sabato 2 marzo 2013

Arte rupestre a Kondoa.



 
Lasciare il nord ed i parchi famosi è un dispiacere. Ti verrebbe certo la voglia di rimodulare le tue intenzioni e rimanere ancora, sia per riprovare di nuovo le stesse sensazioni che per non perdere definitivamente le tante cose che hai lasciato indietro. E' il barbaro destino del turista. Salutare il cuoco gentile che ti viene a chiedere se ti è piaciuta la banana fritta, incontrare ancora una volta Don, venuto a controllare che non ci siano problemi, contribuisce a farmi lasciare il Lilac camp con un certo rammarico. Ora la strada punta diritta a sud, è finita l'area del turismo, qui cominci ad attraversare un Africa più reale. Te lo mostra subito il mercato di Babati ad un centinaio di chilometri, affannato e confuso susseguirsi di negozietti attorno ad una grande piazza dove si fermano corriere sempre più scalcagnate e strapiene di gente, man mano ci si allontana verso sud. Tocchi subito con mano la difficoltà a trovare qualche semplice prodotto di quelli a cui sei abituato, uno shampoo, un detersivo, eppure l'Occidente penetra con forza dirompente anche nelle aree meno battute, lo puoi constatare dalla diffusione di quello che ormai in tutto il mondo è uno dei consumi primari. La maggior parte delle persone che si aggirano tra i mezzi o riposano sulle panche sconnesse dei negozi, delle friggitorie o nei ristoranti di strada, tiene tra le mani un telefonino che compulsa ossessivamente. E' diventato un bisogno irrinunciabile quasi quanto il cibo, come dimostrano la maggioranza dei cartelloni pubblicitari e le pubblicità rozzamente dipinte sui muri. Subito dopo Babati, il nastro d'asfalto però finisce e la pista si inerpica tra le colline. 

E' una delle zone più belle tra quelle che ho visto finora. Boschi verdissimi ricoprono le ondulazioni del terreno senza soluzione di continuità e alternano le piccole radure di campi coltivati. Vicino alla pista scorgi  ogni tanto, nascoste tra gli alberi, capanne di fango e semplici casette di mattoni. Quasi sempre infatti, se attraversi un piccolo villaggio, noti una fornace artigianale che li cuoce e dappertutto ci sono segni di case iniziate con porte e finestre sbarrate per impedirne un uso prematuro ed abusivo. Ogni tanto una piccola casa dipinta di verde sbiadito con scritte in arabo e un vecchio megafono arrugginito sul punto più alto, più rade quelle con la croce sulla facciata. Siamo in una zona in prevalenza mussulmana e tra le capanne compaiono, se pur coloratissimi, molti veli. Procedi lentamente, date le difficoltà della pista che ti dà però modo di osservare con calma questa Africa rurale lontanissima dagli affanni della costa e dalla confusione delle città. La gente saluta e si ferma a guardare, evidentemente le presenze di un turismo classico sono assai rare in queste zone. Il paesaggio continua con immutabile variabilità per oltre duecento chilometri. Ore di fatica ripagate dal piacere dell'osservazione. Verso l'una si arriva a Kolo Kondoa, minuscolo centro all'incrocio della pista che porta a Siginda. Intorno al paese, una serie di colline più ripide, boschi più fitti, roccia corrosa ed antica. Questo è un sito di particolare interesse; nei dintorni ci trovi una serie di punti con alcuni delle più interessanti pitture rupestri dell'Africa. Data la difficoltà di arrivarci, queste opere sono poco studiate e per certi versi ancora misteriose. 

Sbircio il registro della casetta che funge da museo, qualche reperto impolverato e vecchie foto ingiallite degli anni '50; qui arrivano una cinquantina di macchine all'anno. Poco si sa sui popoli che le avrebbero prodotte circa 6000 anni fa, forse gruppi imparentati con i San sudafricani, anche qui ci sono ancora gruppi di tribù che parlano linguaggi coi clik, imparentate quindi con la cultura boscimane. I siti, alcuni mescolati a pitture più recenti, sono oltre un centinaio, essendo le formazioni della zona, ricche di asperità e di caverne, certamente abitate fin dalla preistoria. Per raggiungere una delle più interessanti, devi sobbarcarti un'altra mezz'oretta di una pista molto disagevole a una decina di chilometri da Kolo, poi un'altra oretta a piedi per salire la collina, nell'ora del turista, le due del pomeriggio col sole a picco sulla testa. Di tanto in tanto sotto ripari di enormi rocce che spiovono sulla valle ecco apparire grandi disegni rossi in cui distingui facilmente animali, pelli stese, cacce, gruppi di persone. Ecco qui tre cacciatori che circondano una grande giraffa con il collo teso nella corsa. Più in là tre figure stilizzate distese con i capelli dipanati in lunghe trecce rasta, poi altre persone con i volti coperti da maschere o caschi globulari. C'è un fascino antico che emana da questi luoghi, in questi anfratti di roccia si raccontava la vita. Forse si voleva esorcizzare il mistero, forse nasceva un desiderio di immanente. Si voleva soltanto festeggiare un fatto o questo fissare un momento riconoscibile tentava di esorcizzare la paura, auspicare un successo, creare le basi di un potere di chi conosce le vie dell'incognito o quantomeno vuole farlo credere? 

Quesiti difficili da risolvere, mentre guardi la valle coperta di vegetazione impenetrabile nella calura del primo pomeriggio, non parliamo poi se hai dimenticato l'acqua alla macchina. Quando la strada riprende, lascia a poco a poco la montagna e diventa una traccia rettilinea che attraversa la pianura, che di nuovo lascia abbracciare allo sguardo spazi larghi. Lontanissimi, di tanto in tanto, puntini seguiti da una scia polverosa che si allarga nel cielo, il segno dell'Africa. Ancora paesini, capanne sparse, campetti coltivati che mostrano i segni di una agricoltura difficile e faticosa, condizionata dall'acqua che ti regala il cielo e per questo in costante bilico tra abbondanza e carestia. Dovunque, quando attraversi i guadi secchi, gruppi di donne o bambini che scavano buchi nel punto più basso, aspettando con pazienza che si riempia di acqua fangosa, poi, con un mestolo a riempire grandi taniche gialle, da mettere in testa ed avviarsi a percorrere i chilometri che portano fino a casa. Non sembra, ma anche viaggiare tante ore in macchina è fatica e pensare che non devi portarti neppure quei 20 chili sulla testa. La stanchezza ti fa mollare l'attenzione, così in un bumper non visto (ce ne sono in continuazione), sbatto una testata contro il tettuccio, il collo fa un brutto crak, poi comincia a farmi male anche lo stomaco, poi la pancia; dei dolori, dei dolori, diceva il dottor Marsala... Intanto cala la notte e comincia a serpeggiare l'apprensione di trovare la strada giusta. Le indicazioni dei pastori lungo la pista, sono vaghe e spesso contradditorie. Poi, quando ormai è buio e disperavi, ritrovi l'asfalto, una cittadina, Kibaigwa. Davanti al cancello aperto nel basso muro bianco della missione, dietro la Parokìa,  Nina e Graziella sono in piedi, preoccupate ad aspettare nel buio.


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3 commenti:

Adriano Maini ha detto...

Con questi tuoi articoli di plastici scrittura e contenuto non c'é altro da fare che qualche sana condivisione....

Nidia ha detto...

Scoperte rare per pochi coraggiosi.

Enrico Bo ha detto...

@Adri - Grazie.

@Nidia - Il coraggio serve ad altre cose e non è da tutti, dai un'occhiata al prossimo post.

Where I've been - Ancora troppi spazi bianchi!!! Siamo a 119 (a seconda dei calcoli) su 250!