Girare per il Grande Rann è storia complicata e anche faticosa. I villaggi sono distribuiti su un territorio vastissimo e questo significa chilometri e chilometri di stradine e piste appena accennate e pesanti da percorrere. Ogni volta devi subire l'opzione tra la nuvola di polvere di limo fangoso seccato che avvolge subito l'auto non appena ti muovi od i sobbalzi spaccaschiena dove le tracce di asfalto antico non sono ancora completamente sgretolato. Spesso buche profonde provocate dai gorghi dell'ultima alluvione obbligano a deviazioni tra i rovi dei campi vicini. Il nostro Meru, assoldato tramite i buoni uffici del cuoco, è una guida improvvisata, che vive a ridosso dell'albergo, il cui merito consiste nel conoscere la strada e di essere introdotto presso i vari gruppi tribali, facilitando così l'accesso alle diverse comunità, tuttavia neanche parla inglese e le informazioni vengono così mediate attraverso le libere interpretazioni di Mohammed che però deve anche fare attenzione a non finire nei fossi. E' pur vero che il suo compenso è misero, ma di certo c'è sempre la speranza di una sostanziosa integrazione proveniente dalle commissioni che spera di portare a casa dai vari acquisti, in fondo quale turistaccio saprà resistere ai lavori dei più abili artigiani dell'India!
Qualche cosa alla fine casca sempre. Così si può vagare per giorni interi per questo spazio vuoto, fermandoti di tanto in tanto tra paludi ad osservare il volo dei flamingos o il becchettare degli ibis che si fanno largo tra gruppi di grasse oche del Nilo. Poi di tanto intanto, tra sequenze di sterpi ed avvallamenti, dove la scarna e assetata vegetazione si fa solo un poco più generosa vedi comparire le casupole o le capanne di qualche villaggio nascosto. Dalla forma puoi capire subito l'appartenenza, perlomeno quella religiosa. Nirona è un agglomerato di case bianche che si raggrumano attorno ad un paio di stradine tortuose che confluiscono su uno spazio centrale. Una, un poco più grande, col tetto dipinto di verde ed un piccolo minareto lo identifica come mussulmano. Un mini bazar e molta gente per le strade, forse anche da villaggi vicini, in fondo questo è già quasi una cittadina e anche se la maggioranza appartiene all'etnia Wasa Koli, noti facce di tutti i tipi che girano per il mercatino a fare acquisti prima di salire sulla corriera sgangherata che aspetta già stracarica su un lato della piazzetta. Turbanti, sari colorati, donne velate e zuccotti bianchi, addirittura una Jat che cerca di nascondere l'enorme staffa di metallo che le pende dal naso.
Ali Lohar costruisce campane e campanelle battendo lastre di metallo con un martello dalla forma contorta su una piccola incudine piantata nella terra del suo laboratorio. Ce ne sono di ogni dimensione, piccole per le caprette, di medie per le greggi capitanate da grandi arieti dalle corna ritorte e di più grandi per bufali o zebù maestosi. I batacchi fanno uscire note sempre diverse, profonde o acute a disegnare una tavolozza di suoni variegata, ma in accordo come sembra di sentire tra la gente che popola la strada. Naturalmente c'è anche tutta la serie di campanelle religiose da appendere per scopi spirituali nei vari templi delle varie religione, pecunia non olet e qui non c'è integralismo, almeno così pare. Un vicino dipinge su rettangoli di stoffe preziose, alberi della vita con complessi arabeschi di tralci e viticci moghul che si intrecciano per riempire completamente il quadro; una cooperativa di donne offre collanine e bambole di pezza di mille colori, giocattoli di legno, stoffe e specchietti. A Bhirandiyara invece sono tutti hindù Megawal. Un gruppetto di bhunga rotonde di fango dipinte da poco di bianco splendente, tutte ricoperte di disegni colorati che raffigurano animali di fantasia, fiori intrecciati, personaggi delle storie sacre.
Cucina di villaggio |
Le donne hanno vestiti ricchissimi ed ampi, con gonne che brillano con mille frammenti di specchietti cuciti tra le pieghe. La parte anteriore del busto è coperta soltanto da una stoffa rettangolare legata di dietro e che lascia scoperta quasi per intero la schiena. Ancora una tribù di Meghawal a Gaudinagam, ma con case più strutturate e ricoperte di affreschi ancora più complessi. Qui gli anziani, dita nodose e visi raggrinziti da ragnatele di rughe profonde, scavano con sgorbie sottili, tavole di legno odoroso in disegni geometrici di pregevole complessità. I visi sono davvero intensi, occhi a fessura sotto contorti turbanti bianchi, volti magri di donne ricoperti di anelli pendenti dal naso ad intrecciare orecchini ancora più complessi, veli trasparenti da cui sfuggono masse di riccioli neri ricoperti da oli profumati, sorrisi aperti di bambine dai braccialetti che tintinnano, cavigliere talmente pesanti che quasi ostacolano il cammino. L'aria intorno è quasi immobile nella calura del mezzogiorno.
Anche la vita è quasi ferma; dall'interno di una capanna senti spignattare, sotto un porticato due donne mondano verdure, mentre sul fuoco nell'angolo, una, cuoce chapatti distendendo con un minuscolo mattarello le palline di impasto che una bimba le porge di volta in volta. Un vecchio malandato, seduto all'ombra scarna di un alberello al centro del paese si china davanti a Meru, gli prende la mano e se la pone sulla testa, un gesto di ringraziamento e di quasi sottomissione. Si sa, quando lui porta qui qualcuno, alla fine qualche cosa al villaggio rimane. Dopo poco le poverissime casupole di Khavda, un villaggio hindù di vasai con grandi forni di terra appena fuori dal recinto e le donne che invece si occupano della pittura e dell'ornamento dei vasi, ricoprendoli di sottili linee bianche che alla fine formano un complesso disegno dalle geometrie sinuose, prima di metterli in cottura. E poi ancora Dhordo con gli specchietti che ricoprono anche le pareti esterne dei bhunga di fango, formando cornici complicate attorno alle aperture delle finestre e delle porte. E' tutto uno scorrere di visi, espressioni, colori, sguardi irresistibili, una festa tripudiante di scatti, accompagnata dal solo timore di non avere abbastanza spazio nelle schede di memoria o carica nelle batterie.
SURVIVAL KIT
Banni area - Banni significa gruppo di villaggi sparsi. Per visitare questi villaggi del Great Rann, è conveniente avere base ad Hodka che si trova in una posizione grosso modo centrale. Potrete fermarvi in questa zona anche più giorni, vedendo ogni volta villaggi e tribù sempre diverse e più sperdute. Necessariamente assoldate una guida locale che permette di essere introdotte nelle varie realtà senza problemi, da quelle più aperte a quelle più scorbutiche. Calcolate 1000 R per tutto il giorno. La maggior parte dei villaggi sono raggiungibili, anche se con fatica con una macchina normale. Troverete qui una grande varietà di manufatti artigianali di grande qualità, dai tessili alle terrecotte, gioielleria in argentone e metalli vari, dipinti e sculture in legno. Comunque non è che sono appesi al pero, i prezzi richiesti spesso sono esagerati e dovrete contrattare alla morte come dappertutto. Chiedete sempre il permesso di fotografare perché in alcune zone come presso i Jat di cui parleremo domani, questo è assolutamente proibito. Tuttavia per gli amanti della parte etnografica, questa è un'area assolutamente imperdibile, battuta solo dal turismo locale e indiano e poco visitata dagli occidentali. Di tanto in tanto avrete occasione di fermarvi in spazi paludosi ricchissimi di avifauna con centinaia di specie stanziali e migratorie, altro spunto di interesse notevole.
Per chi è interessato alle campane di varie dimensioni: Lohar Haji Siddik - Near bus station - Nirona. manufatti di vario tipo. Ve li fa direttamente mentre aspettate. Tirate sul prezzo.
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