venerdì 4 settembre 2009

Luberon 2.


Hai la sensazione che sia una giornata piacevole appena ti alzi e vai a fare colazione nella vecchia salle à manger della antica casa di famiglia dove abbiamo dormito. Mobili di un passato notabile, poltroncine decorate al piccolo punto, una tovaglia e tovaglioli ricamati a mano su una tavola imbandita solo per noi due. Caffettiera e lattiera d’argento, coltellino per il burro col manico d’avorio ingiallito dal tempo, croissant caldi e spremuta d’arancia, torta e marmellate fatte in casa, frutta lucida in una elegante alzata provenzale. Sei già di buon umore al mattino presto, saluti gli anziani proprietari sorridenti e dal belvedere di Saignon ti si apre davanti tutta la pianura, il Luberon alle spalle, lontano la calva cima del Mont Ventoux, una promessa per il giorno successivo. Dopo il mercatino di Apt, ricco di prodotti locali, dal miele di lavanda, alle confetture e ai formaggi di capra, ancora paesini, Bonnieux arroccato sul colle col museo della Boulangerie e gran vista sulla foresta dei cedri, tralasciando Lacoste nota non per le magliette, ma per il castello di DeSade che domina il paese dall’alto, poi Ménerbes, con la place de l’horloge e l’originale museo del Tire-bouchon. Ma com’è che questi francesi riescono a valorizzare qualunque piccola cosa, impreziosendola, raccontandoti una storia, vendendoti un’idea. La gente ci viene, paga 4 euro per vedere un po’ di cavatappi e poi compra sei bottiglie di vino e se ne va a casa contenta, qui non riesci neanche a far pagare un euro a uno che da piazza San Marco guarda il Canal Grande. Pochi kilometri e sei a Oppede-le-Vieux, straordinaria cittadina già centro romano e poi medioevale (parcheggio 3 euro, tanto per capirci). Una dura salita ti porta fino in cima attraverso le rovine della città, fino alla chiesa ed al castello per una vista folgorante tra le pietre avvolte dalla vegetazione. Che periodo strepitoso quello della Provenza dell’età romana. Città aperte lungo le grandi vie che portavano genti e commerci in ogni parte dell’impero senza preclusioni. Già ti vedi carri di vino e olio che percorrono le strade lastricate, passano grandi ponti a schiena d’asino, sotto gli immensi archi degli acquedotti; gente che lavora, che parla la loro lingua ed una lingua franca comune, aperta al nuovo e all’esperienza. Che popolo, ‘sti romani; costruttori e ingegneri, pragmatici, pronti ad inglobare lo straniero e farne proprie le sue esperienze; forse poca cultura, ma aperti a tutte le culture, alle idee nuove; bastava che non rompessi molto le scatole accettando il sistema e poi via libera; direi una mentalità un po’ cinese, non vi sembra? Forse è così che si conquista il mondo. Sta di fatto che poi il tempo è passato, le città si sono chiuse al nuovo e avviluppate su sé stesse, si sono arroccate, ritirate sui colli, cinte di mura, serrate dalla paura e dal timore, diminuiti i commerci, fermato il movimento delle idee, bloccate sotto il ferro di tanti piccoli signorotti locali. Un medioevo delle menti tra il terrore dello straniero e l’odio per il mercante che vengono a portare via la ricchezza sudata, razziandola o peggio comprandola. Agli uni ti puoi opporre con le falci e i forconi ricacciandoli in mare, agli altri no, qualcuno cederà comunque alla vile moneta. Ancora piccole strade di campagna, ancora il villaggio delle Bories, costruzioni in pietra alla moda dei trulli, testimoni di un passato duro succeduto alla gloria romana e Gordes, dalle stradine ripidissime che si precipitano lungo le mura. Infine Roussillon circondato da una falesia di rocce gialle e rosse di ocra. Una passeggiata in un cañon dai colori americani illuminati dal sole che fatica a concludere la giornata. Siamo finiti a dormire in un paesetto di quattro case attorno ad una chiesa del 1100, con un alberghetto con tre camere. Il ristorante sarebbe stato chiuso, ma la signora ci ha fatto ugualmente per cena una kisch di gourgettes e anatra alla provenzale con un bicchiere di rosato locale. Non voleva che restassimo senza cena.

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