martedì 19 marzo 2013

La corrente fangosa del Rufiji.


Fiume Rufiji - Selous N.P. - Tanzania



Il Selous Mbega Camp, non è certamente dello stesso livello del precedente Sable Mountain lodge, con la sua aria di struttura lasciata un po' a se stessa, alle ingiurie della natura e dell'incuria dell'uomo. Tutto all'apparenza è un po' malandato, soprattutto i bungalow, che hanno davvero un'aria un po' sgarruppata e, proprio perché collocati su alte palafitte, con gradini malfermi o mancanti, scale cigolanti e malmesse, ti danno la sensazione di un'Africa lasciata a se stessa, dove la manutenzione è un'arte sconosciuta e tutto sommato inutile. Tutto, prima o poi deve ritornare alla natura secondo i cicli biologici, il legno deve marcire, i metalli arrugginire ed il bosco finalmente riprenderà il sopravvento. E' filosoficamente corretto. Anche questo però ha il suo fascino perverso. Se ti siedi sull'alta veranda dagli assi sconnessi senza far troppo caso agli scarafaggi giganteschi, alle torme di gechi ed a qualche topolino di campagna, ma piccolo piccolo, ti senti avvolto dalla foresta e nel varco tra i rami davanti a te, scorre veloce la corrente limacciosa e scura del grande fiume. Di tanto in tanto, piroghe ricavate da immensi tronchi d'albero, compiono la dura traversata o si lasciano andare ai vortici cupi che mulinano al centro. Senti rami spezzati dalle molte scimmie che li abitano, l'aria è popolata di farfalle colorate, piccoli uccelli tessitori fanno la spola e costruir nidi e più lontano, nel folto, rumori più sordi, più carichi di mistero, che ti fanno considerare il tuo essere intruso al sistema. 

Selous è l'area sterminata in cui fiumi e acque fanno da padrone, presentando così un aspetto diverso dagli altri parchi dominati dalle savane e col fiume bisogna convivere e del fiume vivere al tempo stesso.  Non puoi venire qui e non profittare dell'occasione. La barca a motore, con assi e copertura in linea col resto del campo, raccoglie un altro paio dei rari ospiti, una coppia nord europea, che di certo maledice la spensierata dissolutezza dei mediterranei crapuloni e dissipatori di altrui risparmi; riservato e pensoso lui, lattea e metereopatica lei, la cui pelle appena sfiorata dal refolo di luce solare, pur filtrata da nubi, è già irrimediabilmente vermiglia e rorida, promettendo future sofferenze epidermiche notturne. Disperatamente si copre con ogni genere di foulard, ma un po' l'aria, un po' la temperatura, troppo fredda o troppo calda, le renderanno queste due ore in barca, certamente penose e difficili da sopportare. Io e i miei sodali, invece, balziamo garruli oltre la murata, come ci è consentito certo dalla vigoria e dalla atleticità tipica per età e struttura fisica. Infatti ancor prima di prendere posizione sul mio panchetto, squarcio subito ed irrimediabilmente i pantaloni, cosa che viene sottolineata dai  nordici con una piega sarcastica della bocca. Ma, alla fin fine, pazienza, l'essenziale è non caderci dentro al fiume, come è già capitato l'anno scorso, solo che laggiù avevo trovato solo i batteri fecali di qualche centinaio di milioni di cinesi che stavano a monte, qui invece pare che la popolazione di coccodrilli sia la più densa di tutto l'East Africa. 

Quindi è meglio fare attenzione. Kassim, il nocchiero, avvia con fatica il motore e si porta al centro della corrente, lasciando poi scivolare il vascello lungo la riva scoscesa di terra rossa, dove indovini le violente erosioni delle piene. Gruppi di capanne di fango emergono tra gli alberi; qualche donna è scesa lungo la scarpata a lavarsi sulla riva con i piedi nel fango o a far acqua in catini e taniche. I bambini sguazzano immersi fino al collo. Kassim dice che i coccodrilli ogni tanto se ne prendono uno, ma mi sembra un po' esagerato. Dietro un isolone ricoperto di erba alta, l'acqua è meno profonda e nell'ansa sono immersi a mollo una trentina di ippopotami, che brontolano agitati. Una piroga carica di bimbi con zaini e borse traversa il fiume. Stanno tornando da scuola. Il barcaiolo procede con molta attenzione, cercando di tenersi al largo dalle schiene viola, che però ogni tanto scompaiono sotto la superficie; sembra che gli animaloni, molto territoriali, siano assai infastiditi dall'intrusione dei natanti nel loro spazio e si dilettino nello scivolare sotto le chiglie, per rovesciarli con tutto il loro contenuto, dando poi delle belle zannate a casaccio, ma cercando soprattutto di staccare qualche arto ai naufraghi, tanto perché capiscano che è bene stare alla larga. In effetti bufali e ippopotami sono i maggiori indiziati di incidenti mortali, da queste parti. 

Detto fatto, appena snocciolata la spiegazione, il nostro Kassim si dirige giusto verso la pozza, talmente gremita di pachidermi da occupare buona parte del ramo del fiume. Ma ci sei o ci fai? No, hakuna matata, assicura il nostro tanto per mostrarsi originale, il rumore del motore dà un sacco di fastidio ai nevrotici animali, che, "generalmente" si spostano in aree più tranquille. Va bene, ma li vediamo abbastanza anche da qui senza la necessità di passar loro quasi al fianco, no? Niente da fare, anzi, per meglio godere dell'esperienza, nel momento in cui siamo più vicini, il motore viene messo al minimo per prolungare la sofferente preoccupazione. Per fortuna gli ippopotami saranno stati preavvisati dall'Ente parco, per cui, bofonchiando e spruzzando sterco con il mulinare della coda, in tutto il liquido circostante, per indicare comunque la supremazia sul territorio, il gruppo lentamente si sposta verso l'altra riva del fiume. Santo cielo, meno male che non ci sono coccodrilli. In che senso? E allora, tutti quegli occhietti sporgenti a pelo d'acqua con la feritoia nera sul giallo, il dorso rugoso, marmorizzato e chiaro? Non sono rospi né raganelle, non ce ne sono di così grandi. Stanno lì in paziente attesa lungo la riva, che qualcuno commetta imprudenze; mi raccomando, anche se fa caldo, niente mani in acqua per rinfrescarsi. Eccone lì uno fuori, mimetizzato nel fango tra le erbe. E' piccino e sta immobile come imbalsamato con la bocca leggermente aperta e la membrana dell'occhio a mezz'asta. 

Pare morto, ma basta uno sciabordio dell'acqua e subito saetta il muso appuntito verso il basso, poi si lascia andare alla corrente. Poi due iguane di almeno un metro si lasciano scivolare in basso. Risaliamo la corrente; gli alberi a cui l'erosione ha lasciato scoperte le radici, disperatamente abbarbicati alla riva per non cadere, sono affollati di uccellini minuscoli. E' tutto un pigolar di nuovi nati, dai nidi a penzoloni che oscillano sulla punta dei rami; il martin pescatore testa di martello rimane invece immobile, su un lungo stelo, scrutando lo specchio della superficie, prima di lasciarsi cadere come una lancia verticale a carpire la sua preda. Si ritorna infine al campo, in salvo anche se sdruciti, mentre l'acqua del fiume diventa cupa vinaccia, al calar definitivo della sera. Dopo una parca cena, anche con le pile è difficile ritrovare il sentiero che riporta al bungalow isolato nel bosco. Sono già le nove, è buio pesto; lontano odi il grufolare degli ippopotami che risalgono sulla riva per il sabba notturno tra le frasche, qui il ronzare cupo dello stuolo di zanzare che, incuranti di ogni pur sofisticato prodotto chimico, si preparano al loro banchetto; è arrivata la carne fresca. 




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In volo.

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