mercoledì 8 dicembre 2010

Hotel Pekin.


Sono stato a Mosca per la prima volta nel 91. La situazione era irreale e nevicava fitto, nell'atmosfera di semioscurità latente di un novembre che preannunciava un inverno duro. La Moscova era ormai ghiacciata e le code che si formavano come per abitudine davanti ai negozi vuoti, nel lucore giallastro del primo pomeriggio, erano piene di volti stanchi e depressi, mentre le rare macchine giravano per il Kalzò lasciando una scia azzurrognola e puzzolente di carburante malato. L'atmosfera generale mi parve davvero cupa. Usciti dall'ufficio, percorrevamo a piedi le poche centinaia di metri che su un largo marciapiede ci portavano fino alla Gastiniza Pekin. La neve crocchiava soffice sotto le mie suole pesanti, mentre mi stringevo nella dublionka, con la shapka calata sulle orecchie, per trattenere il caldo dolciastro dell'ambiente da cui ero appena uscito.


Non facevo tempo a prendere freddo. Superata la grande piazza semideserta si aprivano, forzandole un po', dato che erano tutte sgangherate, le porte del vecchio hotel staliniano. Il più classico edificio del regime, uno dei sette di stile neoassiro, mutuati dalla visita newyorkese che il dittatore fece negli Stati Uniti e che scimmiottavano lo stile che tanto gli era piaciuto. Il Pekin era il più piccolo dei sette e forse il peggio riuscito con la sua decina di piani e le torri finali sproporzionate, decisamente il fratello minore anche rispetto all'Hotel Ukraina dall'altra parte del fiume, più arioso e composto. Ma la sensazione più tremenda ce l'avevi all'interno, superata la zona cuscinetto tra le porte che divideva la hall dalla piazza esterna cupa e coperta di neve. Le solite tristi incombenze al pesante bancone dove stanche addette ti facevano il favore di ritirarti i documenti vari e ti consegnavano di malavoglia il passport interno, poi te ne andavi verso gli ascensori , quasi tutti rotti per arrivare al tuo piano.


Qui, se avevi fortuna trovavi la dejurnaia, la capa del piano, il più delle volte addormentata su un divano di similpelle slabbrata e quando, incattivita dallo sgradito risveglio, ti consegnava la chiave, andavi, senza disturbarla più oltre, a cercarti la camera lungo gli enormi ed infiniti corridoi. Poi ti rinchiudevi nella stanza gigantesca. Tutto doveva essere grande e maestoso quando l'albergo era stato costruito; le dimensioni dovevano evidentemente risultare allo stesso tempo monito e minaccia per chi ne usufruiva o semplicemente le guardava; testimonianza di grandezza, ma anche di severa attenzione. Occhio a quello che fai che il grande fratello ti vede e ti giudica. In ogni momento. Questa era la sensazione. Inoltre si favoleggiava che dappertutto ci fossero microfoni e le leggende in tal senso si sprecavano, anche se nell'agonia finale del regime, credo che tutto fosse un po' lasciato a sé stesso e l'incuria generale avesse invaso anche questo aspetto della vita politica.


Al piano terra, in fondo c'era il ristorante, una misera e scarna interpretazione della cucina cinese, sempre scarsamente fornito anche di quei tre o quattro piatti che il deludente menù proponeva, su tovaglie macchiate e stazzonate. Era frequentato di malavoglia dai pochi clienti dell'hotel che al mattino, ci facevano una tristissima colazione a base di cetrioli e smietana, mentre un colossale (tutto doveva essere grande) samovar di acciaio troneggiava in un angolo della sala per il thé. Al sabato sera arrivavano gruppetti o coppie di ragazzi russi per festeggiare qualche compleanno, riempiendo qualche tavolo qua e là, i maschi con le giacchette lise e strette con una rosa in mano, le ragazze diafane e bellissime con le camicette di poliestere trasparenti e le scarpe col tacco che si erano portate nel sacchetto di plastica per cambiarsi gli stivali da neve con cui erano arrivate dalla fermata della metro poco lontana. Aspettavano a lungo dopo l'ordinazione ai camerieri svogliati, ma non sembrava loro importare. Poi si mangiavano con cura gli involtini primavera rinsecchiti e il pollo alle mandorle freddo, guardandosi negli occhi, inconsapevoli e forse disinteressati ai cambiamenti epocali e ai durissimi anni che stavano alle porte, al di là del grande ingresso, mentre la neve continuava a cadere stanca, a soffocare i pochi rumori della notte sovietica.



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6 commenti:

Mia ha detto...

Sono stata anch'io a Mosca nel 90 ed ho vissuto le stesse tue esperienze.Quel senso di grandiosa tristezza ancora me lo sento addosso.

Sandra M. ha detto...

Idem per me, come per Milena.
Hai descritto "dadio".

Enrico Bo ha detto...

@mimi - accidenti avevamo venti anni di meno!

@Sandra - è la nostalgia!che ci vuoi fare

Lara ha detto...

Per me che non sono mai stata in Russia, questo è un post molto interessante, che sa calare nell'atmosfera in modo magistrale, come sempre ottieni tu quando scrivi.
Però mi è venuta questa curiosità: in quegli anni si parlava spesso della fame in Russia, poi col, tempo, non ne ho più sentito parlare.
La situazione sarà migliorata?
Ciao Enrico, grazie e buona serata!
Lara

il monticiano ha detto...

Un post affascinante come al solito. Ci sono luoghi del mondo dove non sei stato?

Enrico Bo ha detto...

@lara - Fino ai primi anni 90 la fame era teorica, negozi vuoti , ma frigoriferi pieni, la roba non arrivava ai negozi ma tutti avevavo qualche parente o amico che la rubava direttamente in fabbrica e poi se ne buttava via metà, poi con la caduta del regime e il libero mercato è venuta la fame nera per una decina di anni, adesso le cose piano piano si stabilizzano anche se per chi è in situazione di debolezza (pensionati , chi non ha imparato a cavarsela)è ancora piuttosto dura.

@Monty - a ribentornato. Purtroppo sono ancora innumerevoli i posti che mi piacerebbe vedere prima di lasciarvi, ma il tempo va così in fretta...

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