venerdì 18 febbraio 2011

Chiacchiere di carnevale.

Il maschio italiano e quello alessandrino in particolare hanno in comune un file genetico, che quel piatto là come lo faceva la mamma, non è capace di farlo nessuno. Né il cuoco più pluristellato, né, se fosse possibile rintracciarlo, il creatore della ricetta medesima. La moglie poi, naturalmente, non entra neanche nelle semifinali. Perchè probabilmente le mamme inseriscono tra gli ingredienti un qualcosa di magico, una droga che dà dipendenza assoluta, già dai primi bocconi e che con facilità provoca il gradito bamboccionismo, tante volte invocato anche a sproposito. Il mio caso è diverso. Non so se per ragioni culturali o per l'uscita della mia famiglia dal periodo della guerra in cui il problema del cibo era trovarlo più che cucinarlo, ma la mia mamma era proprio la negazione della gastronomia. Ben sostenuta da mio padre che aveva una innata idiosincrasia per ogni cosa diversa dalle pochissime a cui il suo palato era abituato, la sua cucina era estremamente poco variata e limitatissima per quanto riguarda gli ingredienti.

I risultati, vi assicuro erano molto deludenti, tanto che, quando per le prime volte mi sono affacciato al mondo della gastronomia, questo mondo nuovo di sapori, profumi e abbinamenti, mi conquistarono immediatamente accendento un interesse che, purtroppo o per fortuna non si è assopito col tempo. Però, in una cosa, devo dire, la mia mamma si scatenava. Ne avevo già parlato una volta, ma ogni anno in questo periodo, mi prende la nostalgia. Passata l'epifania che come è noto tutte le feste le porta via, cominciava il periodo carnevalesco e lei, tirato fuori il grande asse di legno ed il matterello (da 1,20 mt) che aveva rinfoderato dopo gli agnolotti di Natale, iniziava il periodo delle Chiacchiere. Questo dolce povero e comunissimo in tutte le parti d'Italia, conosciuto nelle maniere più varie, frappe, bugie, stracci, gasse e chi più ne ha più ne metta, sono la cosa più semplice e più difficile da fare allo stesso tempo. Una pasta semplicissima (a cui veniva aggiunto un bicchierino di moscato, segreto della casa) che deve essere tirata in maniera magistrale fino a formare una sfoglia tanto sottile da apparire trasparente.

Questo è il momento topico. La mia mamma impastava a lungo, quindi rollava con grande energia, cambiando continuamente l'asse di stiro, in direzioni a raggera continua di una trentina di gradi, in modo che lo spessore rimanesse perfettamente uguale in ogni suo punto, man mano che il grande disco paglierino si allargava. Mio papà, alle spalle come solo il gufo maschio sa fare, borbottava critiche ad ogni piè sospinto, dando indicazioni per mostrare di essere la testa pensante dell'operazione, che venivano naturalmente disattese. Intanto la sfoglia aveva ormai raggiunto la sua massima dimensione consentita dalle misure della tavola, da cui debordava sui lati corti. Mio papà brandiva allora la rotella (la stessa degli agnolotti) e segnava il territorio, tagliando strisce di varia pezzatura fino a formare le consuete losanghe romboidali all'interno delle quali venivano fatti due ulteriori tagli. Un gesto artistico di certo più che funzionale, a dimostrazione che Fontana non ha inventato nulla. Intanto una pentola con un litro d'olio stava raggiungendo la temperatura ottimale e cominciava la calata.

Come leggere farfalle che si posano sulle promesse dei fiori estivi, come libellule eleganti che appena toccata la superficie dello stagno dorato tornano a librarsi nell'aria, ecco le larghe quadrelle appena immerse che paiono prendere vita, muoversi come un fremito di piacere al contatto del liquido caldo e subito arrossire come giovani fanciulle al primo caldo bacio d'adolescenti. Le guance subito si colorano, le superfici non aduse a questo rovente contatto si gonfiano un poco, eccitate e impaurite allo stesso tempo, si arricciano quasi volessero sottrarsi a questo gioco sensuale e quasi perverso ed è già tempo di toglierle a quel contatto troppo caldo, troppo pericoloso, troppo determinato a far perdere l'innocenza, ad andare al di là del consentito. Ed eccole che, ben disposte su carta porosa, si mondano dell'esperienza vissuta, scordano la lascivia appena vissuta lasciando quel pochissimo unto che hanno raccolto nella loro prima esperienza, appena toccate dall'ardore della passione che forse ha lasciato in loro il desiderio di andare avanti, di scoprire mondi sconosciuti e meravigliosi.

Una spolverata di zucchero a velo e poi eccoci, arrivavamo noi, i razziatori, che con fauci bramose distruggevamo in un attimo tutta quella architettura fantastica. Non avete idea della fragranza, della leggerezza. Bastava toccarle con meno rispetto di quanto meritassero ed ecco, per punirti si sbriciolavano subito vergognose di essere state maltrattate. Si disfacevano in bocca lasciandoti un gusto di buono, mettendoti la voglia di prenderne altre, di continuare fino a quando non fossero finite. Di certo c'era un ingrediente segreto ed irripetibile. Credo di sapere quale fosse, ma sicuramente le chiacchiere di carnevale come le faceva la mia mamma, nessuno sarà mai più capace di farmele.


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2 commenti:

il monticiano ha detto...

Hai descritto poeticamente l'opera magistrale della tua mamma che sapeva fare le Chiacchiere - noi a Roma le chiamiamo frappe - come nemmeno il creatore di quella ricetta.

Enrico Bo ha detto...

@Monty - ahimé me le sogno di notte!

Where I've been - Ancora troppi spazi bianchi!!! Siamo a 114 (a seconda dei calcoli) su 250!