mercoledì 9 marzo 2016

Nina

Voglio riproporvi oggi un post del marzo 2012 quando ero appena rientrato dalla Tanzania, dove avevo conosciuto una persona speciale, Nina. In questi giorni lei se ne è andata per sempre e questa volta non per qualche mese come faceva prima, in giro, da qualche parte per il mondo ad aiutare a vivere qualcuno che stava sul fondo della catena umana. A mettere le mani e non le chiacchiere, dentro piaghe infette o semplicemente a riparare con chiodi e martello uno steccato di una scuola. Questa volta nessuno di quelli che la chiamavano Mbeyu, Seme buono, ha potuto aiutare lei. Per lei che risolveva, con capacità da infermiera fratture, croste, dissenterie, ascessi e corpi debilitati dalle carenze in baracche luride, tra stracci infetti e coperte stracciate, niente hanno potuto medici dai camici bianchi e asettiche camere di ospedali moderni. La piangeranno laggiù, dove quel seme buono non potrà più dare buoni frutti.

La storia di Nina

La chiesa di Haneti
Ve l'ho già detto, quando te ne vai in giro per il mondo, capita spesso di incontrare delle persone speciali. Magari il bello di questi incontri sta nell'esperienza che vivi in quel momento, altre volte è che ti fanno riflettere, magari sulla scala dei valori, oppure sull'importanza delle cose. Nina, ad esempio, ha avuto una vita movimentata. Certo poteva starsene tranquilla nella sua bella cascina del Vercellese a coltivar riso da fare con le rane, anche se da un po' dalle sue parti non se ne vedono più. Da ragazzina sognava di fare la trattorista, ma la dimensione della risaia le stava davvero stretta e lei si è sempre considerata cittadina del mondo. Così lo ha girato in lungo e in largo lavorando nel campo dell'istruzione per il ministero, facendosi mandare sempre nelle sedi più disagiate. Asia, SudAmerica, Africa. Certo se fai bene dopo un po' pensano di premiarti, così l'hanno destinata in uno dei posti più ambiti: Bruxelles. Ha resistito solo un annetto, poi ha detto: o mi rimandate in Africa o me ne vado. Hanno detto, probabilmente è matta e così via in Somalia sotto le bombe, Kenia, Uganda, Zambia e altre piacevolezze del genere fino alla pensione. Poi qualcosa bisogna pur fare. Maglia e uncinetto? No. Appena fatto un breve corso da infermiera si è messa a disposizione delle missioni, così via di nuovo, dalla Cambogia a Gibuti e adesso da un paio d'anni, la Tanzania. Alla missione di Kibaigwa, con le sue varie dipendenze a Dodoma e in giro per il distretto centrale, c'è anche tanto lavoro organizzativo da sistemare. Pane per i suoi denti, è sempre stato il suo lavoro, così passa da queste parti sette od otto mesi all'anno, dando una mano alle suore della missione delle Sorelle Misericordiose, che se non stanno attente, la curia porta loro via anche la terra da sotto il convento. Lo scorso inverno però era nato un progetto un po' balzano. 

Capanne ad Haneti
Aprire una specie di ambulatorio per cure di primo intervento nella foresta sulle colline, a due ore di pista da Dodoma, ad Haneti, una zona sperduta di piccoli villaggi e capanne sparsi in una enorme area in cui vivono almeno 7000 persone di varie etnie Masai, Iraki e Bantù prive di qualunque tipo di assistenza, la maggior parte delle quali non ha mai visto la città più vicina. Si è trasferita lì con una borsata di medicinali vari e niente altro. Appena è girata la voce che alla parrocchia c'era una mzungu bionda con gli occhi azzurri che curava la gente, dai villaggi vicini hanno cominciato ad arrivare ed ogni mattina, davanti alla porta scassata della stanza che le avevano dato a disposizione, si formava una piccola coda di una quarantina di persone. Aspettavano in silenzio per ore; non era necessario dare i numeretti, prima passavano le donne coi bambini, poi i vecchi infine gli uomini. Nessuno che protestasse che era arrivato lì al mattino dopo ore di marcia e che erano già le quattro di pomeriggio, tutti avevano capito che prima o poi Nina li avrebbe guardati. Proprio così, le dicevano: guarda mia moglie, mostrandole un seno con un enorme tumore aperto, ma non posso fare niente per questo, tu guardala lo stesso. Guarda mio figlio e si scopriva una testolina piena di croste piene di pus. Guardami qui e ti mostravano i moncherini della lebbra, le prendi le pastiglie, allora stai tranquillo e vai e se ne ritornavano al loro villaggio. E così via, tra ferite infettate, infezioni intestinali, fratture mal guarite, denti marci di cui rimaneva solo la radice da tirar via con le mani. Ogni settimana qualcuno veniva a prenderla da Dodoma e si andava in città a fare rifornimento di altri medicinali, quelli che arrivavano dagli amici italiani. E via a ricominciare con le febbri, gli ascessi, i lebbrosi. Certo capitavano anche casi divertenti. Un giorno arriva un vecchietto che a malapena si regge in piedi. Una donna lo accompagna e lo aiuta a fare con fatica i due gradini dell'ingresso. 

Qual è il problema, dolori alle gambe, cuore indebolito, febbre malarica? No - spiega l'anziano - è che ogni sera vado nella capanna della moglie e faccio il mio dovere di buon marito, ma quando mi alzo e vado nella capanna della seconda moglie, non riesco ad accontentare anche lei, che in questo modo pensa di essere trattata ingiustamente. Non hai qualcosa per aiutarmi? - E' stato cacciato senza soddisfazione, così come quel ragazzo che avendo una ritenzione dei testicoli, non voleva accettare il fatto che non si potesse fare nulla lì, essendo necessario un intervento vero e proprio. Se tu non mi vuoi guardare, ti ho portato un disegno perché tu capisca il mio problema, ed ecco che srotola un foglietto su cui ha disegnato le parti interessate con ogni dovizia di particolari, peli compresi. Sono stati sei mesi durissimi, ma adesso che l'abbiamo accompagnata a vedere come andavano le cose lì, a qualche mese di distanza, sono subito arrivati tutti a salutarla, ad accarezzarle la mano, a guardarla con gli occhi della preghiera. - Mbeyu, quando ritorni ancora? le dicono le donne che ha curato. - Vedi, al mio Pili le croste sono guarite. Kusumba muove bene la gamba adesso, anche Bakori non ha più le febbri. Japori, la donna col tumore invece è morta due mesi fa.- Mbeyu vuol dire Seme buono e a Nina sorridono gli occhi azzurri quando la chiamano così. Dice che ha ricevuto molto in quei sei mesi che è stata lì. Tanto davvero, ti ripete con aria convinta, come quando una vecchia donna che aveva camminato per due giorni per venire all'ambulatorio con gli occhi gonfi e infettati, è ritornata dopo un mese, per dire a Mbeyu che era guarita e che le aveva portato due uova per ringraziarla. Lei le ha prese dalle sue mani e la donna si è voltata per riprendere il sentiero e ritornare al suo villaggio. Forse ha proprio ragione Nina, trattorista mancata.



Ciao Nina.


Se ti è piaciuto questo post, ti potrebbero anche interessare:

4 commenti:

Simona ha detto...

Non riesco a smettere di lacrimare. Le persone straordinarie come lei mi commuovono e mi provocano un ammirazione infinita.

Pierangelo ha detto...

Tutto questo può significare che le persone non sono tutte marce e grazie a dio esistono esseri che fanno miracoli in silenzio e senza pubblicità.
In un mondo in cui l'unico dio è il vil denaro ed il proprio tornaconto rende molto gratificante sentire storie come quelle che tu racconti.
Ricordo un vecchio detto - fai del bene dimenticalo, fai del male ricordalo.
Un caro saluto a tutii.

Enrico Bo ha detto...

@Cicc - E pensa che non ho neppure raccontato che ha avuto una vita personale difficile.

@Pier - Bisogna anche dire che la scia positiva che lasciano queste persone coinvolge anche chi arriva loro in contatto, perché in fondo gli uomini sono fatti così, si fanno contagiare, nel bene e nel male da chi frequentano e alla fine quando ci stai un po' assieme migliori anche tu.Per questo sono davvero contento di averla conosciuta.

Anonimo ha detto...

on peut oublier un lieu visité mais jamais une rencontre aussi enrichissante .C'est pour ça egalement qu'on voyage .Merci pour cette belle histoire .Jac.

Where I've been - Ancora troppi spazi bianchi!!! Siamo a 119 (a seconda dei calcoli) su 250!