venerdì 7 giugno 2013

Il Bar Baleta: Il Bugiardino.

 Cassa e bugiardino - (gent. concessione Gino "Baleta" Gemme).

Erano tempi in cui di soldi ne giravano davvero pochi. Gli studenti soprattutto, avevano paghette miserevoli, gli universitari con l'associazione goliardica si aggiustavano con le questue dai negozianti di Corso Roma e anche i normali avventori, passavano intere serate al bar consumando un caffè e cercando di vincere la partita a carte o a biliardo per far pagare agli altri giocatori la seduta. In realtà, quello che oggi chiameremmo flusso di cassa, doveva essere piuttosto scarso, tanto che le favoleggiate ricchezze accumulate da Gino con la gestione del bar Baleta, c'è chi parlava di una stanza piena di monete e oro alla Paperon de Paperoni, era no solo una delle tante leggende del bar, usata per far chiacchiera e tirare tardi. Anzi, probabilmente il buon Gino doveva fare anche una certa fatica a rientrare del "puffi" dei morosi cronici. Sul bancone del bar,  infatti, troneggiava una maestosa macchina di antica fattura ricoperta di fregi in similargento, dalle fattezze un po' country e un po' belle époque. Era un precursore dei registratori di cassa, imponente e classico, come se fosse il centro motore del locale, una sorta di cuore artificiale, una pompa energetica che faceva fluire la forza vitale a tutte le attività; nella pratica, visto dai clienti, un Moloch maligno che ingoiava le miserevoli paghette dei frequentatori più giovani. 

Quando qualcuno si avvicinava per pagare il caffè o la seduta, Gino, schiacciava la serie dei tasti di cui era ricoperto il fronte ricurvo della macchina, le unità, le decine, le migliaia, allora i computer non erano ancora neppure sognati, si sentiva un dlin caratteristico e la bocca vorace del cassettino posteriore si spalancava con uno scatto ed inghiottiva irrimediabilmente monete e banconote, mentre nella parte superiore, una specie di vetrinetta, quella dove, nel disegno, è raffigurato il simbolo del dollaro, emergevano delle palette che riportavano il numero del conto finale, una specie di calcolatrice meccanica ante litteram, una macchina di Touring in sedicesimo, che probabilmente oggi, al mercato dei collezionisti, varrebbe una cifra (che fine ha fatto Gino?). Dalla sala, qualche giocatore di carte lanciava qualche commento salace sulla macchina dei soldi sempre in azione e sui conti in banca del gestore che si gonfiavano mostruosamente, poi tutto tornava calmo. "Angelo, un caffè!" e tutto si riportava nei ranghi. Ma mica tutti pagavano cash. La realtà vera era molto più dura. La clientela (escludendo naturalmente quella del contado ricco e un po' fanfarone del lunedì mattina, vedi Rural day), oltre agli studenti squattrinati, comprendeva un buon numero di professionisti di vario genere, sicuramente senza problemi nel passare alla cassa, ma che probabilmente detestavano dover di volta in volta provvedere a saldare granite, caffè o il classico bicchiere di cocco, mentre un'altra fetta di clienti era costituita da rappresentanti, anche di prodotti improbabili, con larghi momenti di scarsità monetaria. 

Per questo motivo, in effetti ad ogni avventore, Gino aveva stabilito, col suo insindacabile fiuto commerciale, un fido invalicabile, una specie di conto aperto che poteva arrivare fino e non oltre una cifra ben definita. Sulla cassa, qualche volta infilata sotto, altre appoggiata come per dimenticanza sui tasti, c'era un cartoncino, diciamo un formato A4, su cui era elencata tutta una serie di nomi con al fianco le cifre che via via si andavano accumulando, 80 lire per un caffé, 100 di seduta, 200 lire di biliardo per una sera andata particolarmente male in cui il malcapitato aveva perso tutte le goriziane. Il tizio passava, uscendo e comunicava il debito e Gino prendeva la matita che penzolava dalla cassa, legata ad uno spago  e segnava, segnava; quando la lista era troppo lunga, tirava fuori una gommetta rossa e cancellava tutto scrivendo solo la somma finale. Il cartoncino, conosciuto come Il Bugiardino, a forza di continue abrasioni era tutto consumato e annerito; in alcuni punti, quello dei clienti più attivi, quasi bucato, ma apparentemente rimaneva negli anni sempre lo stesso, una specie di monito silente che ognuno vedeva passando di fianco al bancone prima di raggiungere l'uscita. 

Quando il fido stava per essere valicato, Gino attendeva al varco il moroso che, all'ennesimo caffé, con discrezione e senza che nessun altro se ne avvedesse, cosa non certo facile in un bar sempre affollatissimo, veniva invitato a saldare il debito in toto o quantomeno mostrando, se in difficoltà, almeno la buona volontà di ridurre l'esposizione. Un vero e proprio richiamo a rientrare a cui, obtorto collo e tra mille maledizioni, se in difficoltà, tutti si dovevano sottoporre. Il debito non cartolarizzabile, diventava una deterrenza che in qualche modo doveva essere saldata, una volta anche l'onore aveva il suo peso. Che tutta la voragine del debito pubblico, e la crisi finanziaria internazionale dovuta ai mutui subprime, sia nata da qui, da questo andazzo lassista? E' possibile, tuttavia a quel tempo non mi risulta che qualcuno abbia mai pensato di "ristrutturare il debito" o di uscire dalla moneta comune del bar per risolvere il suo problema, al massimo limitava i suoi consumi e onorava i suoi obblighi, perché allora si riteneva che, tra persone civili, fosse giusto così. 


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2 commenti:

Laura ha detto...

Tra i miei giocattoli di quando ero bambina, ereditato per la verità da una cugina più grande, c'è una cassa proprio come quella del tuo disegno, una vera delizia con cui hanno giocato anche i miei figli

Enrico Bo ha detto...

@laura - Addirittura, in effetti è uno strumento piuttosto avanzato nell'epoca in cui per fare i conti c'era al massimo la Brunsviga.

Where I've been - Ancora troppi spazi bianchi!!! Siamo a 119 (a seconda dei calcoli) su 250!