giovedì 7 luglio 2016

Una valle in Nepal

Gandrung - Nepal - gennaio 1976

Non mi è mai piaciuto camminare; non so come dire, specialmente se appare come una cosa inutile, fine a se stessa, fatta per il piacere di farlo. Invece quando è capitato che fosse necessario, in quanto unico modo per arrivare in un determinato posto, allora è diverso. Va bene direte voi, chi è causa del suo mal pianga se stesso, però all'età di 30 anni, si può anche dire che me le andavo a cercare. Allora andare a camminare nelle valli himalayane era molto stimolante e quella quindicina di giorni nella valle del Kali Gandaki, una della più belle del Nepal, mi ha dato sensazioni che tengo ancora adesso preziose dentro di me. Era un su e giù continuo per colline corrose dalle piogge torrenziali del monsone estivo, circondate da quinte di neve eterna imponenti e capaci di intimidirti. Himachuli, Macchapuchari, Annapurna, Daulagiri, nomi che emozionavano solo a sentirli,mentre li guardavi dal basso pronunciandoli. Però quello mi è sempre bastato. Non ho mai sentito dentro quel desiderio di sfida e di conquista che ti muove a volerne violare la cima. Arrivare in punta. 

Questa è una motivazione tutta occidentale, che ti costringe a voler arrivare dove nessuno ha ancora messo il piede, una sfida con la natura e con te stesso che non riesce ad emozionarmi. Come la gente che ci ha sempre abitato, sotto quei monti, e che queste pulsioni non conoscono, anzi neanche le comprendono bene, io mi sono sempre sentito appagato di guardarle dal basso, ebbro di quei panorami estremi ma non troppo, piuttosto in sintonia con quella gente che lì attorno elabora la propria vita. Erano villaggi raggiungibili solo a piedi in giorni e giorni di cammino su sentieri erti o fatti a scale infinite che risalivano il fianco della montagna per poi ridiscendere a precipizio per raggiungere l'altra parte della valle. Landrung, Gandrung, Gorepani, nomi di villaggi tutti uguali di poche case volte a solatio per prendere anche gli ultimi raggi del sole durante l'inverno. Gente rude, quasi tutti Gurkha, stirpe guerriera, abituata a vivere con quello che dava la montagna attorno. Questa bambina che si trascinava il fratellino sulle spalle mentre governava un gruppo di capre nere e magre, su uno spoglio  pascolo invernale, guardava curiosa, forse si chiedeva che ci facessero quei due occidentali che di capre non ne avevano neanche una. 

Oggi avrà una cinquantina d'anni, sempre che sia ancora viva e di occidentali, ne avrà poi visti passare chissà quanti. Forse si sarà sposata qualche anno dopo con un ragazzo del villaggio vicino e se non è morta di parto avrà scodellato un buon numero di ragazzini la maggior parte dei quali non sarà arrivata a cinque anni. Forse, come si vedeva dagli occhi svegli e curiosi, avrà usato la sua casa per ospitare qualuno di quei matti di passaggio, magari all'inizio facendo solo mettere le loro tende nel cortile e preparando qualche cosa da mangiare, un bad and breakfest ante litteram che ha permesso di vivere alla sua famiglia una vita non agiata ma tranquilla. Adesso magari ci sarà un cartello fuori su cui uno dei figli, andato a scuola, avrà compitato in lettere incerte Free wifi o homemade cooking, perché anche dopo 40 anni non ci sarà ancora la strada ma certamente internet sì e qualche suo nipote sarà seduto al bordo del villaggio con lo smartphone cinese in mado che posta su Facebook. Lalumai invece, così si chiamava quella bambina, scampata al terremoto, sarà dietro in cucina a preparare verdure tagliate o a cuocere chapatti in attesa che arrivi il prossimo gruppo di turisti.

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