Ho appena passato il mio solito paio di orette da Mediaworld. Ogni tanto ci vado, girolo qua e là guardandomi un po’ di megaschermi, calcolo le misure per dove metterli, controllo i PC e i Mc, faccio una puntata tra le telecamere e le macchine digitali confrontando le caratteristiche, insomma è il mio negozio dei giocattoli dove torno bimbo per un po’. Chissà da dove mi vengono questi mal di pancia. Credo che vengano da lontano, che siano una tara del passato, di un altro tempo. Quando ero piccolo, intendo piccolo piccolo, il soldo che girava era così poco che veniva sempre privilegiato il regalo utile, al limite, istruttivo, ma per i giocattoli, se li volevo, dovevo un po’ arrangiarmi. Avevo una gran passione per i soldatini di indiani e cowboy (allora tutti parteggiavamo per i cowboy e nessuno voleva tenere Toro Seduto e men che meno i Piedi Neri, salvo essere oggetto di lazzi infiniti) ma il pezzo più bramato era il fortino. Un mio amico ricco, ne aveva uno strepitoso, grandissimo, così almeno mi sembrava e quando arrivavo da lui a giocare, aveva già disposto una grande schiera di soldatini, di cui disponeva in gran numero; gli indiani tutti attorno al forte e il gruppo del 7° cavalleggeri all’interno, pronti per la sortita con il generale Custer in testa e io mi rodevo dall’invidia. Me ne ero costruito uno con tre o quattro scatole da scarpe, ritagliando le punte dei pali che poi avevo accuratamente disegnato sull’esterno ed era anche venuto abbastanza bene, ma non era la stessa cosa, ci giocavo io, ma non osavo certo esibirlo nei giochi comuni e poi mancavano i soldatini, che non è poco. Ne avevo solo qualcuno malandato e mezzo rotto, ma lì non si poteva sopperire con quelli ritagliati nel cartone. Così sognavo e desideravo, ma senza un piano preciso, perché non c’era una possibilità pratica di venire in possesso di uno stock di soldatini decenti. Però si era creata una routine obbligatoria a cui la mia mamma si era ormai rassegnata. Quando mi veniva a prendere all’uscita da scuola, giravamo largo fino alla Via Dante, lei mi comprava 20 lire di bellecalda bollente che io sbocconcellavo avidamente mentre andavamo verso casa. Quasi al fondo della via c’era però la fermata di rito. Si aprivano sull’angolo due vetrine del più bel negozio di giocattoli di Alessandria che si chiamava La fata dei bambini. Era assolutamente meraviglioso. La prima vetrina era più specifica per i maschi, una quantità di bellissimi soldatini disposti in schiere ordinate all’assalto di forti e castelli, scatole di costruzioni barocche e gigantesche su cui troneggiava il mitico Meccano n.5, che neppure i miei amici più ricchi possedevano, modellini di ogni tipo e un colossale plastico con una serie di trenini che si incrociavano a velocità folle. Beh, quelli erano talmente al di sopra del possibile che non li desideravo neppure, mi piaceva solo stare a guardarli. Sarei rimasto lì per ore, con il naso appiccicato alla vetrina, ogni tanto la mia mamma mi diceva: ”Dai andiamo.” Ma già sapeva che i primi due o tre richiami erano tempo perso, era solo per cominciare la trattativa e guadagnare posizioni. “Ancora un momento, mamma” imploravo; poi finalmente, in generale quando la bellecalda era finita e mamma mi aveva ben pulito le dita, col fazzolettino bianco che teneva nella manica, per evitare che ungessi il cappottino che mi aveva confezionato per Natale, dovevo staccarmi da quel bengodi e ce ne tornavamo a casa a fare i compiti. Ci sono passato davanti ieri, adesso c’è un malinconico negozio di frigoriferi. Sì, penso che venga da lì quell’atteggiamento che provo quando vado da Mediaworld, quando sto un po’ a guardarmi lo schermo Led da 62 pollici o l’home theatre con tutta quella serie di funzioni che non riesco neanche a capire e che di certo non è possibile desumere interrogando gli addetti. Forse anche allora la commessa della Fata dei Bambini, non avrebbe saputo spiegarmi come fare il mulino a vento con le pale che giravano col Meccano n.5, ma credo che in fondo, non fosse molto importante.
domenica 31 gennaio 2010
Soldatini a cavallo.
sabato 30 gennaio 2010
Laguna umida.

venerdì 29 gennaio 2010
Rosso sangue.

giovedì 28 gennaio 2010
Passione bruciante.


mercoledì 27 gennaio 2010
Un problema di memoria.
martedì 26 gennaio 2010
Verde jungla.

lunedì 25 gennaio 2010
Acqua e fuoco.

sabato 23 gennaio 2010
Oggetto misterioso 3: Marketing selettivo.
venerdì 22 gennaio 2010
Profili di pietra.


giovedì 21 gennaio 2010
Miguel e la gallina.

mercoledì 20 gennaio 2010
Colori e vulcani.

martedì 19 gennaio 2010
Xiōng,Mèi,Jiě,Tài.

lunedì 18 gennaio 2010
L'importanza della musica.

domenica 17 gennaio 2010
Finanziare la rivoluzione.



sabato 16 gennaio 2010
Carnevale della matematica n.21
Inopinatamente e di certo per abbassare la media della qualità degli inyterventi, (non bisogna volare troppo alti) è stato citato anche il giochino del mio post: http://ilventodellest.blogspot.com/2010/01/cronache-di-surakhis-25-antiche-fonti.html
Il poncho ricamato.

Ancora pochi kilometri nella selva poi, un altro piccolo paese, Zinacantan, poche case sparse attorno ad una chiesa bianca profilata di giallo vivo. Era in corso una festa e tutto il sagrato era addobbato di colori e di festoni, mentre gli uomini con in testa il Majordomo ballavano al suono di una orchestrina . Suoni che curiosamente mescolavano sonorità latine a ritmi più cupi, più antichi e severi capaci di dare un senso di estraneità senza vera allegria. Gli uomini a piedi nudi, ballavano ritmicamente e anche rimanendo a prudente distanza era tutto un rutilare di colori vivacissimi che emergevano con prepotenza dai mille ricami delle loro camicie che la tradizione vuole preparate con cura dalle donne della famiglia. Questa è una delle principali attività delle donne Tzoziles che abitano questa parte della selva e si dice che se non è in grado di ricamare una bella camicia per il suo uomo, una ragazza non è ancora pronta per sposarsi. Lasciammo la piazza lungo un sentiero laterale senza dare nell’occhio, dopo aver visto l’interno della chiesa in tutto simile a quella di Chamula, con un piccolo specchio alla base delle statue lignee dei santi, dove il postulante per liberarsi della brujerìa, il malocchio, dopo aver preso la pozione di erbe suggerita dal curandero, esegue la limpia, raccontando la sua storia tra le lacrime e pregando fino a che la sua espressione non appare serena. Lo specchio la restituisce tale solo quando il dio-santo lo ha perdonato, dopo l’offerta magari di quattro uova e della lunga preghiera protratta fino allo sfinimento. Niente sacerdote, neanche qui, un cappuccino viene solo qualche volta all’anno per somministrare i battesimi e se ne va dopo aver celebrato una breve messa. Curiosando tra le case, il volto triste di una bimba che fungeva da butta dentro, ci invitò ad entrare in una capanna a due stanze. Nella cucina, con il fuoco al centro bolliva una gran pentola nera con verdure, mais e fagioli, mentre il fumo usciva dalla piccola apertura sul colmo del soffitto. Buttò dentro una gran manciata di chilli rossi come il fuoco e come i ricami che ornavano la sua camicia bianca, mentre nell’altra camera, la figlia grande lavorava su un telaio mobile una lunga pezza di stoffa colorata.

venerdì 15 gennaio 2010
Una chiesa silenziosa.

giovedì 14 gennaio 2010
El rincòn proletario.


mercoledì 13 gennaio 2010
Oggetto misterioso 2: soluzione, la toilette rajastani

martedì 12 gennaio 2010
Cronache di Surakhis 25: Antiche fonti.
N.d.R. Il documento è riportato da La Stampa del 09.01.2010
lunedì 11 gennaio 2010
Campanellini indiani. (Ogg. Misterioso 2)
domenica 10 gennaio 2010
Che casino!

sabato 9 gennaio 2010
Saltamontes del Sumidero.

venerdì 8 gennaio 2010
Tequila reposado.

mercoledì 6 gennaio 2010
Xiào

Accidenti, qui è tutto un pianto greco, dovunque mi giro sento solo gente che si lamenta. Per carità, comodo dire così, se ti gira quanto meno normale, però ho la sensazione che un certo ottimismo, per lo meno come atteggiamento di base, migliori la qualità della vita. Anzi pare che ridere per qualche minuto al giorno abbia un riflesso significativamente positivo sulla salute. Sarà; ad esempio i cinesi, tanto per dirne una, ci hanno sempre creduto. Colgo un suggerimento di Ferox che mi segnala un carattere molto interessante e che calza a pennello con quanto detto. Prendiamo dunque l’ideogramma Xiào che significa proprio “ridere”. E’ diviso in due parti come molti altri. La parte inferiore è decisamente ideogrammatica, rappresenta un uomo che china la testa nell’atto di ridere, sempre molto controllato, mi raccomando, non sta bene il lasciarsi andare ad atteggiamenti scomposti, che deformano i tratti del viso in modo volgare, direbbe il vecchio abate assassino del Nome della Rosa. Niente esagerazione, ma equilibrio, compostezza, armonia. Quindi chiariamo subito che ridere per i cinesi non significa sghignazzare, ma appena di più che sorridere. Un filino, quanto basta per capire la differenza, per dimostrare che chi lo fa si diverte per sé stesso, non solo per mettere a suo agio chi sta con lui. E volendo sottolineare proprio questa levità, questa compostezza, ecco che arriva, mirabile, il tocco di genio, la parte superiore del carattere, che è anche la chiave di ricerca del carattere stesso. Presa da sola è Zhu, il prezioso, delicato, flessibile bambù, sempre presente, col suo verde pallido ad ornare ogni giardino che si rispetti, che si piega alla forza bruta, ma resiste incrollabile, non si lascia strappare, spezzare; più tu eserciti la forza, più lui ti vince, ti taglia le dita. Così deve essere la risata, come il fruscio della canne tenere di un ciuffo di bambù, deve accarezzare con un suono allegro l’ambiente, deve rendere ancora più bello il volto di una donna, più simpatico quello di un uomo. Saper ridere in Cina è fondamentale, per una trattativa commerciale, per intrattenere i propri ospiti, per trattare con le persone. Mai mostrarsi irritato durante una relazione d’affari, mai perdere la pazienza, ma ridere e bere il thé. Bisognerà che scriva un trattatello per il mercante in Cina prima o poi. “Se non sai ridere, non aprire un negozio” recita il più classico dei proverbi cinesi e secondo me i cinesi, di motivi per ridere ne hanno parecchi, anche se tutto il resto del mondo li snobba come copiatori infaticabili e basta. Per gente che ha avuto genitori che andavano a strappare l’erba nei fossi per mettere qualcosa nella pancia, qualche passo l’hanno fatto e non li ha certo aiutati nessuno, casomai hanno cercato di buttarceli in quel fosso; tutto merito loro, del loro lavoro e della loro determinazione. Un senso di sacrificio, che magari da queste parti latita un po’. Si sghignazza di più, certo, ma mi sembra che si rida di meno.