sabato 29 novembre 2008

La lumaca

Per strada non si sente parlare che della tragica situazione economica in cui tutti si ritrovano a causa della crisi finanziaria che ha travolto le economie mondiali. Le casalinghe guardano con occhio flaccido i peperoni sulle bancarelle e i pensionati non trovano più cantieri sulle cui transenne appoggiarsi per criticare l'andamento dei lavori. Vogliamo esaminare con occhio obiettivo la situazione? Per la quasi totalità degli italiani questa congiuntura è nei fatti indifferente o addirittura migliorativa. Non vi sembra? Allora esaminiamo il fatto che rispetto all'ultimo anno i prezzi dei carburanti sono decisamente diminuiti, che le tariffe legate all'energia sono stazionarie o in leggera diminuzione, parimenti stazionari (stagnazione, non è questa la grande paura?) la maggioranza dei prezzi, immobili in calo del 10% e così via. Allora per 20 milioni di pensionati e per la quasi totalità del lavoro fisso dipendente, queste sono ottime notizie dopo anni di crescita del PIL (e di contemporanea diminuzione del loro potere d'acquisto) secondo un noto assioma per cui l'economia andava benissimo ma la gente stava peggio. Se non capitano cose apocalittiche (guerre globali o similia, per carità possibilissime e già accadute in condizioni simili quando sono i potenti ad essere nella cacca) gli unici a dover soffrire nei prossimi due anni saranno i precari e coloro che in seguito a questa mancanza di fiducia e calo dei consumi perderanno il lavoro. Una cifra ragionevolmente pensabile di un milione di persone. E' qui allora che un governo responsabile dovrebbe indirizzare ogni iniziativa (rilancio opere pubbliche) e ogni euro di aiuto, che sarebbe, visto il bisogno, immediatamente tradotto in consumi. Queste saranno le persone da aiutare veramente, le reali vittime di qusta situazione, che leggi mal interpretate e colpevolmente lasciate incomplete hanno dilatato. Tutti gli altri non hanno nessuna ragione reale di lamentela, anzi. Invece si sprecheranno risorse in mille rivoli e rivoletti, in elemosine da ritorni elettorali, lasciando nel bisogno i pochi che hanno veramente bisogno, dando retta ai piagnistei di chi sulla crisi ci marcia. Magari andando a coercire chi ha raddoppiato il prezzo di pane e pasta (dati ininfluenti sulla vita reale ma molto psicologici) e similari e non li ha riportati come prima, adesso che le materie prime sono ritornate ai prezzi quo ante. La vituperata globalizzazione aiuterà pian piano a rimontare la crisi e per tutti gli altri, stop al pianto greco, un po' meno corsa e un po' più di attenzione determinata non farà affatto male. A questo proposito, dopo questo pistolotto, vi voglio lasciare con un appropriato e delizioso haiku degli albori dell'800 di Issa Kobayashi .

Oh lumaca,
scala il monte Fuji,
ma piano, piano!

venerdì 28 novembre 2008

Da Mama Otìlia

Tra un po' ci sarà almeno un metro di neve. Fa venir voglia di sole e di gamberi in salsa creola. Di Brasile e di churrasco sulla spiaggia di Ipanema. Certamente l'esperienza della carne brasiliana è indimenticabile, ma in ogni paese ci sono aspetti della cucina che possono stordirci . Fernando, che mi aveva iniziato ai meandri della culinaria paulista, mi aveva parlato con cautela della feijoada, un piatto da iniziati, diceva, per palati particolari. Non mi arrendo facilmente davanti alle più importanti sfide della vita e pertanto dopo alcune insistenze e diversi distinguo si decise per l'avventura. E' un piatto povero, tratto comune a molte culture e ideato dagli schiavi che avevano a disposizione solo fagioli e scarti di maiale. La base è costituita da fagioli neri e uno stufato di orecchie, carne secca, coda, lardo, piedini, cotiche, pancetta ed altre parti meno nobili di cui non voglio sapere nulla di più, che in una giornata intera di cottura a fuoco lentissimo in una grande terrina di argilla si sciolgono quasi completamente fino a formare uno zuppone violaceo-marrone denso e promettente. Qui nascono i primi problemi. Infatti le poche cucine che si cimentano con la preparazione tradizionale, la propongono solo al venerdì in quanto sembra che dopo averne goduto, sia necessario almeno un intero week end di riposo e meditazione. Finalmente individuato il nostro luogo di perdizione, un profumato venerdì sera, Fernando ed io scostammo la tenda colorata che immetteva nella taverna di Mama Otìlia, un piccolo ambiente pieno di sentori e di risate leggere. Su un tavolo di legno scuro coperto di una tovaglia a quadroni, ci aspettava l'aperitivo fumante, il brodo di cottura dei fagioli servito in bicchierini di coccio con rondelle di banane secche. Saporito e intrigante aprì lo stomaco alla successiva delizia. Arrivò infatti una grossa zuppiera di terracotta posta su un fornellino, in cui sobbolliva lenta, la spessa se pur liquida zuppa bruna. La sua superficie veniva gonfiata da un lento fluire di bollosità profonde come in una pozza di fango bollente dei Campi Flegrei. Per arricchire ed addensare meglio l'ambrosia che a grandi cucchiaite ci versavamo delle ciotole di terra, ci fu fornita della farina di manioca e delle patate dolci bollite. Devo dire che raramente un insieme così ricco e completo di sapori e di sensazioni mi colpirono, dal fresco e smaliziato pizzicore del peperoncino, ai forti sentori del suino, al ricco sapore delle parti salate, alla croccantezza della pelle e delle cartilagini, alla consistenza sapida dei fagioli ormai consunti nel sabba orgiastico suino. Mangiavamo lenti ma con costanza, Fernando crollò presto; io invece non riuscivo a staccarmi da quell'ambrosia che continuavo a versarmi di tanto in tanto, rabboccando con un grosso mestolo di legno. Man mano che il tempo passava, sguardi di stupore provenivano non solo più da Fernando ma anche dalla imponente padrona del locale, ma era come una droga; non riuscivo a smettere di inalare aromi e a cessare quella dipendenza. Quando infine crollai, ci trascinammo verso il riposo del giusto con fatica. Fernando temette che non avrei superato la nottata. Fu un duro week end. Adesso, che dopo anni posso dire di avere completato la digestione, mi è rimasta la saudade di quel sapore e del sorriso di Fernando che come tutti i brasiliani parla sottovoce, perchè non si grida se si è sereni.

giovedì 27 novembre 2008

Un italiano vero

Karachaevo-Cherkesskaja è una piccola repubblica semiautonoma nel Caucaso del Nord a due passi da Ingushetia e Cecenia. I Circassi, una delle litigiose etnie montanare che la abitano, sempre in lite con i vicini, sono fieri e certi dei loro diritti (e quasi sempre armati, tanto per sostenerli meglio). Nel '92 l'URSS stava per tirare le cuoia, accartocciandosi sulla incapacità di rinnovamento della sua gerontocrazia (ehehehehe, bisognerebbe imparare dalla storia , anche recente) ed io, con l'amico Evghenij, ero a Cerkiesk per un bel contrattone in una fabbrica di vodka. Terminate le trattative, ce ne andammo a pranzo, ma a quel tempo i ristoranti erano rarissimi in Russia, tantomeno in quell'avamposto montanaro. Risultò che l'unica opzione era un locale notturno che aveva anche un servizio di ristorante. Data la scarsità di clienti avrebbe aperto solo per noi e quanto ci presentammo all'una, puntuali come gli storioni del Volga, le inferiate del bunker (questa almeno era l'apparenza) erano ancora chiuse. C'erano 15°C sotto zero e dopo aver suonato una campanella chioccia, battevamo i piedi sul cemento ghiacciato, io nella mia calda dublionka, invidiato da uno Zhenija imbozzolato in un impermeabilino leggero e una piccola shapka di similpelle in testa. Dopo poco si aprirono le sbarre e comparve un armadio in camicia nera e gessato grigio molto famiglia Soprano ed un preoccupante gonfiore all'altezza dell'ascella sinistra. Due fessure senza espressione al di sotto dell'unico sopraccilio che inquadrava la fronte rugosa ci esaminarono lentamente, poi le carnose labbra caucasiche bisbigliarono: " Italijanzi?". "Da" fu la nostra stringata risposta imposta dalla temperatura che consigliava di accelerare i tempi. Mentre la nostra preoccupazione aumentava, l'armadio si piazzò davanti alla porta con le gambe ben piantate per non perdere l'equilibrio e dopo averci fatto segno di non aver fretta, piegò il testone leggermente di lato, si mise una mano sul cuore, proprio sopra il gonfiore sopspetto e con voce stentorea cominciò in un italiano inficiato dal pesante accento : "Lasciatemi cantare, con la chitarra in mano, lasciatemi cantare, sono un italiano, ecc." La performance durò ben oltre i tre minuti canonici impiegati da Toto Cutugno e quando arrivò al termine il cerbero aveva le rosee gote imperlate di sudore nonostante la camiciola. Poi ci strinse a lungo la mano e ci accompagnò all'interno nei meandri del night club deserto. Mangiammo Italijanski salad , borsch e sashliki di barano molto teneri. Il montone del Caucaso è noto per la sua carne delicata.

mercoledì 26 novembre 2008

Il terrazzo



Il Tai Ji Quan viene definito anche come la meditazione in movimento. Quando si passava vicino ad un giardino pubblico in ogni città della Cina al mattino presto, si vedevano gruppi di persone, anziani con la giacchetta blu di Mao, ma anche giovani manager incravattati (ad Hong Kong) che, posata a terra la 24 ore si muovevano sincronicamente eseguendo le sequenze delle forme Yang. Per curare il corpo, la tonicità della muscolatura, la scioltezza delle articolazioni, la coordinazione del movimento, ma soprattutto l'armonia e l'equilibrio fisico e mentale. Una continua ricerca di sè che allontana la malattia, consueta nella ipocondriaca filosofia orientale. Così una sera, dopo una ossessiva giornata di lavoro in una stagnante umidità appiccicosa, seguii un mio amico che perfezionava il suo Tai Ji da un famoso maestro di Mong Kok. E' questo uno dei luoghi simbolo della fine dell'umanità per sovrappopolazione. Un quadrato di circa un kilometro dove vivono oltre un milione di persone. Un dormitorio di case di 25 piani con microalloggi, affastellate ordinatamente, in cui le persone si ammassano, cucinano, mangiano, dormono a rotazione, in un caldo da girone dantesco, su un pubblico palcoscenico di uno spettacolo giornaliero a cui nessuno fa caso. Un inferno orwelliano a cui l'uomo si abitua evidentemente. La palestra non era l'ombroso cortile di un tempio taoista, come nei film di Kung fu, ma la piatta cima di uno dei palazzi, da cui a stento si vedevano le luci della baia resa nera dalla notte senza stelle. Dai meandri venivano suoni di televisori al massimo del volume, voci di litigi, odori pesanti di pesce fritto nel wok, calore sudato di umanità stanca. Confluivano in lente volute sul tetto aperto e limitato da un basso parapetto su cui una decina di allievi perfezionavano i loro movimenti. Mi sedetti in un angolo cercando di non guardare sotto, osservando gli studenti maneggiare con perizia, la pesante sciabola o il lungo bastone. Uno provava e riprovava le posizioni di equilibrio della spada, mentre altri due con il mio amico eseguivano una sequenza a mani nude. C'era un'atmosfera di concentrazione nell'aria, ignara dell'umanità sottostante ed incurante della cappa umida e stagnante della notte. Il maestro, che aveva dato alcune distratte indicazioni all'inizio della lezione, era accosciato su un seggiolino sgangherato vicino al parapetto, appoggiato ad una tavola che sporgeva nel vuoto e scorreva con intensità le colonne di un giornale di scommesse dei cavalli, lanciando di tanto in tanto qualche occhiata distratta. Non mi stava facendo una grande impressione. Poi, posato il giornale con un grande sbadiglio, si alzò aggiustando il laccio dei pantaloncini e infilandovi il bordo della canottiera sudata. Era piccolino e grassoccio, quasi calvo, con la pancetta tipica del bevitore di birra. Nel momento in cui si alzava avvenne la trasformazione. Il suo passo era morbido, armonico, incongruo con la sua conformazione fisica. Passò da uno all'altro degli allievi, correggendo le posizioni, dimostrando i movimenti, eseguendo parti di sequenze con un equilibrio di postura ed una scioltezza del gesto che mi assorbirono completamente. Si sentiva il Qi fluire in lui con forza, ma ogni movimento appariva facile, leggero, fluido ed eseguito senza fatica, naturalmente come deve essere il Tai Ji. Una sensazione di armonia che annullava completamente l'ambiente circostante. La lezione finì e nel cigolante ascensore scendemmo lenti i 25 piani per andare al ferry che ci avrebbe riportati a Weng Chai. Il Tai Ji era ormai dentro di me. Il mattino dopo, alle 6:00, ero già nel Victoria Park a fare i primi movimenti.

martedì 25 novembre 2008

Fatalità

Natale si avvicina. Ieri le prime avvisaglie, con qualche spruzzo di neve attorno alla città. Le strade si accendono di luci, un po' più fioche degli anni scorsi, in verità e si deve sentire nell'aria un po' più di ottimismo consumatorio. Probabilmente, subito dopo Natale, oltre un milione di precari rimarranno senza lavoro e presumibilmente anche senza un soldo in tasca. Una tragica fatalità. Ma in parte si è già provveduto con la detassazione degli straordinari.

lunedì 24 novembre 2008

Pensiero in una notte quieta

Questa notte una spruzzata di neve ha imbiancato i tetti, leggera. I miei amici erano in montagna ieri e dalla loro finestra si vede il cielo. Così oggi ancora vena (o svenevolezza) poetica con una famosa quartina di Li Po, anche se la traduzione è un po' maccheronica.

床前明月光

疑是地上霜

舉頭望明月

低頭思故鄉

Davanti al mio letto il luccichio della luna
copre di brina il pavimento.
Alzo la testa e osservo la luce lunare,
abbasso la testa e ripenso al paese d'un tempo.

domenica 23 novembre 2008

Égarés


Le Temps nous égare
Le Temps nous étreint
Le Temps nous est gare
Le Temps nous est train.

venerdì 21 novembre 2008

La crisi

Oggi sono tutto scombussolato. E' da qualche giorno che non dormo più bene. D'altronde chi dormirebbe bene con questo tarlo che che rode, rode senza lasciarti tregua. Vorrei pensare ad altro, ma basta che mi guardi intorno e questo senso di incertezza mi coglie alla gola, mi prende dietro il collo, mi lascia esausto fisicamente come dopo un duro allenamento di Kendo. Quando l'opzione di scelta continua a manifestarsi davanti ai tuoi occhi, come decidere, se tutto questo potrebbe minare seriamente il tuo futuro, definire l'andamento delle soluzioni e del benessere di chi ti starà accanto. Milioni di persone, come me, in tutto il mondo devono affrontare un dilemma simile a questo. Anche dalle loro scelte può definirsi un futuro diverso per i mercati, movimenti economici in una direzione o nell'altra. Però il tempo dell'indecisione sta per scadere, comunque bisogna procedere, andare avanti, scegliere un'alternativa, un modo per affrontare ed aggirare la crisi, se ancora possibile, superarla. Ma quale opzione scegliere, difensiva o aggressiva? Non chiedo consigli perchè è anche difficile chiedere in queste cose, meglio sbagliare da solo, che pentirsi di aver dato retta agli altri. Mi prendo ancora un po' di tempo, poi tra poco uscirò e lì dovrò decidere il futuro mio e di chi mi sarà vicino. Vaschetta al fiordilatte o al limone per il sorbetto da preparare agli amici sabato?

giovedì 20 novembre 2008

Estinzione

Un amico mi manda questa testimonianza:

- Come forse qualcuno sa (perché me ne vanto spesso) ho una lavatrice vecchia di 15 anni che fa benissimo il suo dovere. Qualche giorno fa si è bloccata, e pensando fosse giunta la sua ora mi sono rassegnata a sostituirla.Vado da Trony, poi da Mediaworld. La scelta è fra decine e decine di lavatrici "moderne", piene di ogni sorta di ammennicoli, con mille programmi surreali quali "igienizzazione bavaglini" o "risciacquo fodere auto" o "delicato per sottovesti nere". Non mi servono, e non voglio microchip e schede che si sfasciano a guardarli. Chiedo all'addetto:"Mi mostra qualche lavatrice meccanica?"Risposta: "Mi spiace, sono tutte elettroniche."Io: "Ma mi va bene anche una cinese da 200 euro, o una Miele da 1400, basta che sia meccanica!"Lui: "Non esistono. Non le fanno proprio più." Torno a casa depressa, poi mi ricordo di un negozietto polveroso in zona, con l'insegna "Riparazione elettrodomestici". Vado, e conosco Fausto.
Ora so cosa immaginate: il vecchietto simpatico, portatore di un'antica sapienza artigiana ormai scomparsa, ultimo reduce della filosofia di vita dei nostri nonni. Invece no. Fausto ha il codino, l'orecchino, ha trent'anni ed è piuttosto incazzato per lo spreco che vede in giro. Mentre armeggia finalmente sulla mia lavatrice, mi spiega: "Le lavatrici elettroniche hanno schede che si rompono non appena prendono una bottarella. Il ricambio costa due o trecento euro, così conviene ricomprarla nuova. Ormai le lavatrici si cambiano ogni tre o quattro anni. Invece questa lavatrice che hai è eterna: ha pochi pezzi meccanici, quando se ne rompe uno si cambia con trenta o quaranta euro, va avanti decenni." Poi si ferma, e mi sussurra: "Ma se ti servirà una lavatrice meccanica, noi le abbiamo. Teniamo un'officina apposita: le ritiriamo, le rimettiamo a nuovo e le rivendiamo. Sono perfette, costano 150 euro." Quanto un'elettronica cinese. Non ci credo, mi viene la frenesia dello shopping, vorrei andare a scegliermi sottobanco una bella lavatrice "nuova" annata '99, magari con una centrifuga migliore... Ma non serve: Fausto ha finito, la vecchia Candy ha un tubo nuovo e torna a lavare perfettamente. Mentre esce mi avverte: "Ripariamo tutto, lavatrici, lavastoviglie, aspirapolvere, e anche i ferri da stiro". Lo vedo andare via con la sua cassetta dei attrezzi e il suo codino, e penso che un ferro da stiro nuovo costa appena 15 euro. Buona fortuna Fausto, nella tua resistenza quotidiana contro un sistema assurdo e molto più grande di te. E grazie per il servizio che rendi. -

Ora, come si fa a non sentirsi vicino a questi assunti. Anche io, d'istinto, con le lacrime agli occhi vorrei abbracciare il buon Fausto, ma cercando di andare oltre il sentimento e guardando un po' al di là della siepe, se si vuole con mente sgombra da preconcetto, bisogna considerare che il sistema su cui è fondata la nostra civiltà, a cui nessuno vorrebbe e nemmeno potrebbe rinunciare, è fondato e funziona sul consumo. Fa bene alla coscienza sognare che la via di Fausto ci salverebbe (specie se la percorressero quei rompiballe di cinesi), ma la crisi di questi giorni ci mostra l'evidenza che quando molla il consumo (perchè la gente non ha più i soldi per consumare, non certo perchè sceglie di non farlo) crolla il mondo, specialmente di chi già sta male; milioni di disoccupati, gente che perde la casa, il lavoro, tutto quello che ha e che non vuole perdere a nessun costo. Non credo che sia possibile scegliere, la nostra specie è destinata all'esaurirsi delle risorse ed all'autodistruzione secondo la sindrome pasquiana. Fausto nella realtà, col suo snobismo verso i prodotti cinesi, tipico del ricco che fa il naturale, il biologico, l'adoratore di un buon tempo che non è mai esistito, si è già estinto.

mercoledì 19 novembre 2008

Nostrano è più buono

Sono andato al mercatino dei contadini ed evitati accuratamente come di consueto, i banchetti che proponevano prodotti "biologici" e compagnia bella, mi sono lasciato incantare da dei bei peperoni rossi e delle magnifiche pere Abate. -Tutta roba nostrana, ehehe- mi dà di gomito il furbacchione dalla pelle bruciata dal duro lavoro dei campi, alleggerendomi in modo consistente il portafoglio -Mica roba che arriva dal sud...- e carca la dose. Mentre mi allontano non riesco a fare a meno di mettere in moto il cervello, spesso in stand by, un mio antipatico vezzo. Mi ricordo che tempo fa, proprio nel profondo Sud, avevo fatto un acquisto similare da un collega del sopradescritto agricolo e anche lui, con diversa intonazione vernacolare mi aveva sottolineato: -Tutta robba nos'trana ah, il megghio che ci sia.- Ma allora qual'è il nostrano migliore? Non c'è contraddizione di termini? Allora tutto è migliore (30 e lode politico) purchè sia a kilometri zero? Ma perchè mi volete sempre prendere per il naso.
Tutto questo mi riporta ad un fatto occorso ad una mia amica in Bretagna, terra nota oltre che per les fruits de mèr, anche per le mele ed il sidro delizioso. Bramosa di assaggiare le appunto saporite e giustamente famose pomacee, acquista al mercatino un paio di kg di mele, non grandi (giustamente) ma all'apparenza gustose. Ragazzi! Una squisitezza; raramente aveva assaggiato qualcosa di meglio. Profumate e dolci al punto giusto, croccanti al morso ma delicate e morbide al palato, tando da tornare due giorni dopo a ripetere il rifornimento. Orrore, un più attento esame della merce dello stesso banchetto evidenziava senza ombra di dubbio un cartellino seminascosto che recitava subdolo "Product of Argentina"! Che delusione. Subitaneo cambio di banco truffaldino e nuovo acquisto di mele finalmente garantite nostrane, appunto.
Immangiabili, una vera schifezza. Per forza che poi ci fanno il sidro.

martedì 18 novembre 2008

Dytiscus

Nel GuangDong l'autunno non porta colori forti e contrastati. La calura estiva si stempera a poco a poco nell'umidità arrogante ed intrusiva che incolla la camicia alla pelle. Anche le serate, se pure meno afose, invitano alla ricerca artificiosa di un'aria condizionata non troppo siberiana. Quella sera di ottobre, vicino a Guang Zhou, due importanti clienti mi avevano invitato a cena in un lussuoso ristorante del porto fluviale. Il mio amico che mi accompagnava, ci fece strada nella immensa hall luccicante al cui centro troneggiavano decine di acquari in cui nuotavano pigramente ogni sorta di pesci. Grassi branzini, orate colossali e molti altri a me poco conosciuti, assieme a molluschi di dimensioni inquietanti, abaloni dalla conchiglia iridescente, cetrioli di mare, vongole giganti, granchi rossi dalle chele mostruose. Al centro troneggiava un acquario con aragoste di dimensioni mai viste, cagnolini antennuti che muovevano pigramente le appendici. Pensai che si stava mettendo bene, ghiotto come sono di seafood e con il contratto già firmato in tasca. Ci accomodarono in un salottino riservato e dopo la consueta lunghissima consultazione per la scelta del menù, fanciulle in costume arrivarono con vassoi di antipasti. Dopo i consueti convenevoli e brindisi con vino di riso, cominciammo a girare la ruota centrale caratteristica dei ristoranti cinesi, per pescare dai piatti comuni. Gli appetizer non erano poi così allettanti, arachidi al curry, zampe di anatra bollite, ginocchia di pollo maniacalmente allineate, pelle secca di maiale in aceto, fettine di uova dei 100 anni dal tuorlo nero-blu, traslucide meduse in salamoia, insalata di alghe et similia. Piluccai qualcosa in attesa del piatto forte che tardava ad arrivare, tra sorrisi di circostanza. Finalmente due inservienti spalancarono la porta e una giovine con un bellissimo vestito rosso tradizionale fece il suo ingresso trionfale con un gran piatto che sistemò al centro della ruota del tavolo tra le manifestazioni di ammirazione dei miei anfitrioni. Fui colto di sorpresa, ma riuscii ugualmente a manifestare un senso di grata e consapevole approvazione. Al centro del maestoso piatto di portata, occhieggiavano in sostituzione delle sperate aragoste molte decine di grassi, tondi, neri e ben torniti scarafaggi fritti (Dytiscus latissimus). Concordo col fatto che fritta è buona anche una ciabatta, ma tentai di esimermi più volte, facendo girare la ruota per allontanare da me l'amaro calice, ma nessuno si serviva ed il piattone dopo aver girato si fermava invariabilmente davanti a me, mentre tutti mi guardavano sorridendo in attesa che l'ospite d'onore si servisse per primo. Cercai di dire che non avevo fame, che ero già satollo per le troppe zampe di anatra mangiate e che la pelle delle ginocchia di pollo mi riempiva molto, ma l'amico mi fece chiaramente capire che tutti si aspettavano le mie mosse e che non si poteva essere scortesi e fare figuracce. Così mentre sei fessure sottili seguivano con attenzione i miei movimenti, traslocai, usando con perizia le bacchette, una dozzina di animali nel mio piatto e, sotto osservazione continua, cominciai il fiero pasto forbendolo intanto delle zampine che, essendo fritte cadevano facilmente senza dare fastidio. Seguendo le istruzione aprii le elitre con cura e succhiai in modo avido, tra l'approvazione generale il contenuto giallognolo e sodo. A questo punto l'operazione era sdoganata e tutti si diedero un gran da fare per sbarazzare il piatto. Come per i gamberetti si lavora molto per mangiare poco, ma alfin giungemmo al termine e potemmo finalmente suggellare la serata con un bicchierino di grappa di riso in cui con grandi cerimonie venne sciolta una bile di serpente che diede al liquido un bel colore verde smeraldo. Un amaro deciso per digerire la cena. Salutammo i nostri ospiti cordialmente e ce ne tornammo in albergo dove tentai di riposare. Fu una notte inquieta, ma il mio amico Ping mi disse che per la mia salute quella cena sarebbe stata una mano santa.

lunedì 17 novembre 2008

Sekigahara

Mi domando spesso quale sia la ragione per cui sono sempre stato attratto dalla cultura orientale. Ho praticato tecniche del corpo, ho provato l'origami e ne ho tentato di approcciarne le lingue. Se uno ci credesse, una risposta potrebbe ritrovarsi in una vita precedente trascorsa come samurai. Erano gli anni del periodo Azuchi-Momoyama e fin da piccolo ero stato addestrato verso il mio destino, diventare un guerriero, un bushi. L'uso delle armi e delle forme di lotta a mani nude; l'arco, il cavallo e il terribile ventaglio da guerra, ma anche la calligrafia e la pittura, le peonie e i bambù in particolare che amavo stendere sulla carta sottile con larghi colpi del pennello a china. Ma soprattutto il bushido, la via, il codice di comportamento che un samurai deve tenere per il rispetto di sè stesso. L'arte che avevo studiato più a fondo era lo iaido; come estrarre la spada ed sferrare il primo colpo fatale il più rapidamente possibile. Il mio maestro mi aveva dimostrato più volte che l'abilità nel kenjitsu, la tecnica della spada, se pure importante diventava secondaria dopo che il primo colpo devastante era andato a segno. Erano tempi violenti e si intuiva nell'aria che stava sopraggiungendo un grande cambiamento.

Appartenevo al clan dei Toyotomi e se pur ancora giovane, avevo poco più di venti anni, con un gruppo di uomini fidati, avevamo dormito tra i canneti fangosi di Sekigahara alla base delle alte colline. In quell'autunno inoltrato, mentre le foglie degli aceri montani erano ormai rosso vivo, era piovuto per tutta la notte e le pesanti brume mattutine si muovevano lente, nascondendo uomini e cavalli, ma il senso di oppressione che era nell'aria, faceva presagire che quella sarebbe stata, forse la più sanguinosa battaglia della storia del Giappone. Non ero mai stato in battaglia, né avevo mai combattuto per la vita, ma non temevo di perderla. Era il mio destino e le lunghe ore quotidiane trascorse ad addestrare il corpo e la mente mi rendevano pronto e sereno. Arrivarono di colpo, uscendo come fantasmi dalla nebbia. Un gruppo di armati con le insegne di Toyotomi Hideyoshi si gettarono urlando su di noi con le katane alte sul capo in posizione jodan. Rimasi fermo, pronto ad estrarre, la mano sinistra sul fodero, la sinistra tenuta saldamente sull'impugnatura appoggiata alla tsuba. Potevo vedere quanto stava per accadere.
Mentre il primo uomo si scagliava su di me, il mio corpo si sarebbe spostato leggermente sulla destra mentre la lama sarebbe uscita senza fatica e con un leggero arco l'affilata parte terminale avrebbe colpito di netto al collo nello spazio libero dalla protezione dell'armatura, poi il colpo proseguiva mentre il mio corpo si spostava in avanti e affondava nel ventre del secondo guerriero, due passi indietro. Avevo provato quella tecnica migliaia di volte nel dojo del castello. Mentre la distanza tra di noi si faceva perfetta per il colpo, iniziai la tecnica. Ma il laccio che legava la mia akama da combattimento era troppo lungo e si impigliò per un attimo alla tsuba, la lama, dopo il primo piccolo tratto iniziale rimase ferma, bloccata, senza riuscire a compiere l'estrazione, la sua anima soffocata nel fodero, il suo desiderio frustrato. Sentii più che vedere l'acciao della katana del mio nemico che si abbatteva su di me tra il capo e la spalla. Il filo perfetto dell'arma che qualche maestro forgiatore aveva temprato a lungo nell'acqua gelata di un torrente tra i monti del Fuji, penetrò a fondo nel mio corpo. Così io, Minotori Katamatsu, non ebbi neppure il rammarico di morire.

domenica 16 novembre 2008

Competizione e competitività

Il competere è la grande maledizione dell'umanità. Da un lato non si può negare che sia stata la molla dell'evoluzione che ha fatto trionfare la specie e abbia fatto avanzare la civiltà. In ogni caso giustifica la sopraffazione di una cultura sulle altre, che poi a poco a poco, scompaiono o vengono assimilate. Il competere per arrivare primi o anche solo per essere più efficienti, è glorificato dal nostro modello di sviluppo. Bisogna correre, lavorare di più degli altri e meglio, per batterli, per sopraffarli. Questa necessità spinge inevitabilmente ad oltrepassare i nostri limiti e se non si riesce bisogna comunque farlo anche a costo di ricorrere all'illecito, nello sport come nel lavoro, perchè comunque battere gli altri è più importante della serenità del fare bene le cose. Tutto questo genera sviluppo e miglioramento della specie nel suo complesso, ma è fonte di infinita infelicità per il singolo. Genera solo e comunque insoddisfazione, risentimento, accidia e male di vivere. Vincente è bello, perdente è un insulto, un marchio di infamia. Ma tutti sono perdenti e infelici, uno solo vince e solo per un giorno nella maggior parte dei casi, poi anch'egli precipita nella massa e da effimero winner diventa loser, la banale normalità. E anche in quell'unico istante di supremazia, non c'è gioia, serenità, c'è solo il piacere infame della sopraffazione degli inferiori. Forse l'evoluzione ha connaturato questo elemento tragico nella nostra specie. Diceva Gengis Khan: - Non c'è nulla di più esaltante per un uomo, che vedere il nemico inginocchiato ai propri piedi, ucciderne i figli, violentare le sue mogli, rubare i suoi cavalli.- In tutto ciò è racchiuso il successo della nostra specie. Le culture che facevano della felicità dell'uomo il fine ultimo, sono state spazzate via e il diritto alla felicità esiste solo sulla carta della Costituzione Americana (vane ed inutili parole) e negli intenti del Re del Buthan, mentre l'Oriente, terra antica di compassione e di meditazione ha sposato l'idea occidentale vittoriosa del vincente, superandoci di slancio nella corsa appunto ad arrivare primi. Miliardi di nuovi infelici chini sui deschetti da lavoro senza fine, la cui efficienza è invidiata e posta ad esempio dai nostri pifferai. Droghe e stimolanti, presto distribuiti gratuitamente, ci aiuteranno ad aumentare la nostra efficienza, a dare un rendimento più alto, a lavorare più intensamente e più a lungo.
Ciò detto, vi lascio ad una serena domenica (spero per voi di lavoro). Io devo allenarmi per un gioco di destrezza sul web dove sono ad un passo dal primo posto e non ho quindi altro tempo da perdere.

giovedì 13 novembre 2008

Ài


L’ elegante ideogramma “Ài” aiuta a capire la delicatezza del pensiero cinese. E’ costituito da quattro caratteri semplici : Unghie, Tetto, Cuore, Amicizia e significa Amore, includendo il concetto verbale di amare. Cioè: Costruire faticosamente qualcosa con il cuore insieme a qualcuno. Questo concetto che l’amore sia una costruzione difficile che si fa in due e proprio per questo così fondamentale per l’uomo, mi sembra una osservazione importante per capire che il pensiero cinese ha fondamenti antichi e non si esaurisce nel copiare magliette. Unito a “Ren” (persona) significa “Coniuge” quindi - La persona con cui, con fatica, si crea la stabilità attraverso i sentimenti, l’amicizia, il rispetto reciproco-. Il nostro modello di sviluppo ci sta abituando ad una aggressività assolutamente letale per il concetto di famiglia e credo in generale per il benessere soggettivo e infine collettivo. Credo che sia importante pensarci e meditarci a fondo; intanto vado a vedere se la mia Ai Ren mi ha preparato la colazione.

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Mmmmmm....marocchino schiumoso con cacao e cucchiaiata di nutella! Questo è vero amore.

mercoledì 12 novembre 2008

A Tan Chiu


Un mio caro amico mi manda questa bella foto delle montagne della Val Chisone che tanto ama e poichè so che vorrebbe starci molto più a lungo di quanto non riesca, gli dedico questa poesia del mio amato Li Po, noto come il Poeta Immortale della dinastia Tang,

A Tan Chiu

L’amico mio dimora
In alto sui monti dell’Est;
Gli è cara la bellezza
Delle valli e dei monti.
Nella stagione verde
Giace nei boschi vuoti;
E dorme ancora quando
Il sole alto risplende.
Un vento di pineta
Gl’impolvera maniche e manto;
Un ruscello ghiaioso
Gli terge il cuore e l’udito.
T’invidio! Tu che lontano
Da discorsi e discordie
Hai la testa appoggiata
A un guanciale di nuvole azzurre.

Sono certo che si identificherebbe volentieri nel Tan Chiu di 1.300 anni fa.




martedì 11 novembre 2008

Kilometri zero

Tra le molte cose su cui Carlin Petrini fonda la sua religione e su cui da buon agnostico non sono d'accordo, ce n'è qualcuna che invece mi convince o quanto meno mi attira. Ad esempio concordo assolutamente sul fatto che è molto meglio seguire la stagionalità consumando i vari prodotti nel giusto periodo dell'anno. Mi intrigava inoltre la teorizzazione del kilometro zero, sia per l'accorciamento della filiera che per un minore spreco di carburanti dato dalle immense distanze dai luoghi di produzione. Detto fatto, per non rimanere solo su di un piano di speculazione teosofica, in agosto fermavo la mia auto lungo la circonvallazione pinerolese attratto da un bel cartello che prometteva: Frutta. La rubiconda signora mi offrì delle pesche (bruttarelle invero) a 1,50 Euro e fichi (piccolini ma appena raccolti) a 4 euro (al kilo!). Poichè ormai mi ero fermato presi una cassetta di pesche e qualche fico nascondendo la mia irritazione, mentre la madama, essendo ormai l'una passata, si allontanava su un gigantesco SUV nero sbuffante che zigzagava tra due grossi atomizzatori per trattamenti antiparassitari. Irritazione mutatasi poi in nervosismo quando giunto nel paesino di montagna, al negozietto "la boutique della frutta" le pesche erano 1,49 e gli stessi fichi 2,80. La filiera l'ho accorciata, ma mi si è allungato qualcos'altro anche perchè parecchie pesche le ho buttate mezze marce (non riesco a mangiarne 10 chili in tre giorni). Inoltre ho fatto anche la seguente riflessione: -Se si va dal contadino (in media 40 km tra andata e ritorno) e si comprano (esagero) 30 kl di frutta, consumiamo circa 1 litro di carburante ogni 10 kl di frutta. Se invece un TIR porta 30 Tonn. di frutta da 2000 km di distanza, consuma 1 litro di carburante ogni 100 kl di frutta (circa, naturalmente).-
Dove sto sbagliando? Perchè devo continuare a farmi domande invece di adagiarmi tranquillamente e seguire l'onda?

lunedì 10 novembre 2008

Insiemi finiti

Isla de Pascua è una piccola isola del Pacifico di 163 km2 a oltre tremila km dalla più vicina terraferma. Poco prima dell'anno mille un gruppo di Polinesiani forse perdutisi nelle immensità del Pacifico la popolarono, trovando un piccolo paradiso interamente coperto di palme. Gli animali che avevano sulle piroghe, il mare pescoso e la terra fertile e mai sfruttata, consentì uno sviluppo straordinario di quel piccolo gruppo che raggiunse il suo apice nel sedicesimo secolo con oltre 20.000 abitanti. Un così grande numero di persone, con le sue necessità, consumò a poco a poco tutte le risorse dell'isola. L'ultimo albero fu abbattuto impedendo così la costruzione di barche e quindi la pesca; il terreno sfruttato (non avendo a disposizione concimi, eheheeh) si inaridì; cominciarono le lotte e le guerre tra gruppi rivali con scuse razziali e religiose. Arrivarono al punto di formare tribù diverse a causa della conformazione del naso o delle orecchie, accusandosi vicendevolmente di inferiorità e di ogni genere di nefandezze, trucidandosi l'un l'altro. A poco a poco la popolazione falcidiata dalle guerre e dagli stenti si ridusse sempre di più, dedicandosi infine all'antropofagia per sopravvivere. All'arrivo degli occidentali a bordo di sconosciuti oggetti naviganti, rimanevano pochissimi abitanti a cui diedero l'ultima botta; alla fine dell'800 erano presenti sull'isola poco più di 100 indigeni abbrutiti. A testimoniare quella piccola civiltà periferica solo i Moai, muti epigoni di un misero splendore passeggero di un luogo chiuso, finito nei suoi confini, condannato ad utilizzare solo le risorse che il luogo stesso era in grado di autoriprodurre. Gli abitanti non erano in grado di capire che la mancanza di questo autocontrollo li avrebbe distrutti, erano ignoranti, selvaggi, privi di sapienza, incapaci di speculazione filosofica e scientifica, non potevano possedere i dati e le conoscenze ad esempio che abbiamo noi e che sappiamo bene che un sistema chiuso e finito non può consumare una quantità di risorse superiore a quelle che è in grado di rigenerare. Lo sappiamo, vero?

venerdì 7 novembre 2008

Futuro duro (?)

In questi giorni non c'è media che non usi quasi tutto il suo spazio per commentare le elezioni americane. E allora perchè anch'io non debbo dire la mia banalità sull'argomento? Mi approprio di questo sacrosanto diritto, salgo sul palco del conferenziere e dichiaro quanto segue:
- Tutti sottolineano in particolare la negritudine di Obama mentre invece non è né nero, né bianco (e neanche abbronzato), secondo me la sua vera straordinaria forza è il suo melting pot, quel meticciato temuto da molti, aborrito da alcuni (non pochi; agghiacciante l'intervista di ieri sera al capo del gruppo Supremazia Bianca) che è la vera forza degli Stati Uniti. Pochi vogliono riconoscere che la mescolanza dà luogo ad un arricchimento fisico, culturale, morale e financo economico che è tipico di ogni manifestazione naturale (a chi piace questo termine). Il fenomeno biologico del lussureggiamento degli ibridi è ben conosciuto e la mescolanza dei popoli e delle culture è stato alla base dello sviluppo delle genti del Mediterraneo. Lo sviluppo si è fermato da ogni parte quando un gruppo si è chiuso in sè stesso barricandosi all'interno delle mura (vedi la Cina degli ultimi tre secoli). Adesso però bisogna passare dalle chiacchiere ai fatti. Se Obama si lascerà indurre in tentazione dalle spinte di chiusura e di protezionismo saranno acid dicks per tutti; ricordiamoci che l'ultima Grande Depressione è sfociata nella seconda guerra mondiale. Auguri Benedetto! -

giovedì 6 novembre 2008

Los mariachis

Oggi ho risentito dopo tanto tempo un amico conosciuto in Messico. Quando assapori il piacere di questi contatti, dopo un po' ripeschi tra i neuroni spaiati anche qualche brandello di ricordo spazio-temporale, come capita quando, alla mail con cui un vecchio amico che ti manda i saluti, si accompagna un allegato divertente. Infatti mi rivedo in un luglio caldissimo a San Luis de Potosì, seduto in una Cantina sul Zocalo di fronte alla chiesa in cui entrava una vaporosa e bianchissima sposa. Una torta alla meringa accompagnata da uno stuolo di damigelle festanti. Mentre sorseggiavo un margarita ghiacciato, il corteo sparisce nella fresca ombra delle navate, mentre fuori, nel pronao barocco rimane il gruppo dei Mariachi che continua a suonare in attesa della fine della messa, incurante della calura. Straordinari, grandi, grossi, grassi, strizzati nei costumi, tanto stretti da sembrare cuciti addosso. Col sudore che cola loro addosso dalle fronti rugose a macchiare di aloni le candide camicie mentre gli invitati li schivano per entrare in chiesa. Senza neanche il sombrero per ripararsi dal sole allo zenit. Altro che siesta messicana. Che s'adda fa' pe' ccampà!

mercoledì 5 novembre 2008

Partecipazione

Bene, allora è fatta. Smentiti tutti coloro che prevedevano che l'America non fosse ancora pronta o forse un grande aiuto lo ha dato la improbabile Palin, comunque sia, adesso il mondo si aspetta molto, non vorrei che si aspettasse troppo. Avrete notato che i miei sondaggisti ci avevano azzeccato in pieno. Il 100% addirittura ha indovinato il risultato! Certo 4000 votanti non sono molti ma è un sintomo interessante della fiducia che girava (non fatevi ingannare dal fatto che lo score qui a fianco riporti solo 4 voti, si tratta, come sapete, di grandi elettori e ognuno di questi rappresenta 1000 votanti, circa...). Comunque sarebbe bello, anche se non originale, avere una serie di commenti sul fatto del giorno. Anche se non da tutti i 4.000.

martedì 4 novembre 2008

A las cinco de la tarde

E' buio intorno a me, in questo luogo chiuso e senz'aria; non capisco cosa stia succedendo, ho paura e sento montare dentro di me una rabbia crescente, ruminando il mio terrore. Di fuori, forti rumori come boati alternati a silenzi, sensazioni sconosciute. Tutto è cominciato ieri. Ero sereno come sempre, l'aria frizzante dei pascoli alti mi scorreva sulla pelle, mi dava brividi positivi. Mi spostai un poco sul limitare della scarpata dove l'erba nuova è più folta e fresca e guardai a valle verso il torrente. Il vento leggero di primavera portava verso di me l'odore di un gruppo di femmine che si muovevano lente lungo l'acqua. Un profumo delicato e struggente che mi spingeva a correre verso di loro con foga e desiderio di fare qualche cosa, non so bene cosa. Gonfiare il petto ed aspirare forte la bruma del mattino, alzare il capo, guardare in alto, ma tenere gli occhi chiusi. Mi spostai verso il basso per vederle meglio e spiare i loro movimenti, quando spuntarono da dietro i cespugli bassi vicino al bosco, delle creature che non avevo mai visto, strane e inquietanti che con strida acute mi lanciarono addosso lacci e altri imbrogli che impedivano i miei movimenti ed in breve, sebbene cercassi di liberarmi, mi spinsero verso un angolo stretto in cui fui chiuso. Poi tutto si mosse e mi ritrovai qui nelle tenebre a masticare la mia rabbia impotente.
Si è aperto un varco e la luce entra, forte. Forse è la mia via di uscita dall'incubo. Esco all'impazzata. Questo è un luogo nuovo, mai visto nei miei quattro anni di vita. Piano, circolare, chiuso da legni tutto attorno e dietro, migliaia di quelle creature strane che non conosco. C'è silenzio adesso. Mi guardo attorno, solo al centro del luogo, qualche cosa che attira la mia attenzione, che si muove, che dondola ipnoticamente. Adesso basta. La mia rabbia cieca è tutta su quel punto, pagherà per tutto quello che sta accadendo. Batto ancora a terra lo zoccolo, poi mi lancerò senza pietà e lo strazierò con il mio corno sinistro. Attorno a me un odore forte. Un odore di morte.

lunedì 3 novembre 2008

¡Que linda es Cuba!

Ci sono luoghi dove l'aria ti invita a non avere fretta. Nuotavamo (si fa per dire) nell'acqua bassa nella baia blu di fronte a Cienfuegos. Si aveva voglia solo di aspettare che il sole tramontasse per godersi un altro po' di sfumature di rossi, quando un tizio con una bella bambina coi riccioli ci attacca un bottone e alla fine propone: - ¿Le gusta a usted de comer en mi casa una dorada rellena de langosta? A los italianos le gusta mucho-. Sono sensibilissimo a queste proposte e dopo aver concordato il prezzo accettammo di buon grado, non prima di averlo pregato di non farci un pacco. Tenendo stretta in braccio la bimba sorridente assunse un aria offesa e portata la mano sul cuore promise: - Palabra de pescador. A las ocho en frente al gasolinero.- e si allontanò lungo la spiaggia. Ci presentammo puntuali e la bambina che ci aspettava mi prese per mano e ci condusse attraverso il paese a una casetta un po' cadente come tutte a Cuba. Nel piccolo cortile interno c'era già un gran fervore di preparativi. La famiglia del palandar (così si chiamano questi ristoranti familiari semiclandestini, in realtà tollerati) al completo era in movimento, da José, il nostro pescatore, a un gran numero di figlie, oltre alla moglie che dava ordini in cucina. Un ragazzino finiva di dare gli ultimi ritocchi alla tavola imbandita appositamente per noi tre. Infine dopo un mojito abbondante, mama Dolores arriva con un gigantesco piatto contenente una orata mostruosa (almeno 40 cm) ripiena di delicata aragosta. Tralascio altri stucchevoli dettagli ma alla fine dell'ordalia, Josè arriva con in mano un sigaro grosso come una banana:- Ahora necesita un puro- Maledizione non fumo! Perchè devo negarmi questo piacere? Compay Segundo diceva :- No puedo vivir sin mi puro- Non potevo però deluderlo, così comprai il sigaro. Infine, dopo caldi abbracci a tutti e adeguata compensazione ce ne andammo satolli nella notte cubana a sentire musica. Ancora lo conservo quel sigaro, ormai secco e triste per non aver dato la gioia per cui era stato preposto.




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