sabato 20 agosto 2011

Il tacchino.

C'era un tempo in cui il mangiare era un oggetto del desiderio, una cosa di cui si raccontava in termini favolistici rispetto alle ristrettezze di un presente difficile o di riferimento ad un passato prossimo di particolare scarsità. Adesso, in tempi di opulenza orgiastica in cui il problema è non riuscire a consumare le calorie ingurgitate, di cibo si parla in termini raffinati, che considera soprattutto la capacità di accostamenti indovinati e di gusti e profumi ricercati con cura, mentre allora, predominava la dimensione e la quantità, assieme alla presenza di qualche prodotto alla nostra apparenza semplice, ma un tempo desiderato a lungo e bramato proprio per la sua deprivazione. Quando ero bimbo si era appena usciti dalla guerra, con tutte conseguenze endemiche di fame e di scarsità di cibi, di tessere annonarie e di code per conquistare un etto di olio al mese. Giocoforza si sognavano scorpacciate a base di cibarie costose e forse un tempo più frequenti, ma ormai difficili da reperire. Le occasioni festive poi, coincidevano soprattutto con la necessità di un desco fuori ordinanza di cui si potesse parlare per mesi. Natale era di certo una di queste. La mia mamma e il mio papà di norma, facevano gli agnolotti, ma quell'anno, forse perché cominciava a esserci una qualche maggiore disponibilità, i miei decisero di fare, come si dice ad Alessandria, l'ov fora d' la cavagna

Non so come, attraverso qualche conoscente di campagna, a Natale in tavola ci sarebbe stato un ospite a me sconosciuto, il tacchino. Lo meditavano da un po' questo colpo grosso, i miei, ma le cose non erano semplici, forse allora i tacchini non si trovavano in regolare vendita al mercato, sta di fatto che l'animale bisognava allevarselo in casa in previsione della festa. Così un bel giorno arrivò da noi la pùla, così si chiama il tacchino nella nostra lingua, anzi la tacchina, giacché credo che fosse femmina. Lingua strana che non riesce bene a definire le cose esotiche ed estranee alla sua cultura e allora le assimila ad altre meglio conosciute deformandole per differenziarle. D'accordo il tacchino è un pollo grosso, ma quella sua femminilizzazione ha un ché di perverso e di maligno ad un tempo. La bestia che mi parve subito orribile, fu confinata nel gabinetto per tutto il mese di dicembre e alimentata a forza come un bimbo per il sacrificio. Io ne ero terrorizzato, tanto che non osavo avvicinarmi alla porta che lo teneva racchiuso, senza possibilità di fuga e manteneva me al di qua, salvo e protetto. Di notte, io dormivo in cucina su un divano letto, mi pareva di sentire sinistri gorgoglii provenire da dietro quella porta e forse, proprio da lì nacque la mia futura avversione per tutti i film horror. 

I miei si coccolavano l'idea del Natale sempre più vicino, in cui la nostra tavola avrebbe avuto l'onore di quell'ospite di riguardo; io giravo alla larga e cercavo di non pensarci. Qualche volta, mentre la porta veniva aperta, gettavo uno sguardo di sfuggita, con quel senso di orrore che ti spinge comunque a guardare e nello stesso tempo a distogliere immediatamente lo sguardo orripilato. Che flash spaventosi, una testa deforme dai colori malefici, quel collo deforme e bitorzoluto, quelle escrescenze volgari che pendevano qua e là, le penne diaboliche che si agitavano di continuo e soprattutto quel goglottare cupo e sinistro, amplificate dall'eco delle pareti. Non ricordo come risolsi le funzioni fisiologiche in quel periodo, ma escludo di essere entrato volontariamente in quell'antro di Satana. Poi accadde quel che doveva succedere, ma non so come, ho completamente cancellato dai miei ricordi, sia il momento della macellazione, che certamente sarà stato un rito salvifico, che il successivo banchetto, di cui si sarà parlato a lungo per i mesi successivi. Ancora oggi non amo il tacchino, chissà perché, il suo pulipulipù, mi incute sempre un certo imbarazzo. 


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2 commenti:

Sandra M. ha detto...

Ma vuoi mo dire che anche nel mio passato ci sia un'esperienza simile...anch'io non amo affatto il tacchino, sia dal vivo che nel piatto. E ..."una testa deforme dai colori malefici, quel collo deforme e bitorzoluto, quelle escrescenze volgari che pendevano qua e là, le penne diaboliche che si agitavano di continuo e soprattutto quel goglottare cupo e sinistro "...accidenti come lo descrivi bene!
Certo quei riti, riportati all'epoca , avevano davvero significati importanti. La mia mamma favoleggiava spesso di un salame mangiato "a rusgòun ed pòm" ( a torsolo di mela) subito dopo la guerra...

Enrico Bo ha detto...

@Sandra - credo che la fame patita durante la guerra abbia lasciato una atavica voglia di cibo, per cui non era festa se non ti ingozzavi a più non posso e questo è durato anni. Oggi è rimasto solo ai politici, cosa vuoi è un problema genetico.

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