martedì 9 marzo 2010

Heavy rain.

Scusate lo sfogo di ieri, ma non ne potevo più di sentire scemenze in televisione, che di patata si occupa spesso per la verità, anche se in modi non consoni ed il sole primaverile aveva ringalluzzito le mie velleità di divulgatore parascientifico. Oggi invece la giornata è tornata bigia e pioverà tra poco (anzi in verità si è messo a nevicare). Qui da noi la pioggia è comunque triste e credo che il fatto, abbia una influenza culturale netta, forse perchè quando piove fa anche freddo e ci si irrigidisce nei pastrani, stringendo le spalle e anche i diametri delle arterie che portano il sangue al cervello. Secondo me questo incattivisce la gente e la fa richiudere in sé stessa, magari la speculazione filosofica diventa più intensa, ma la voglia di confrontarsi e di socializzare diminuisce. Col monsone è un'altra storia. Quella non è pioggia. Quella è acqua. Acqua a cateratte che viene gettata giù dall'alto come le secchiate dai balconi. Placa il caldo, aiuta la vita, mette allegria e voglia di vivere. Quell'anno in Orissa, il monsone era particolarmente intenso. Non è che la pioggia venisse tutto il giorno uguale e fastidiosa, invogliandoti a rinchiuderti sicuro per ripararti, ma capitavano momenti in cui sembrava che il cielo ti si rovesciasse addosso dandoti delle mestolate liquide in faccia, alternate a spazi di pioggerella fine e quasi tiepida, con le gocce che ti colavano sul viso e che sembravano asciugarsi ancora prima di inzuppare i vestiti. Di quando in quando usciva il sole, subito rovente e cattivo che pareva asciugare tutto in un attimo, lasciando solo un senso generale di umidità che pervadeva l'ambiente in maniera omogenea, confondendo acqua e sudore al punto da farti desiderare che al più presto cadesse la successiva razione di monsone benefico. La gente usciva allegra dalle capanne, approfittando delle pause tra i rovesci più forti ed a gruppi andavano versi le risaie trasportando in testa in pesanti fagotti o con grandi bilancieri, i mazzi delle piantine verde oro da trapiantare. Qualche uomo coperto solo da un minuscolo dothi bianco attorno alle anche, portava sulle spalle un piccolo aratro di legno a chiodo, residuo di una agricoltura primordiale che solo il clima rendeva meno avara. Nessuno cercava riparo dall'acqua, tenendo in testa al più grandi cappelli di paglia a cono per evitare la più grossa. La strada quasi rettilinea che tagliava le foreste del Sud dell'Orissa era stretta e piena di buche fangose dove l'Ambassador bianca, che Prakash lavava inutilmente ed ossessivamente ogni mattina prima di partire, procedeva ad una media dei venti all'ora per non lasciare qualche semiasse lungo i bordi delle risaia, cosa che ci lasciava tutto il tempo per osservare con calma la vita pulsante nelle radure dove le piccole camere circondate dagli arginelli fangosi rialzati con corte zappe, si andavano a poco a poco trasformando da specchi lucidi di acqua fangosa in verdi superfici ordinate il cui confine era segnato da file di donne chinate con i sari colorati rialzati fino alle cosce, che al nostro passaggio arrestavano per un po' il lavoro per osservarci e mandare un saluto. Il mare era ancora lontano e quell'India rurale, se pur durissima e carica di problemi, non dava assolutamente le impressioni di pesante e addirittura fastidioso senso di disperazione delle bidonville metropolitane. Come in tutti i paesi del mondo la povertà mi è sempre sembrata più serena nelle campagne che ai margini della città, dove assieme ai problemi della mancanza di tutto quando dà la dignità all'uomo, si assomma anche lo stridore dissonante del contrasto con l'esibizione della ricchezza, che il paragone rende fastidiosa e opprimente, direi odiosa nel suo disinteresse egoista. Sarà una serenità fasulla quella delle campagne, ma la gente in generale ride quando le parli e ti fa sentire anche un po' meno in colpa. Mica tutti però. Fermammo l'auto per lasciar passare una famigliola che andava verso il suo campetto. La madre, piccola e carica di piantine era già avanti con il suo bimbo legato sulla schiena, il padre magro comminando davanti alla copia di bovini aggiogati più magri di lui, portava sulla spalla l'aratro di legno e si fermò a sorvegliare la strada, mentre un bambino, tutto nudo, con un enorme cappello a cono, portava un piccolo bilancere sulle esili spalle di bimbo con due pentolini alle estremità, forse il pranzo della famiglia. Si fermò in mezzo all'asfalto a guardarci non sapendo bene cosa fare, mentre armeggiavamo con le macchine fotografiche sotto l'occhio orgoglioso del genitore, poi scoppiò in un pianto dirotto, forse provocato dalla vista di quegli alieni bardati di tute spaziali che lo puntavavano. Scelse, saggiamente la via della fuga, correndo sull'asfalto sconnesso mentre il babbo, sganasciandosi dalle risate, ci salutò a lungo, augurandoci buon viaggio.

Se ti è piaciuto questo post, ti potrebbero anche interessare:

http://ilventodellest.blogspot.com/2009/03/tradizione-e-globalizzazione.html
http://ilventodellest.blogspot.com/2010/02/le-donne-tigre-dei-kutia-khondh.html

2 commenti:

Angelo azzurro ha detto...

Povero piccolino! Chissà che avrà pensato di voi per spaventarsi...

Enrico Bo ha detto...

lo credo un losco figuro panciuto con tanto di barbaccia, spero che non abbia pensato ai predatori d'organi. (tranquilla quelli ci sono solo su Surakhis)

Where I've been - Ancora troppi spazi bianchi!!! Siamo a 114 (a seconda dei calcoli) su 250!