giovedì 13 novembre 2025

Seta 50 - A Dalanzadgad

Cavalli mongoli - Mongolia - giugno 2'25
 

Steppa

Gli aggettivi da utilizzare non sono moltissimi e tuttavia sempre diminutivi della sensazione che provi man mano che procedi in questa terra. Desolata, immensa, senza limiti. Viaggiamo da quasi quattro ore in questo deserto infinito, ricoperto solamente da radi fili di erbetta verde grigia, la strada segnata solo da due carreggiate che si prolungano fino all'orizzonte dove lo sguardo si perde. Neppure ondulazioni, se pur lievi, in lontananza che ti diano un senso di dimensioni, di spazialità che ti possano far considerare le distanze o che possano avere un nome, tanto per segnalare un itinerario. Procedi nel nulla, alla mite velocità che lo sterrato e le rotaie segnate nello sterrato consentono. Alla fine se volessi considerare i chilometri percorsi, anche seguendo una mappa, non ti devi fare illusioni, saresti sempre più o meno nello stesso posto. Il terreno ha le disconnessioni naturali dello sterrato, quindi procedere è un po' tutto uno sballottamento. L'autista Nyamkaa, è un ragazzo di età indefinibile, potrebbe essere tra i trenta ed i quaranta, robusto ma non grasso, come appaiono spesso i mongoli. Visto che non parla nessuna lingua a noi nota, la comunicazione langue, tuttalpiù qualche languido grugnito, mentre il pulmino procede in quella che non saprei bene definire, forse steppa è la parola giusta, visto che da quando abbiamo passato il confine mongolo non abbiamo più visto un albero e sembra che non ne vedremo molti altri nei giorni a venire. 

Un pastore

Neanche il ragazzo a cui stiamo dando un passaggio profferisce parola, cosicché il tempo passa in una sorta di torpore confuso che ammorbidisce gli scossoni e ottunde il pensiero. Comunque sia, verso mezzogiorno, la strada curva un poco verso un piccolo rilievo brullo e spelacchiato, dove anche l'erba si rifiuta di crescere e compaiono una serie di baracche. E' anche questo un altro paesotto senza nome, o quanto meno un nome ce lo avrà pure, ma non compare su cartelli o simili. Le strade polverose che separano le baracche o le casette di legno leggero e lamiera, non so come preferireste chiamarle, terminano poi nelle piana esterna, secca e brulla. Solo qualcuna continua con le rotaie scavate dal passaggio dei battistrada, perdendosi all'orizzonte. Non si vede quasi nessuno in giro. Il nostro si mette in cerca di qualcosa che abbia la parvenza di un distributore di benzina ed alla fine trova una specie di colonnina, ma dopo averci girato attorno per un po' appare chiaro che non è presidiata da nessuno e forse non è neppure funzionante, almeno così si potrebbe dedurre dalla ruggine che la completa come una decorazione d'annata e dalla polvere che ne ricopre la sommità. Poi chiede qualcosa al primo pastore che transita in cerca delle sue capre e rifacciamo un giro del paese. E' un tizio grassoccio a cavallo di una moto cinese bisognosa di manutenzione, che nonostante la temperatura non troppo calda, se ne sta nudo dalla cintola in su con la maglietta abbandonata neghittosamente su una spalla come un divo del cinema in ciabatte, che però dà le indicazioni giuste. 

Al ristorante

Questi sono i moderni pastori della steppa. dove la motocicletta ha ormai sostituito il cavallo o il cammello, anche se la benzina fai fatica a trovarla come un  tempo l'acqua nelle oasi. Questa volta però, dopo le sue indicazioni, al limite nord del paese troviamo un altro venditore finalmente fornito che provvede alla bisogna. Poi con piglio sicuro il nostro duce, ci porta al centro del paese dove in un'altra baracca si apre una porta sbilenca che immette in quello che dovrebbe essere un ristorante. Bisogna dire che dentro presenta meglio che fuori, ma l'offerta è piuttosto carente. Qualche piatto esposto in una vetrinetta da cui scegliamo un riso e poi quello che sembra l'unica cosa disponibile, una specie di stufato di carne. Come era previsto non bisogna aspettarsi molto dalla cucina mongola, ma questo in fondo è l'ultimo dei problemi, ci si abitua a tutto facilmente. Quando dopo un'oretta usciamo satolli e pronti all'ulteriore balzo nel nulla, mi accorgo di un altro fatto curioso. Le insegne, le scritte e ogni altra dicitura sono espresse in cirillico e non in alfabeto mongolo. Davvero  una cosa strana che la scrittura di questo popolo sopravviva solo più in alcune città cinesi della provincia della Inner Mongolia. Qui invece è completamente scomparsa. Testimonianza inequivocabile dell'importanza capitale che ebbe l'URSS in questo paese per molti decenni. 

Il monumento

Infatti il paese è stato sovietizzato completamente a partire dagli anni '20, fino alla caduta dell'URSS, assorbendone usi e metodologia di governo a partire dal feroce periodo dittatoriale in cui il presidente assunse lo stile staliniano, peggiorandolo se possibile e copiandolo in tutto e per tutto, in particolar modo nelle epurazioni e nella creazione di gulag. Fin dall'inizio furono distrutti la maggior parte dei monasteri buddisti tibetani e la popolazione monastica che assommava a quasi il 30% degli abitanti fu ridotta quasi a zero. Così fu proprio nel '46 che il cirillico venne adottato come scrittura ufficiale, cosa che persiste tutt'ora benché ci sia stato qualche tentativo di recupero della tradizione dopo gli anni '90, quando il paese, dopo il discioglimento dell'URSS virò verso la attuale forma di democrazia, ma senza successo. Comunque alla fine si riparte e per fortuna, dopo pochi chilometri inaspettatamente compare l'asfalto, cosa che consente una velocità decisamente diversa e prima che faccia buio, in tre orette o poco più, ci consente di raggiungere la nostra meta Dalanzadgad. Compare infatti all'orizzonte una sorta di grande arco di trionfo, tripartito e circondato da sculture significative di cammelli della Bactriana e soprattutto tre giganteschi monumenti sovietici di metallo che dovrebbero rappresentare donne in costume tradizionale leggermente inchinate per accogliere i graditi ospiti che arrivano da lontano.  

Accoglienza

Sotto l'arco passa la strada e al di là però, si prosegue ancora all'infinito o almeno a quello che sembra essere l'infinito, in realtà dopo pochi chilometri si avvista quella che è la periferia della cittadina, fatta di gher bianche sparse e poi man mano che si va verso il centro, da baracche di legno e poi finalmente da case vere e proprie. In effetti questa è una città quasi vera, con circa 25.000 abitanti. L'unico problema è che dovevamo arrivarci ieri sera, quindi tirando le somme siamo in ritardo di un giorno intero sulla tabella di marcia, non so se mi spiego. Si vedrà, a questo punto abbiamo capito che dobbiamo lasciarci andare agli eventi, succeda quello che deve succedere. In effetti questa dovrebbe essere una città mineraria in cui si estraggono almeno cinque dei minerali fondamentali per l'esportazione del paese: oro, rame, ferro, antimonio e mi sembra tungsteno e per questo la popolazione è quasi raddoppiata in un decennio. In fondo il suo aspetto è proprio quello che si vede in molti film dell'outback australiano o delle zone minerarie del Nordamerica. Come in tutte le città mongole comunque, la popolazione che ha cominciato ad inurbarsi, non ha però avuto la possibilità di insediarsi in aree che abbiano avuto uno sviluppo edilizio adeguato e salvo alcuni quartieri sorti ancora in epoca sovietica, con file di caseggiati bassi e decisamente fatiscenti, il resto si è dovuta adattare nelle loro tradizionali yurte, l'abitazione tipica degli altipiani dell'Asia centrale che qui chiamano gher

Le nostre gher

Quindi tutte le periferia a partire da quelle immense di Ulan Baator, sono costituite da una serie di spazi recintati alla meglio da staccionate di legno o di cannicciato, all'interno dei quali ci sono le gher necessarie alla famiglia, al massimo una o due in quanto, come ho già detto, le famiglie preferiscono dormire tutti assieme, ospiti compresi. Solo recentemente, con lo sviluppo turistico, se pur minimo avvenuto negli ultimi anni, qualcuno ha cominciato ad aumentare il numero delle gher nel cortile per metterle a disposizioni di questi strani e pretenziosi stranieri, che vogliono stare per conto loro, d'altra parte fin che pagano va pur bene adattarsi alle loro manie, fino ad un certo punto naturalmente, che qui siamo nella terra di Gengis Khan, che vorrà pur dire qualcosa. Intanto noi andiamo a cercare la nostra sistemazione notturna, che troviamo dopo aver girato un po' tra stradine fangose, visto da un po' viene giù una fastidiosa pioggerellina che rende tutto umido e gelido. E' esattamente come ve l'ho descritta prima. Al centro c'è la gher della famiglia ed altre tre intorno. mentre la latrina è in un angolo del cortile; su un fianco all'aperto vicino alla staccionata, un lavandino sul quale è appeso un piccolo serbatoio di plastica che bisogna riempire ogni volta dai boccioni che stanno a terra, dopo l'utilizzo. Le due signore che ci aspettavano da ieri, cosa di cui non sembrano essere assolutamente stupite né preoccupate, ci accolgono festose e ci portano subito nella gher della famiglia a riscaldarci con tè e biscottini, così si usa da queste parti, mentre Gianluca e Lucetta vanno fino ai bagni pubblici in centro a farsi una doccia. Ho già capito che sarà una settimana un po' particolare, almeno dal punto di vista igienico.   

L'arco di trionfo



Aquila
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