro di coda grossa e pelosa, piccole zampette simili a mani. E' un galagone, una proscimmia notturna che ama frequentare le vicinanze degli insediamenti in cerca di cibo. Si ferma un attimo annusando l'aria e poi scompare dietro la siepe. Non ti deciderai ad andare a letto, ma intanto chi riesce a dormire? Sarà l'altitudine o forse le troppe costine di maialino che appesantiscono lo stomaco rendono lunga la digestione. O forse è l'eccitazione dell'attesa, domani all'alba, alla prima luce, scenderai sul fondo del cratere.

NgoroNgoro dal Wildlife lodge.


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giovedì 21 febbraio 2013

I leoni del Serengeti.




E' quasi l'alba sulla savana. Dalla grande terrazza del lodge perdi lo sguardo lontano. Sotto, ancora indistinguibile nel folto del bush, senti fruscii, grugniti sordi, sguazzar di corpi a mollo nella pozza. Non è ancor chiaro il cielo, quando la Toyota si infila in una delle tante stradine che tagliano tra i torrentelli che hanno scavato nella terra rossa ferite contorte. Il vento muove l'erba e i primi raggi del sole che bucano le nubi accende gli steli. Le impala o le gazzelle di Grant sono le prime che scorgi tra i cespugli come sorprese, illuminate da una luce radente perfetta che colora tutto di una dominante rosa-arancio. Alla prima osservazione appare poca vita tra gli alberi, ma basta fermarsi un poco e osservare con calma; ecco sotto i rami due timidissimi dikdik, le più piccole tra le gazzelle, perfettamente immobili nel tentativo di non lasciarsi scorgere, poi muovono appena i lunghi colli ad osservarsi le spalle, i due piccoli deliziosi cornini rivolti in alto. Il pelo scuro li nasconde bene tra i rami bassi. Un po' più avanti, subito dopo un guado, il torrente si allarga e diventa più profondo. Subito scorgi una trentina di groppe immobili, tra il grigio e il viola, quasi il colore dell'acqua stagnante della pozza. Su di esse uccellini dalle lunghe gambe saltellano in cerca di cibo. 

Ogni tanto froge frementi e occhi cisposi emergono quel tanto che basta ad inspirare ed a guardarsi attorno; qualche brontolio sordo e poi tutto scende sotto la superficie. Solo di tanto in tanto qualche corpaccio, a disagio per l'affollamento, si agita di più, cerca spazio tra i compari, si sposta, facendo smuovere tutto il mucchio in cerca di un nuovo posizionamento, allora si alzano grossi musi che allargano bocche enormi dai canini mostruosi. Minacce, affermazione di predominio sul territorio liquido, ancora qualche scuotimento nevrotico per fare spazio ai piccoli, poi tutto riaffonda. Vita dura quella dell'ippopotamo, una dozzina di ore di giorno a dormire a mollo nell'acqua, poi a sera una faticosa emersione per raggiungere una zona dove la vegetazione è più ricca e rigogliosa ed altrettante ore per ingurgitarne decine e decine di chilogrammi, prima di rifare all'indietro la strada che riporta al letto liquido dove riposare tutto il giorno al riparo dai raggi del sole. Certo bisogna spartire la pozza con i coccodrilli, ma quelli stanno alla larga, date le dimensioni, basta proteggere i piccoli. Non senti movimento intorno. 

Stranamente non vedi in giro erbivori. Un gruppo di gazzelle pascolano lontanissime. Tra l'erba alta ecco apparire un piccolo sciacallo dalla gualdrappa che sembra dirigersi verso un punto preciso. Poi d'improvviso dal folto compaiono d'improvviso corpi fulvi e potenti anche se quasi immobili. Una dozzina di leoni stanno attorno alla carcassa di un bufalo, forse atterrato ieri, di cui ormai puoi vedere le costole spolpate tese verso il cielo. Due leonesse staccano ancora brandelli di carne forbendosi i baffi con le lunghe lingue rosa. Tre maschi giganteschi a fianco si guardano attorno annoiati, hanno già mangiato evidentemente e vedi solo piccoli movimenti del pelo nero delle criniere. Quattro piccoli giocano tra di loro fingendo di lottare, poi ogni tanto si avvicinano a quanto resta dell'animale abbattuto per  rosicchiare qualche osso ormai sparso a terra. Una femmina, la più grande, si alza e si gira attorno controllando il territorio. Questo solo movimento tiene a bada e non lascia avvicinare una famiglia di sciacalli, che continua ad aggirarsi indaffarati in attesa che lo spazio venga lasciato libero a loro. Più lontane anche le iene aspettano il loro turno con pazienza. 

Ultimi, appollaiati sui rami secchi di un albero morto, una dozzina di avvoltoi ruotano il collo rognoso senza attirare l'attenzione di nessuno. Tutto si svolge secondo uno schema fisso e funzionale. Adesso, fino a quando ne avranno abbastanza, tocca ai leoni. Che senso di potenza, di forza assoluta! Muscoli tesi, respiro potente, grosse zampone che solo appoggiate alla preda, ti fanno capire chi è il padrone assoluto di questa terra. Te ne vai dispiaciuto di lasciare indietro questo spettacolo di forza bruta, ma basta poca strada e ancora ti devi fermare attonito. Sopra un grande albero, rami robusti  fanno da giaciglio per tre grandi leonesse. Stanno lì a riposare con le zampe che pendono ai lati della corteccia, una incastrata all'incrocio del tronco. Rimangono ad osservarti senza espressione come se fossi tu lo spettacolo da guardare, solo le code sventolano lentissime, diversamente penseresti a sagome di cartone messe lì per la scena. Ma Serengeti è questo, basta seguire le cento stradine contorte che girano tra i piccoli dossi ed ecco un leopardo in caccia, che si muove con cautela nell'erba alta; segui allora le macchie della pelliccia e la lunga coda; alza il muso per annusare l'aria di tanto in tanto, si gira a guardarti, poi scivola nel folto e scompare alla vista. Poco più in là un piccolo, forse proprio il suo cucciolo, lasciato su una forcella di rami alti di una acacia, che si lamenta miagolando, forse aspetta il cibo che tarda ad arrivare. 

Quando il sole è ormai alto gli animali cercano sollievo all'ombra, acquattati tra i cespugli o sotto gli alberi più grandi. Nella vegetazione fitta, ecco un altro gruppo di leoni che dormono saporitamente, il pasto è finito da tempo; stanno addossati uno all'altro, pancia all'aria e coperti di mosche, li daresti per morti, non fosse per il convulso respirare che ne agita le costole. Solo due cuccioli si agitano poco più avanti sotto l'occhio di una grande femmina. Ti sei fermato soltanto per un'oretta su una collina bassa a sbocconcellare il pollo secco e l'uovo sodo del lunch box, il dolcino e i biscotti te li ha arraffati una scimmia dispettosa che stava in agguato su un ramo in attesa del primo turista distratto. Un lampo, un tonfo caduto dall'alto, piccole mani rapidissime che pescano nella scatola a colpo sicuro e la piccola ladruncola se ne va squittendo con il bottino stretto a litigarselo con le compagne che glielo rubano a loro volta. Nella savana devi imparare a mangiare in fretta. Non c'è tempo per degustare, devi mandare giù il boccone intero, pena la sua perdita. Era l'alba un attimo fa e sei già di ritorno perché il sole tra poco già tramonta. Lasci indietro giraffe e elefanti lontani, otarde, stormi di cicogne e marabù e, ultimo regalo una lunga coda maculata che pende da un grosso ramo fronzuto. Un enorme leopardo che riposa girando appena la testa al tuo passaggio. Sta per scendere un'altra notte sulla pianura verde scuro.


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mercoledì 20 febbraio 2013

Serengeti: gnu e zebre.




 
Hai sognato sui libri dei grandi cacciatori bianchi? Hai visto centinaia di documentari sulle savane sconfinate? Hai sfogliato fotografie di animali selvaggi, sterminate mandrie al pascolo, come forse potevano essere solo quelle dei bisonti nordamericani all'epoca di Buffalo Bill? Serengeti è lo stereotipo del tuo sogno e della tua immaginazione. Non c'è zona africana che racchiuda meglio la vastità sconfinata, il senso di orizzonte infinito brulicante di vita di questo, che è uno dei più vasti e conosciuti parchi del mondo. La strada sterrata che taglia diritta l'altrettanto grande area di conservazione che lo circonda, ti prepara a questo ambiente naturale tra i più tipici dell'East Africa. E' un taglio preciso nella terra rossa su cui corri sollevando dietro di te una nuvola polverosa; intorno, la pianura infinita con una riga netta a separare terra e cielo. Ci arrivi dopo una lenta discesa dalla zona dei crateri, in vasti spazi punteggiati dalle mandrie dei pastori Masai, tracce bianconere lontane guardate da piccole macchie rosse accoccolate al loro fianco. Ogni tanto, lontano dalla pista ma ben visibile, la sagoma rotonda di un boma circondato dalla fitta siepe spinosa di rami di acacia. 

All'interno, seminascoste, le capanne di fango, ormai molte coperte da un bel telo di plastica blu, moderna risposta al problema della pioggia che, quando cade copiosa, le scioglie. A poco a poco questa presenza diminuisce, rimane solo, di tanto in tanto ai margini della strada, qualche gruppetto di moran, i ragazzi da iniziare, avvolti in coperte nere da cui emergono solo i visi dipinti di bianco, fantasmi muti appoggiati a lunghi bastoni, ultimi epigoni di una cultura che sta per essere anch'essa cancellata da un mondo troppo veloce per non travolgere tutto sulla sua corsa. Poi più nulla, solo il mare verde di erba della savana mosso dal vento. Le piccole piogge sono armai finite; il terreno è ancora umido e gli steli verde pallido sono spuntati rigogliosi da settimane fino a raggiungere quasi l'altezza del ginocchio. Solo rarissimi cespugli punteggiano la piana, ma dappertutto, a centinaia di migliaia, con una reiterazione senza fine, le mandrie di gnu ricoprono quasi ogni spazio libero, alternate ad altrettanti gruppi di zebre grassocce, in una simbiosi indivisibile che li accomuna da sempre. Brucano, brucano tutti senza sosta, ti sembra di sentire, il crunk dell'erba che si strappa e il ruminar di mascelle continuo, un rumore di fondo mescolato a muggiti acuti, scalpitar di zoccoli, nitriti nervosi. 

Lo gnu è un animale elegantissimo nella sua goffa forma di gobbo contorto dal muso ingrugnito e troppo stretto. Ha zampe sottilissime, esili ed apparentemente troppo deboli per la sua dimensione corporea, eppur lo vedi trottare con una leggerezza lieve, dare scarti così rapidi e improvvisi da mostrare il guizzo dei muscoli forti e ben segnati sotto il pelo grigio dalle tante sfumature. Corrono, ruzzano, fanno prove di lotta incrociando le corna, i giovani maschi della stagione precedente. Le femmine, palesemente grosse, mangiano in continuazione; tra poco comincia la stagione dei parti; entro febbraio quasi 8000 nuovi nati al giorno arricchiscono il Serengeti, nuove vite da allattare, nutrire, far crescere in fretta, molto in fretta, da rendere autonomi entro luglio al massimo, quando l'erba grassa e dolcissima, a poco a poco ingiallirà, diventerà secca fino a scomparire completamente assieme alle pozze d'acqua che diverranno sempre più rare, piccole e fangose ed allora comincerà la grande migrazione che porterà più di un milione di capi fino in Kenya, al di là del fiume dove i coccodrilli aspettano immobili il loro tributo di vite più deboli. 

Anche le zebre stanno per affrontare la stagione delle nascite e appaiono tonde e pasciute nei loro pigiami naturali, lucidi e tesi. Sono sempre attente a ciò che avviene attorno, brucare sì, ma con occhio vigile, sempre pronte a scappar via, a mantenere la distanza, quella che ti garantisce la vita. Dove rimane un po' di spazio gruppi di impala o di gazzelle di Thompson, rigorosamente divise. Ecco là una ventina di maschi giovani che si spostano attraversando la pista, laggiù un harem di una trentina di femmine con i piccoli che brucano tranquille; il maschio da un lato spicca con le corna alte a guardia del gregge, le gambe posteriori tese come corde, muove il capo in ogni direzione attento a dare un segnale di fuga al minimo sospetto di pericolo. Vedi solo la sagoma col buffo cespuglio di pelo bianchissimo del posteriore segnato dalle due bande nere, le grandi corna ritorte, ritte al vento, le froge che annusano l'aria a sentire un odor di selvatico ben conosciuto. 

L'erba è già troppo alta, dappertutto potrebbe nascondersi l'insidia. Serengeti è il parco dei grandi felini, anche loro devono pur vivere. Per te invece una grande terrazza in legno a dominare lo spazio senza confini che circonda il lodge, con una birra in mano mentre il sole scende definitivamente dietro l'orizzonte intanto che  il cielo si colora di viola scuro. La grande pozza d'acqua brilla come uno specchio infranto dagli sguazzi e dai brontolii prepotenti degli ippopotami, poi il buio scende in un attimo. Dappertutto, sotto di te qualcosa continua a muoversi; comincia un'altra notte, la parte della giornata più carica di ansia, ognuno cercando di sopravvivere mangiando qualcun altro o evitando di essere mangiato. Per te invece, un ricco buffet, davanti alla immensa vetrata che spazia sulla savana, che ti porrà di fronte a scelte meno impegnative.



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