venerdì 21 novembre 2025

Seta 54 - Nel canyon di Bayanzag

Parco di Bayanzag - Gobi - Mongolia - Giugno 2025 - (foto T. Sofi)
 


Ci alziamo con calma. Il cielo è di nuovo imbronciato e sembra non voglia saperne di migliorare. Davvero non siamo molto fortunati, perché se è pur vero che non fa caldo, in ogni caso non siamo ancora in piena estate, col sole sarebbe un'altra cosa. Abbiamo preso la direzione nord, quella che ci allontana dalle sabbie del Gobi. Il paesaggio è sempre piuttosto brullo e popolato di basse montagne nere ed arcigne, nelle quali alla fine ci infiliamo attraverso una spaccatura che dà accesso ad una serie di canyon rocciosi e poco profondi. Non si vede nessuno all'orizzonte. Di tanto in tanto, da uno sperone un po' più alto si leva in volo un'aquila dal volo lento e planato. Il rapporto che i Mongoli hanno verso questi volatili è molto particolare, in quanto ogni animale che vola ha una congiunzione speciale col cielo, che è parte della natura divinizzata nella teogonia sciamanica che imperava prima dell'arrivo del buddismo e che ancora regola molti dei rapporti tra questo popolo e la natura. In Mongolia non ci si nutre quindi di animali che volano, perché si ritiene che uccidere degli uccelli sarebbe una turbativa nel rapporto col soprannaturale. Naturalmente questo patto non include le galline che alla fine sono ritenuti uccelli sui generis. Tra tutti i volatili, l'aquila ha un posto particolare ed il suo volo lento e maestoso la rende la vera regina del cielo. 

Oltretutto questo rapporto particolarissimo si cementa ancor più in molte parti del paese, col fatto noto che questi animali sono utilizzati per la caccia. Tutto ciò viene solennizzato in autunno in un famoso festival che si svolge nella parte occidentale del paese e che è diventato una notevole attrazione turistica. L'aquila aiuta il cacciatore nella cattura di piccoli animali come topi, serpenti e le marmotte che qui sono numerosissime. Anche questo è un animale molto importante nell'economia mongola, infatti oltre a fornire carne e pellicce, assai apprezzate nel rigido inverno, produce un particolare olio che oltre ad essere utilizzato in cucina, ha il grande vantaggio di rimanere liquido anche a bassissime temperature, tanto che viene utilizzato dai guardiani delle mandrie che rimangono all'aperto in inverno per evitare i congelamenti del volto, per non parlare dell'uso contro le scottature, le malattie della pelle. E' inoltre usato nella conciatura delle pelli che rappresentano ancora una grande importanza nell'economia pastorale locale. Purtroppo la marmotta ha un piccolissimo difetto, che è portatrice della peste bubbonica, che è ancora endemica da queste parti e che si trasmette facilmente mangiando la carne di animali malati. 

Credo che se te la becchi non sia una cosa bella, anche se non siamo più nel 1300. Ma allontaniamo questi pensieri negativi e continuiamo a procedere lungo la pista tortuosa tra le montagne. Ad un tratto davanti a noi, seminascosto tra due rocce protese sulla valle che si aprono in una stretta spaccatura, compare una figura che sembra sorvegliarci dall'alto. Le orecchie aguzze sono tese ad ascoltare. Il pelo ispido e grigio ne gonfia il collo, mentre il muso è alto e rivolto nella nostra direzione come se volesse controllare le nostre mosse. Sembra annusare l'aria, il nostro odore se gli arriva, non gli piace evidentemente. E' un grande lupo delle steppe, l'altro animale iconico della Mongolia. Questo animale è una figura mitica, quasi divinizzata, emblema di forza e di coraggio, alla quale viene riconosciuta una importanza vitale nel mantenimento dell'equilibrio naturale in questo mondo. Essendo infatti in cima alla catena alimentare, elimina soprattutto gli animali deboli ed in eccesso e limitando il numero dei selvatici evita una eccessiva depauperazione degli scarsi pascoli, mentre rafforza la razza di quelli allevati eliminando i meno resistenti e facendo sì che la specie fosse continuata dai più tenaci, cosa che benché non detta sembra valesse anche per gli uomini. 

In effetto la tradizione attribuisce la passata potenza del popolo mongolo proprio al lupo, che rappresenta quindi una figura quasi divina rispettata per la sua forza ed il suo coraggio. Rimaniamo un poco a guardarlo, mentre rimane immobile ad osservarci. Poi quasi di improvviso, un lampo passa nei suoi occhi gialli, un bagliore vivo di orgoglio o di paura e d'un balzo sparisce dietro le rocce. Una presenza che non lascia indifferenti e con cui questa gente convive nei pascoli indifesi, negli accampamenti isolati e circondati da greggi difesi solo da grandi cani da guardiania che, se ti avvicini si guardano intorno con occhi bassi e un brontolio sordo che gorgoglia in fondo alla gola, pronti ad attaccare alla gola chiunque voglia penetrare il loro territorio e tu vagli a dire che non sei un lupo ma un cristiano. Intanto facciamo ancora un po' di chilometri e il cielo si rischiara. Adesso la steppa si è appiattita e di tanto in tanto compaiono gruppi di animali al pascolo. Lontanissime vediamo anche alcune gazzelle, che tuttavia mostrano di non fidarsi troppo della presenza degli umani e filano via a grandi balzi. Evidentemente è carne di qualità ben conscia della possibilità di finire nella migliore dlele ipotesi, su una griglia. 

Intanto siamo quasi arrivati al parco di Bayazag, un'altra delle meraviglie naturalistiche di questo paese, situata nel deserto di Bulgan, che tecnicamente fa ancora parte del Gobi. Ci fermiamo davanti ad un paio di gher, dove una famigliola ha allestito anche una specie di banchetto che offre qualche collanina ai turisti che passano, inclusi un po' di cristalli, rocce e piccole parti di fossili, perché da queste parti si sono trovati giacimenti imponenti di animali preistorici e altra roba che risale a decine di milioni di anni fa, tra i quali esemplari perfetti di velociraptor e uova di dinosauro, adesso conservati nel museo della capitale. Gli compriamo qualche cosa anto per far girare il business e poi via verso il parco dove arriviamo poco dopo. Dopo  l'ingresso ci incamminiamo per il sentiero che conduce ai cosiddetti flaming cliffs, una serie di dirupi in cui il terreno si frange verso la piana sottostante, prodotti dalle erosioni in una roccia estremamente plastica e friabile. Subito si entra un una sorta di piccolo canyon circondati da pareti rosso fuoco dalle forme fantasiose. Attorno a te si allineano pinnacoli e torri, ognuna delle quali con il suo cappello di roccia grigia più dura e resistente che ne ha determinato la formazione stessa. 

Più avanti maestosi calanchi hanno scavato i fianchi della collina e mostrano una serie di fenditure parallele come se le le grandi unghie di un drago si fossero accanite a ferire il monte alla ricerca di un tesoro nascosto. Si procede nel tortuoso sentiero per quasi un chilometro, di belvedere in belvedere, ammirando la selva di funghi e di guglie che ci circondano. Di certo tornare qui a distanza di anni significherebbe vedere uno spettacolo ancora diverso, tanto appare tenera la roccia che, sottoposta alla forza del vento e della pioggia che se pur scarsa, di tanto in tanto arriverà, e degli altri elementi naturali come l'escursione termica che sbricioli ancor di più le superfici per lasciarne i frammenti alla furia di Eolo, che se li porti lontano scoprendo nuove forme, nuove costruzioni fantastiche. Per premiare la nostra costanza è uscito pure un poco di sole che infiamma le pareti incavate delle rocce, formando chiaroscuri delicati ed artistici. Bisogna concludere che il posto merita la sfacchinata per arrivarci. Quando ce ne andiamo è ormai passato mezzogiorno e procediamo abbastanza velocemente verso nord nella piattezza dell'altopiano dove non riesci ad orizzontarti per mancanza di punti di riferimento. Solo di tanto in tanto qualche gher lontana e la pista che si snoda in larghe curve ed infiniti rettilinei. 

Ci sono ancora all'incirca 170 km per raggiungere la città templare di Ongiin Khiid o almeno quel che ne rimane e per arrivarci ci mettiamo quasi quattro ore. Questo doveva essere un complesso decisamente maestoso, del tipo delle città monastiche del Gansu e del Tibet, sorto attorno al 1600 con almeno tre gruppi separati con decine di templi che sorgevano in diversi punti tra le colline attorno al fiume che scorre più in basso e che ospitava oltre mille monaci nel momento del suo maggior fulgore. Tutto fu completamente distrutto dalla furia devastante del dittatore Choibalsan nel 1939, che ispirandosi alle direttive staliniane, non solo le prendeva alla lettera, ma per voler essere più realista del re, ne amplificava se possibile, le direttive. Fu un vero e proprio massacro oltre alla devastazione di un patrimonio artistico di notevole importanza, così di questa vera e propria città, rimase solo una massa di rovine fumanti, alcune centinaia di monaci furono uccisi, gli altri dispersi nelle steppe. Oggi dello splendore passato non rimane che qualche rudere di muro smozzicato e qualche moncone di stupa completamente distrutti. 

Dell'oro delle guglie, del biancore accecante dei chorten e delle pagode, solo il ricordo portato lontano dal vento teso della steppa. Solo, isolato su un rilievo, negli anni duemila si è tentata la ricostruzione di un piccolo tempietto che tuttavia non riesce neppure lontanamente a riportare la memoria del passato splendore. All'interno un bambino che sta lì con compiti di guardiania e che si preoccupa soprattutto che si paghi il biglietto di ingresso, infatti appena ci vede comparire sulla soglia, corre a chiamare qualcuno, che poi risulterà essere la madre bigliettaia, non sia mai che scappiamo via senza pagare, visto che questo sarà forse l'unico magro introito familiare della giornata. A fianco un basso locale, una stanzone o poco più che conserva poveri oggetti ritrovati nel sito, tankhe sbriciolate, tracce di sculture in legno corroso, simulacri di pietra più resistenti alle ingiurie del tempo e degli uomini. Una sensazione di abbandono e di tristezza infinta, in un paesaggio popolato dagli spettri del passato. Ce ne veniamo via con lo spirito acciaccato scendendo lentamente l'erta sassosa. Adesso ci aspetta ancora una lunga strada per raggiungere la meta di stasera. Ma al nostro mezzo invece ci attende una sorpresa. Il nostro Nyamkaa sta trafficando attorno ad una gomma. Accidenti abbiamo bucato e qui comincia l'Odissea.

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