venerdì 15 maggio 2015

Nagaland: Scene da un matrimonio

 
La sposa Konyak

Ragazza konyak
Giovane konyak
Vorrei fermarmi ancora nel morong di Long Wa, d'altra parte non capita mica tutti i giorni di essere ricevuto da un re mentre sta pippando oppio, sia pure a fini rituali, ma Nahmei insiste perché andiamo avanti, solo qualche chilometro più in là, sempre sul confine birmano. Lì c'è il suo villaggio, dove l'angh in carica è suo padre. Mi lascio convincere e ci muoviamo per un po' lungo la stradina sconnessa e tutta curve che scende lungo il fianco della collina. Quando arriviamo al paese, questo è in totale agitazione. Nell'area principale, al centro delle capanne si è radunata una vera e propria folla, in pratica tutto il villaggio ma non solo, sembra che ci sia un sacco di gente che arriva anche da quelli vicini. Infatti è in corso un matrimonio. Tanti, anche lungo la strada, sono vestiti in modo tradizionale con bluse colorate. Le ragazze hanno vestiti neri corti con strisce rosse orizzontali, i giovani in calzoncini hanno bande rosse tessute a mano, ricamate ed incrociate sul petto. Quasi tutti dispongono di un fucile che brandiscono in maniera piuttosto scanzonata e un lungo machete in un fodero di legno. 

Cappello tradizionale
I copricapi però sono i più spettacolari, caschetti di vimini rossi a pan di zucchero sormontati di pelo di orso o di cinghiale e adornati da due enormi zanne arcuate a falce davanti e sormontati da lunghe piume bianche e nere. Le collane di perline infilate per formare disegni geometrici complessi sono presenti a mazzi, all'apparenza pesantissime attorno al collo di uomini e donne. Gli sposi invece sono sorprendentemente vestiti completamente all'occidentale, classicissimo abito bianco coi pizzi e velo con coroncina, la sposa che stringe nervosamente un bouquet di rose rosa, mentre lui in camicia e pantaloni neri e testimoni in fotocopia. Immobili e completamente ingessati nel loro palchetto di bambù, sono palesemente a disagio, mentre tutto intorno c'è una gran confusione, soprattutto nella zona di fronte al di là della strada, in una grande capanna, dove si sta preparando il banchetto. A terra su grandi foglie sono già ammonticchiati carni, verdure mondate, riso ed altri materiali in attesa di essere cucinati. A fianco, una serie di pentoloni di alluminio su grandi fuochi stanno già svolgendo il loro compito, con uno stuolo di donne che si agita intorno. Il cibo si distribuisce in continuo; chi arriva viene subito fornito di un piatto di plastica riempito a dovere e si avvia verso le sedie dove si accoccola e mangia. 

Un anziano Konyak
Dietro è stato preparato un dispositivo ingegnoso, una sorta di tubo in bambù con diversi fori ad intervalli regolari attraverso il quale arriva l'acqua da bere. Subito siamo invitati a partecipare e ad unirci ai festeggiamenti. I bambini, a frotte stanno un po' in disparte. Non hanno titolo per partecipare attivamente alla festa. Ma ci sarà spazio anche per loro, quando i grandi si saranno saziati. Sullo spiazzo nudo di terra rossa davanti ad un monumentale edificio sormontato da una croce battista, molte sedie disposte in fila occupate da gruppi di uomini anziani. La maggior parte di loro hanno visi ricoperti dal tatuaggio rituale konyak. Qui di teste se ne sono tagliate parecchie ai tempi. Il padre di Nahmei, si chiama Honngo e sta seduto al centro. Si vede che gli altri lo trattano con una certa deferenza e non hanno con lui la confidenza ridanciana con cui tutti si scambiano risate e pacche sulle spalle. Tiene un cappello di cuoio con la tesa forata di foggia texana in testa per proteggersi dal sole forte e quando lo andiamo a salutare non fa cenno di un sorriso. Il tatuaggio nero che lascia scoperte le orbite rotonde si richiude con linee oblique sul labbro superiore. 

Preparazione della festa
Honngo non ha più di sessanta anni ed è stato l'ultimo, tra tutti i guerrieri konyak ancora in vita a riportare al villaggio la testa mozzata di un nemico. Era stata una grana che aveva messo di mezzo una ragazza, rapita da un gruppetto di bellimbusti di un villaggio che stava al di là di quella fila di colline, oltre il confine. Non era certo una cosa che si poteva far passare liscia. Così erano partiti in una ventina di ragazzi, lui era il più giovane di tutti. Li sorpresero in una radura che pascolavano delle vacche. Si sbrigarono fretta e prima di sera il villaggio aveva aveva sei capi di bestiame in più e tre teste mozze facevano bella mostra di sé davanti al morong. Si ubriacarono tutta la notte. Il giorno dopo la regina cominciò a pungergli il viso con il lungo ago intriso di inchiostro secondo il disegno consueto. Poi intervennero i missionari che stavano costruendo la chiesa. Riunirono gli angh dei due villaggi e misero fine a quella faida che poteva proseguire all'infinito. Da allora non si tagliarono più teste da questa parte della valle. Da allora saranno passati meno di quaranta anni. Intanto la festa continua. 

Il bar alla festa di matrimonio


Gli sposi rimangono sotto la loro tettoia di bambù, mentre i parenti raccolgono i soldi dei regali degli invitati. Honngo e gli altri vecchi stanno seduti in mezzo alla piazza, rigidi e senza sorrisi. Più tardi cominceranno le danze e le bevute. I tempi cambiano, nell'aria non c'è più l'odore dolciastro delle teste che si vanno mummificando sotto il solo forte, al massimo nella foresta si tira qualche fucilata agli uccellini. I giovani adesso, si impostano profili su facebook e guardano le ragazze che ridacchiano con le forme costrette in jeans attillati. Altro che tatuaggi. Gli occhi di Honngo sfiorano tutto questo, apparentemente senza giudizi di merito. Chissà forse il il primo, lui, ad esserne convinto. Non è più il tempo dei canti di guerra o delle urla di vittoria sul nemico. Rimane così muto con gli occhi fissi all'orizzonte verso quelle colline lontane. Solo quando ce ne andiamo sembra riscuotersi un poco, poi, chiama il figlio e si accerta che abbiamo pagato la tassa governativa per la visita del villaggio.


L'angh Hon Ngo

I bimbi del villaggio
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