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Si Pha Dong |
La stazione dei bus di Sorya brulica di vita già alle 6 e mezza. La mattina sonnacchiosa che a Phnom Penh promette un'altra giornata calda e soffocante, qui è invece percorsa dal movimento affannato di un mondo alla ricerca del proprio mezzo di trasporto, tra montagne di pacchi, valigie e mercanzie di ogni genere. Un po' a lato, forse per distinguersi dalla babele degli autobus locali, il VIP International Luxourious Bus, si riempie a poco a poco di umanità varia. A dispetto del nome pomposo è piuttosto malandato e quando si avvia ansimando, lasciandosi alle spalle le strade ormai affollate della capitale, prende la via tra le risaie ancora verdi con tono svogliato e tossicchiante. Per fortuna è mezzo vuoto, concedendo un po' più di spazio vitale ai nostri strabordanti ed ipertrofici corpacci occidentali. Parla per te, direte voi, piccati, ma la sensazione è proprio questa, che i posti, da queste parti siano progettati a misure più ridotte, tanto sono minute le ragazze e gli omarini che salgono con le loro sporte, quelle sì, gigantesche. Di tanto in tanto si ferma a raccogliere qualche altro avventore isolato, saccopelisti in arrivo da Siem Reap con ancora gli occhi pieni dello splendore di Angkor Wat, in cerca di una misura più umana.
E' una rotta poco battuta, questa che porta alla frontiera laotiana da un valico secondario, anche se privilegia un approccio ideale al sud del paese. Backpackers forzuti dalle braccia tatuate come paralumi giapponesi, esili ragazzine bionde con zaini giganteschi, isolati singoli che fanno indovinare soggiorni prolungati alla ricerca di sé stessi e di altro. La strada percorre per tutto il giorno la campagna piatta cambogiana, mentre le risaie si diradano gradatamente man mano che si procede nel Ratanakiri. Quando si avvista la sponda del Mekong che per un lungo tratto disegna la linea di confine tra i due paesi è ormai pomeriggio inoltrato. La frontiera arriva inaspettata sottoforma di un casotto di legno, una lunga sbarra di bambù rialzata da una corda e un paio di bandiere sbiadite che non riescono a muoversi nell'afa meridiana. L'animo dell'uomo dell'ovest è sempre agitato e timoroso di chissà quali difficoltà e si sa che le frontiere rappresentano sempre un punto critico e fastidioso, ma capisci subito che è tutto facile da queste parti, si può stare tranquilli, prendersi il giusto tempo, lasciarsi andare.
Tutto funziona, lentamente ma senza traumi, alla fine si arriva. Un apposito omino si occupa direttamente, dietro mancia di 1 dollaro, di raccogliere i passaporti e andare direttamente a sbrigare la pratica, ritirare la foto, il modulo per i visti, i soldi della tassa variabile a seconda da dove arriviate e torna dopo un po' con la pratica sbrigata. Dei doganieri neanche l'ombra; il bus riparte e ti scodella all'imbrunire sulla riva del fiume, vicino al vecchio imbarcadero. E' qui a Si Pha Don che il Laos si presenta per quello che è veramente. Un paese dolce e tranquillo in cui adagiarsi con la voglia lasciarsi andare al lento scorre del tempo. Qui il grande fiume, anima e condizione allo stesso tempo, si allarga, si dilata mostruosamente, diventa un ipertrofico mare di cui non si può indovinare la sponda opposta ma popolato di grandi isole che ne fanno un arcipelago interno inaspettato ed insolito. Si Pha Don vuol dire appunto 4000 isole, anche di grandissime dimensioni popolate di rare capanne e di piccoli villaggi di palafitte che vivono sul fiume e del fiume, dove la vita prende un aspetto ed un ritmo suo particolare.
Carichi le tue masserizie su barche sottili, dove l'equilibrio precario suggerisce movimenti controllati e attenti e ti fa guardare con occhio critico il colore dell'acqua che ti circonda, così scuro e marrone, imponendoti il pensiero delle centinaia di milioni di cinesi a monte che il fiume hanno già usato sotto ogni aspetto, ma forse sono solo le prime ombre della sera che scende in questo paesaggio senza rumori che non siano il motorino della barca o lo sciabordare di un remo lontano. Pochi minuti e la lancia sottile ti lascia su una spiaggetta in salita su cui trascinare il sacco e la valigia. Don Det, la prima isola ti accoglie con la sua atmosfera da terra dei mangiatori di loto, silenzio, rumori di campagna, capanne tra i palmeti. La basica guest house sulla punta nord dell'isola ti concede qualche bungalow con la veranda rivolta ad occidente; il fiume sotto di te appare immobile.
Lampi rosso violacei strisciano le nuvole alte prima di superare le quinte delle isole vicine ed insanguinare le acque. Non fate troppo caso al fatto che non ci sia lo sciacquone e che l'acqua la devi gettare col secchiello o che la luce non funzioni e non ci sia acqua calda, tanto manca anche il rubinetto. Preoccupatevi unicamente che sulla veranda siano bene attaccate almeno due amache e date retta a me, lasciatevi andare, queste due parole le sentirete spesso in questo resoconto, è l'unica strada da praticare. I poteri taumaturgici di una BeerLao fresca di fianco a voi, un gruppo di bufali che giocano nell'acqua fangosa di fronte e il caleidoscopio mutevole dei colori della sera vi saranno spettacolo completo e totalizzante fino a che il nero della notte, non turbato da luci parassite non lascerà spazio al solo luccicore delle paillettes cucite su questo cielo sconosciuto, mai così numerose e tremolanti sul velluto. Poi potrete addormentarvi sereni, tanto saranno già almeno le nove.
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Sera a Don Det |
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