Ho voglia di andar per campi. Chissà, l'estate col suo caldo duro e un po' soffocante dovrebbe indurre alla meditazione sotto il pergolato, che noi chiamiamo topia, un dialettismo colto, visto che il governar la forma delle piante vien detta appunto arte topiaria; invece ho nostalgia di campi riarsi di sole crudo, che picchia sul collo e impone una qualche sorta di cappelluccio. Tutto quel mare di spighe dorate e riarse, leggermente ritorte nella direzione del vento o rosse, quasi bruciate, se d'altra cultivar senza pruina protettiva, immobili e ferme quando non tira più nemmeno un refolo di vento. Dappertutto è quasi giunto il tempo, addirittura nella Fraschetta, terra seccagna e povera, qualcuno ha già cominciato a mietere. Come una puerpera al compimento dei suoi giorni, stan lì in attesa della grande macchina che verrà ad ingoiarle, ingorda, a mangiare tritando il tutto, a battere, a scuotere, a sgranare e poi a separare tutto il possibile, la granella dalla paglia, lasciata cadere così quasi con disprezzo a terra in lunga e umile fila, ad aspettare che altri con calma raccolgano anche quello, che nulla vada perduto. Ho amato quei campi, mi han sempre dato un senso di ricco, di opimo, di fianchi larghi e robusti, icone corrette di una Cerere creata con giusta ragione, quadro esplicativo dell'ingordigia affamata del contadino, perennemente in bilico, sempre sul crinale tra abbondanza bramata e temuta carestia, da allontanare con gli scongiuri di una religiosità sincretica più prossima alla superstizione, assai blandita o tollerata comunque da un clero sapiente che conosceva i suoi polli.
Cammini adagio lungo il fosso che delimita il campo, immensa tavola piana, meraviglia dell'ingegno umano, espressione innaturale e magnifica com'è l'agricoltura nella sua essenza profonda, artificio inesistente nato da considerazioni millenarie, miglioramenti così lenti e graduali da sembrar frutto di naturali cambiamenti. Pur nella sua immobilità, par di sentire un lievissimo clangore, quando milioni di ariste, rese ormai dure e quasi metalliche dal loro seccume, nella rigidità della morte, paiono sbattute tra di loro dal piccolo spostamento dell'aria quasi ferma. Un suono inavvertibile di cembali pagani, che frangono il silenzio spesso del mezzogiorno. Le spighe turgide, se le guardi attento, fanno fatica a rimanere in alto sui culmi esili e secchi anch'essi, induriti ma fragili, pronti a frangersi come vetri al primo impatto del nemico. Eppure son lì, piene all'inverosimile di cariossidi gonfie e dure, al cui interno il latte della primavera ha lasciato per strada umidità ed umori per mutarsi in glutine denso e quasi vetroso a formare un chicco dalle rotondità piene, divise dal taglio centrale deciso, sensuale e categorico al tempo stesso. E' un quadro come non potrebbero essercene altri a rappresentare l'abbondanza, in ogni tipo di cultura partita dalla terra, non quella fasulla di chi la campagna l'ha letta sul libro e se la raffigura come un'Arcadia dai toni sfumati tesa a ricercar solo sfumature di sogni, di mani nodose e di teste basse, di rimpianti di un passato mai esistito, di esaltazione di ipotesi parateologiche e di rovinevoli economie del niente. E' immagine di concretezza che valuta positivamente il solido, il concreto, rifuggendo da mode che appena si diraderà il fumo del nulla che le ha create, si accartocceranno sulla loro stessa fuffa. Come scalda l'animo un campo di frumento maturo per la trebbia! Non fosse altro per quanto picchia il sole e son senza cappello.
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5 commenti:
Gran bel post, Enrico. Chapeau.
@Pop - Detto da te mi fa gonfio come una delle spighe in questione!
Bellissimo. Perché vero. Complimenti.
grazie Bac, detto da un'agricoltore poi!
un bellissimo quadro dai colori forti e dorati
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