dal web - nientepercaso |
Leggo della polemica di poco spessore sulla moda di Halloween che turberebbe le coscienze di tanti puristi della tradizione italiota. Bah, mi sembra argomento di così poca rilevanza, da poter essere trascurato senza troppi turbamenti, ma oggi nel rituale giro dei cimiteri pensavo a quando ero bambino e in Valle San Bartolomeo mio zio Enrico mi aveva preparato una grande zucca, scavata e ritagliata con i denti aguzzi e la candela dentro che la illuminava rendendola quasi trasparente, la sera appoggiata sul davanzale della finestra bassa. Non faceva paura di certo, ma era una novità per me quando già allora si faceva il giro in bicicletta dei cimiteri e poi si veniva a casa con un borsone pieno di cachi maturi, dopo aver lasciato una monetina da cinque lire allo zio, perché i cachi non si regalano, che poi porta male. Dunque già 65 anni fa si intagliavano le zucche, anche se non si sapeva, per lo meno io, che fosse Halloween.
A Valenza invece andavo in treno con mia mamma e dalla stazione fuori città mi aspettava una lunga passeggiata. Visto oggi però, e va bene che lo fai in macchina, non è poi così lungo quel viale che parte dal cimitero ormai ricoperto di foglie secche. Per lo meno non così lungo come mi appariva quando lo percorrevo, bambino, con la mia mamma da un lato e la nonna dall'altro. L'una giovane e bella, l'altra curva sotto il peso della vita che l'aveva costretta a seguire il feretro di un figlio morto per la consunzione seguita al campo di lavori forzati in Germania, uno di quelli che qualcuno oggi, a leggere i vaneggiamenti di internet, rimpiange e quindi subito vedova di un marito consunto dal dolore. Tutte cose che allora neanche sapevo, contento di quella giornata che ero certo sarebbe finita in gloria, con una magnifica barretta di torrone da sgranocchiare mentre percorrevamo lentamente quel viale per arrivare fino al cascinotto dove lei viveva sola, anche se forse non era una scelta.
Una piccola cascina tra i campi di allora, oggi credo coperti da villette di orafi evasori, tra le quali non ho mai più ritrovato i ruderi, giacché, lei morta e venduta in fretta la terra, era crollata in pezzi, testimone di un tempo destinato a scomparire, polverizzata dallo scorrere di un tempo impietoso a cui danno fastidio i ricordi. Era dolce quel torrone alle mandorle, Sebaste il diavolo di Alba recitava la scritta sul banchetto davanti al cimitero, e l'impegno che ci mettevo a sgranocchiarlo, dopo avere aperto con cura il cellophane che lo ricopriva, mi rendeva lieve la strada fino ad arrivare quella casa di cui ho un solo ricordo vago di uno stanzone con un grande camino fuligginoso e nulla più. Avevo già cominciato la scuola perché l'unico altro ricordo che mi rimane vivo era la raccomandazione materna di non raccontarle che mi avevano comprato, su suggerimento della maestra Signorina Fracchia, il Novissimo Vocabolario Melzi di italiano, perché non avrebbe capito la spesa di tutti quei soldi per l'acquisto di un libro.
Chissà se invece non l'avrebbe apprezzato anche lei, magari per quella sorta di reverenza che avevano i contadini di un tempo per la cultura, al contrario di oggi, tempo in cui si irride il sapere e si celebra l'orgogliosa e tronfia ignoranza. Ma io, ubbidiente, non tradii la consegna, avevo il torrone a cui pensare. Anzi forse ne avevo conservato ancora un pezzettino da finire mentre percorrevamo a piedi la carrareccia lungo la ferrovia fino alla stazione per tornare a casa, lasciandola lì, vecchia e curva nella sua lunga veste nera, senza più lacrime da spargere, a rimestare un pentolino appeso ad una catena nel grande camino nero di fuliggine.
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